L'ho amata e l'amo

Scritto da  Vittorio Emiliani

Florestano Vancini con Lisa Gastoni e Leonard Mann sul set di Amore Amaro, nel 1974.Incontro con il regista Florestano Vancini, un ferrarese di campagna esule a Roma.

 

Florestano Vancini abita a Roma ormai da un quarantennio, ma è come se non avesse mai lasciato veramente la sua Ferrara. Lui che, peraltro, è alle origini un ferrarese di campagna, di quelli cioè che conoscevano bene il mondo che stava - «Adesso, praticamente, non c'è più» - al di là delle mura estensi. Gli dico che anch'io, fra il 1948 e il 1951, vivendo a Copparo e studiando a Ferrara, ebbi via via l'impressione che la città e i suoi ceti medioalti fossero come separati dai contadini, dai braccianti (una marea di sottoccupati) che popolavano la campagna.


Dove Florestano (nessuna scelta "musicale", una bizzarria dei nomi molto ferrarese) è cresciuto fino a tredici anni - a Boara - andando e venendo in bicicletta, anche con la neve, quando ha cominciato le medie inferiori a Ferrara. Anche la prima residenza cittadina è stata fuori Porta Mare, ancora al di là delle mura («che i miei coetanei della buona borghesia superavano per andare in campagna a merenda»).

Infine la casa della giovinezza nella magnifica, ariosa piazza Ariostea, dove ha ambientato una calda scena d'amore, con la bella Lisa Gastoni, di Amore amaro, un film al quale è legatissimo.

 


Florestano Vancini in un recente ritratto.A quasi settant'anni, Vancini è alto, dritto, asciutto, pieno di fervore e di progetti in cui Ferrara per qualche verso ritorna sempre. «I Vancini», racconta, «vengono tutti da Cento, dalla "partecipanza" centese. Ne parla, la prima volta, un contratto vescovile di enfiteusi concesso ai Vancini nel Duecento». Una "ferraresità" quindi totale, la sua. «Difatti il mio rapporto, quando venni a stare a Roma, è rimasto forte non soltanto con la città, ma anche col suo territorio. Avevo talmente assorbito la campagna di allora che, quando mi capitò - una decina d'anni fa - di girare La neve nel bicchiere, ambientato nel mondo contadino di fine Ottocento, mi trovai ad insegnare io certi gesti, anche tecnici, ormai scomparsi». Dunque casa, alla fine, in piazza Ariostea; liceo, quello scientifico, in via Borgoleoni, fra gli anni del massimo consenso al regime e la guerra.

 

Ma la folgorazione del cinema, quando? «Tardi. In casa mia si ascoltava l'opera, la prosa alla radio. Al Teatro Verdi ricordo di aver sentito Gigli, Schipa, la Caniglia. Ma i miei genitori - mio padre era stato a lungo postino a Boara - non credo fossero mai andati al cinema. Poi, quasi un colpo...» Con quali film? «Due soprattutto: Ombre Rosse di John Ford e La grande illusione di Jean Renoir».

Appena prima che lo vietassero. Sulla città cala l'ala buia della guerra: i bombardamenti martellanti, quel tragico 15 novembre 1943, il primo giorno dell'anno scolastico iniziato in ritardo, grida di donne «Ci sono morti al castello!».
Il liceale Vancini corre là: i corpi degli antifascisti fucilati giacciono ammassati, «un trauma per tutti quelli della mia generazione, per la città intera. Un clima orribile».

 

Nell'estate dell'anno prima Luchino Visconti aveva girato Ossessione fra Ferrara e il Po; in Florestano era già scattata la folgore della passione cinematografica: «Appena potevo correvo, cercavo - spesso invano -di assistere alle riprese,» racconta ora. «Ai ferraresi parvero invece deludenti, povere scene di vita quotidiana. No, non era quello il cinema che sognavano. Chissà come dovevano girare Gary Cooper e Clark Gable. Finita la guerra mi misi a scrivere recensioni su un giornaletto studentesco che uno di noi redigeva poi in bella calligrafia».

«Con la Liberazione, poco dopo, scoppiò una vera febbre del cinema anche a Ferrara. Fu attorno a Claudio Varese, allora professore di lettere nelle scuole superiori, che creammo il primo circolo del cinema. Le proiezioni si tenevano all'"Apollino", di domenica mattina, e ci veniva parecchia gente.» Gli chiedo di Michelangelo Antonioni: «Dopo il documentario Gente del Po era già andato a Roma, stabilmente.»

Insomma, non ci fu per Florestano un fratello maggiore, se non un padre, che a Ferrara lo iniziasse alla macchina da presa?
Sorride. «Nel '49 decisi che avrei fatto il regista. Una decisione folle non avendo un capitale, almeno iniziale, di famiglia. Lo decisi insieme a un amico, Adolfo Baruffi, che poi ha preso altre strade, usando un po' di risparmi miei, di mio padre.»

 

 

Florestano Vancini con Belinda Lee preparano una scena de La lunga notte del '43.E i mezzi tecnici? A Ferrara viveva e lavorava («A noi pareva quasi un vecchio») un operatore degli anni del muto, poi corrispondente dei Film Luce, Antonio Sturla, «il quale aveva un parco-lampade, un carrello, un binario, oltre a tanta esperienza. E facemmo il primo documentario. Allora c'era una legge che assegnava premi ai migliori. Girammo Amanti senza fortuna nel '49». Immagino Ugo e Parisina, un passaggio, a Ferrara, ineludibile. «Già, obbligato.» E poi, illuminandosi al ricordo: «Prodotto dalla Este Film di Florestano Vancini.» Fu l'occasione per conoscere meglio Antonioni il quale, a Roma, gli dette utili consigli per il montaggio.

A differenza dei due amanti finiti decapitati, il documentario ebbe fortuna, vinse il premio di qualità, e Vancini e Baruffi lo vendettero bene. Così bene che, incontrando alla stazione di Ferrara l'assicuratore Giuseppe Pasquale (che poi entrò con altri nella Este Film), gli mostrarono l'assegno e lui, da competente, commentò: «Ciò, as fa di bai baiuchìn col cine." Comincia così la lunga, appassionata gavetta di Vancini regista di documentari: ben trentasei, tre dei quali, i primi, con Baruffi, dal 1949 al 1959. Quasi tutti dedicati alla realtà di Ferrara e del ferrarese, prima IN bianco e nero, poi a colori.

Di uno, girato nel 1952 col commento dell'amico Vittorio Passarini - lo specchio, quarantadue anni prima, del video ultimato quest'anno sulla capitale estense - conserva un ricordo bello e bruciante insieme. Se n'è persa traccia, ogni copia, tutto. «E invece, quella Ferrara di messer Ludovico girata allora ci consentirebbe di misurare il salto che c'è stato IN questo quarantennio.» Un salto che i giovani nemmeno possono immaginare.

 

 

Vancini nei panni del prete in La donna del fiume di Mario Soldati; sullo sfondo si nota Sofia Loren. Dopo trentasei documentari e due aiutoregie - con Mario Soldati per La donna del fiume (dove lavorò alla sceneggiatura con Pier Paolo Pasolini) e col coetaneo bolognese Valerio Zurlini per Una estate violenta - la prima regia, per il più ferrarese dei suoi film, La lunga notte del '43, tratto dal celebre racconto di Giorgio Bassani, altro ferrarese trapiantato a Roma senza mai cessare di coltivare le lontane radici.
Ed è subito una storia cinematografica alta, compatta, ricca di pathos e di sapore evocativo: struggente quella sequenza del cinematografo cittadino, forse proprio l'"Apollo", in cui il giovane Florestano fu folgorato dal fordiano Ombre rosse.

Che differenza tra la Ferrara di allora e quella odierna? «Allora si può dire che fosse ancora la "città del silenzio" cantata da d'Annunzio, bellissima e però come svuotata da quel fatale 1598 in cui gli Estensi furono costretti a lasciarla per Modena e non fu più capitale,» osserva assorto Vancini. «Secoli e secoli di silenzio. Poi c'è stato un innegabile sviluppo, di recente anche culturale, importante, importantissimo per ritrovare identità perdute, per sormontare quella pigrizia esistenziale che sembrava la caratteristica dei ferraresi. Attenti però a non fare delle città antica il contenitore, bellissimo ma quasi casuale, di avvenimenti d'eccezione. Dentro le mura bisogna cancellare il malfatto del dopoguerra e rendere "sacro", intoccabile tutto, compreso il paesaggio intorno.»

Parliamo ormai da due ore e mezzo ed è tutta una dichiarazione d'amore per Ferrara. «L'ho amata e l'amo,» conclude Florestano Vancini, «nonostante viva a Roma dal 1952. La mia vita sarebbe stata diversa, diversissima se fossi nato altrove.»
«Ferrara mi fa come sono e ogni volta che passo in piazza Ariostea provo un'emozione intensa, indefinibile, lontana e vicina. Un po' come quando gli amici che vanno a visitarla tornano a Roma e mi telefonano per dirmi: "Non avrei mai pensato che Ferrara fosse così bella"».