Italiano di Ferrara, europeo di Venezia

Scritto da  Alessandro Meccoli

Vittorio Cini con la figlia, principessa Yana Alliata.Un ritratto di Vittorio Cini.

C'era una fotografia che Vittorio Cini aveva molto cara e teneva incorniciata nello studio a pian terreno del suo palazzo veneziano di San Vio, d'angolo sul Canal Grande, tra tutti i fondi oro prediletti. È un'istantanea del settembre 1955 che lo ritrae con Bernard Berenson mentre scende la scala dei Giganti, nella corte di Palazzo Ducale. Cini aveva settant'anni, allora, e Berenson novanta: nella fotografia il critico e storico dell'arte americano, con il cappello in testa e un plaid sul braccio in piena estate, sembra un padre dall'incerto passo, aggrappato al braccio di un figlio nel rigoglio degli anni. Berenson potrebbe aver concepito proprio in quel momento la definizione di Cini che troviamo nei suoi diari: «il solo italiano faustiano che abbia conosciuto».


Non mi risulta che Vittorio Cini avesse fatto un patto col diavolo. E' anzi certo che nell'ultimo terzo della sua lunga vita (Ferrara, 20 febbraio 1885 - Venezia, 18 settembre 1977), specialmente dopo la morte del figlio Giorgio, ne instaurò uno profondo, sentito e talora sofferto con il Padre Eterno. E se Berenson lo definì faustiano è perché Vittorio Cini possedette tutto, in una pienezza di rado consentita agli umani: la bellezza e la forza, una straordinaria carica vitale, il denaro, il potere e - in senso ariostesco - l'armi e gli amori. Cito Ariosto non soltanto perché Cini era ferrarese; ma perché rinascimentale fu il suo gusto del bello e, in definitiva, tutta la sua concezione della vita e la sua inesauribile curiosità degli uomini e del mondo, la sua capacità, essa pure in qualche modo faustiana, di rigenerare tutto ciò, cosa o persona, che incontrava sul suo cammino.

Non è luogo comune dire che la sua vita è stata un romanzo, e come tale andrà un giorno narrata. La conclusione imminente di un secolo ch'egli visse da protagonista consente agli storici di mettere più nitidamente a fuoco la sua figura, mentre il ventesimo anniversario della sua morte consente ai suoi concittadini ferraresi - cui molto egli ha donato, e in senso tutt'altro che dannunziano! - di approfondirne il ricordo e la conoscenza più e meglio di quanto la sua città natale ha saputo fare fin qui.


Il Patriarca di Venezia - futuro pontefice con il nome di Giovanni XXIII - cardinale Roncalli, riceve il presidente della provincia di Venezia, Favarozzo Fisca, e Vittorio Cini.Tant'è che nella riscoperta anche storiografica di Vittorio Cini le Università di Venezia e di Padova sono oggi assai più avanti di quella di Ferrara, alla quale pure egli donò il palazzo di Renata di Francia. Ho avuto il privilegio di essere il più giovane dei suoi amici - cinquantadue anni ci dividevano - e posso testimoniare che il suo rapporto con Ferrara rimase intatto e fortissimo, addirittura viscerale, fui all'ultimo. Vi si recava, puntualissimo com'era in tutto, ogni primo venerdì del mese. Qualche voltai l'ho accompagnato: si andava al cimitero, dove oggi anch'egli riposa accanto ai suoi cari; poi a gustare la salama da sugo dal notaio Brighenti; quindi nella sua casa natia, da lui donata alla Curia e trasformata in centro culturale.

 

Mi narrava della sua giovinezza ferrarese; dei suoi amici intellettuali, da Nello Quilici a Nino Barbantini (che fu poi il primo presidente della Fondazione Giorgio Cini a Venezia, negli anni Cinquanta); di Italo Balbo, che nel 1926 gli aveva portato la tessera del Fascio a casa, per essere sicuro che l'accettasse (attenzione dunque: di chiare origini liberal-giolittiane, Vittorio Cini, al pari del suo fraterno amico e socio Giuseppe Volpi a Venezia, aderì formalmente al fascismo soltanto nel Ventisei, a cose fatte); e mi illustrava il suo piano di bonifica e di riorganizzazione agricola e fondiaria del Ferrarese, di cui andava molto fiero e che servì da modello per il resto d'Italia.

Possiamo dire che Ferrara, per Cini, era appunto l'Italia: quell'Italia padana del Rinascimento di cui era orgoglioso e tenace figlio; Venezia fu la sua porta sull'Europa e sul mondo, il magico crocicchio del suo cosmopolitismo. Le accomunò esistenzialmente fin da ragazzo, queste due città, poiché lo avevano mandato a studiare al veneziano collegio Ravà; Ferrara e Venezia sono sempre rimaste i suoi punti fermi. Tant'è che se fra le due guerre mondiali Venezia era tornata a essere una capitale della finanza e dell'economia, oltre che della marineria e della cultura, il merito concreto va ascritto a Cini non meno che a Volpi.

Volpi e Cini: due vite davvero parallele. Entrambi erano già personaggi di risalto nazionale nell'Italia prefascista; nel 1921, Giuseppe Volpi venne nominato governatore della Tripolitania e Vittorio Cini fu incaricato, come commissario straordinario del governo, di risanare l'Ilva altiforni e acciaierie d'Italia, che era sull'orlo del fallimento. Meno di due anni dopo, l'Ilva era salva e nuovamente competitiva; nessuno dubitava più che Cini fosse un genio della finanza.
È incredibile quello ch'egli riuscì a fare negli anni Venti, dopo aver servito nella Grande guerra come ufficiale di cavalleria; e dopo aver ereditato dal padre Giorgio, nel 1917, un patrimonio tra i maggiori dell'Emilia, tant'è che Vittorio avrebbe fatto la sua parte anche se si fosse limitato ad amministrarlo.

Mentre Volpi era in Tripolitania, Cini fu il vero realizzatore del porto industriale e del primo quartiere residenziale di Marghera. E mentre da un lato, con Volpi e Achille Gaggia, costituiva quel "gruppo veneziano" che fu una delle maggiori potenze finanziarie ed economiche dell'epoca (con interessi che andavano dalle centrali elettriche della Sade fino ai grandi alberghi della Ciga), contemporaneamente gestiva e sviluppava, di qua e di là del Po, un grande impero agrario, risanando il Ferrarese. In soli sei anni il suo patrimonio aumentava da 43 milioni di lire del 1919 a 87 milioni nel 1925.
Frattanto, il 19 giugno 1918 aveva sposato l'attrice teatrale e cinematografica Lyda Borelli, da cui ebbe quattro figli: Giorgio nel 1918, Mynna nel 1920, le gemelle Yana e Ylda nel 1924. (Rimasto vedovo nel 1959, si risposò con Maria Cristina dal Pozzo d'Annone).

Un altro capitolo della sua attività imprenditoriale negli anni Venti merita una rinnovata attenzione oggi, quando le imprese italiane tornano a rivolgersi all'altra sponda dell'Adriatico e ai Balcani: finita la Grande guerra, finiti con essa l'Impero asburgico e quello ottomano, avversari storici della Serenissima, si trattava di restituire a Venezia, arricchita dal modernissimo porto industriale di Marghera, il suo ruolo storico di capitale marittima-armatoriale dei traffici con il Levante mediterraneo. Fu questa appunto un'altra titanica impresa di Vittorio Cini, completata con la creazione della Compagnia adriatica di navigazione nel 1932 e della Società italiana di armamento Sidarma nel 1938.

 


Un ritratto di Giorgio Cini, perito in un incidente aereo il 31 agosto 1949...Frattanto, nel 1934 il suo patrimonio era salito a 121 milioni di lire; e il 23 gennaio di quello stesso anno era stato nominato senatore per la XXI categoria, cioè per censo, secondo lo Statuto Albertino allora vigente. Finanziere e imprenditore per un verso, uomo autenticamente innamorato della cultura e delle arti per un altro, Cini non fu mai un politico militante: conservò la sua autonomia di comportamento e di giudizio anche quando fu, nel 1943, ministro delle Comunicazioni. Già nel suo primo intervento al Senato, il 1° aprile 1935, sullo stato di previsione della spesa del ministero delle Corporazioni, non aveva risparmiato critiche alle «degenerazioni» degli «estremisti del corporativismo»; tant'è che Giuseppe Bottai gli replicò aspramente in Critica fascista.

 

Insomma, Cini continuava a preferire le grandi imprese concrete. E Mussolini mostrò di averlo capito, nominandolo nel 1936 commissario generale dell'Esposizione Universale di Roma. E qui Cini ebbe un altro colpo di genio; anzi, due: comprese che, al di là della retorica post-romana del regime, era saggio non sprecare denaro pubblico in effimeri quartieri fieristici, bensì creare insediamenti "definitivi", nella logica non già di una periferia, bensì di una "città nuova", di una "metropoli" nella quale gli uomini sarebbero andati a vivere; contro tutte le pressioni romanesche e papaline, impose la localizzazione in una sola area di 400 ettari, quella dell'abbazia delle Tre Fontane, anziché in tre zone diverse a Roma, alla Magliana e al Lido di Ostia.

Così è nata l'Eur, l'unica città integrale che l'Italia moderna sia stata capace di creare, a onta e ignominia delle orride periferie con cui nell'ultimo mezzo secolo abbiamo insozzato le nostre città antiche. Fedele al suo motto, che le cose fatte bene possono costare anche meno di quelle fatte male, questo grande uomo fece fare un eccellente affare allo Stato: già prima della guerra il valore delle aree dell'Eur, espropriate a 4 lire al metro quadro, era salito a 400; e pur essendo venuto a mancare, per cause belliche, lo scopo primo dell'impresa, dopo il conflitto l'Eur ha salvato Roma dall'esplosione urbanistica e abitativa.

 


Casa Cini a Ferrara, oggi.Ed eccoci all'annus horribilis, il 1943. Costretto da Mussolini, in febbraio, ad assumere la guida del vitale dicastero delle Comunicazioni, mentre le sorti del conflitto già per noi precipitavano, Cini accusò subito formalmente i tedeschi di non mantenere i loro impegni verso di noi. E Goering disse a Mussolini: «Finalmente in Italia ho conosciuto un uomo»; che era Cini, ovviamente. Quest'ultimo, sul fronte interno, cominciò a denunciare sistematicamente al Duce quel che tutti gli nascondevano: l'impossibilità di continuare la guerra con la Germania. Fino al vero e proprio pronunciamento che Cini, spalleggiato dal guardasigilli De Marsico, esternò a Mussolini nel Consiglio dei ministri del 19 giugno 1943, aprendo di fatto la crisi di regime che si sarebbe poi consumata il 25 luglio, con l'arresto di Mussolini da parte del Re.


Cini, ovviamente, si dimise subito da ministro; ma Mussolini tenne le sue dimissioni nel cassetto fino al 23 luglio. E non fuggì, Cini, pur sapendo che il Duce non gliel'avrebbe perdonata; non scappò nemmeno quando a Roma arrivarono i tedeschi, che lo arrestarono il 23 settembre 1943 e lo spedirono a Dachau.

Dopo parecchi mesi terribili, il figlio Giorgio riuscì rocambolescamente a farlo trasferire in clinica a Friedrichroda e, di lì, a farlo ritornare, nel luglio 1944, in Italia; malridotto com'era, Cini fu nascosto e curato in una clinica presso Padova. Là, fra il luglio e l'agosto 1944 prese segreti contatti con il presidente del Comitato di Liberazione Nazionale veneto, Egidio Meneghetti, e divenne il principale finanziatore delle Resistenza veneta, cui contribuì con cinquanta milioni dell'epoca. Nel luglio 1945, mentre Cini aveva raggiunto Volpi in Svizzera, la commissione d'inchiesta del Cnl veneto, presieduta dall'economista Gino Luzzatto, scagionava Cini da ogni addebito, definendolo «un raro esempio di laboriosità, capacità creativa, rettitudine politica e spirito di patriottismo».

 


Un'altra immagine di Casa Cini a Ferrara, oggi. Infine, il 5 marzo 1946, il Consiglio dei ministri, per impulso di Alcide De Gasperi  e di Carlo Sforza, restituiva a Cini la legittimità del titolo di senatore, per aver egli preso «netta posizione contro le direttive del regime» e aver dimostrato «vivo patriottismo e violenta avversione al fascismo e al tedesco invasore». Ecco perché il nostro preferì, fino alla morte, quello di senatore sopra tutti i suoi altri titoli.

La provvidenza gli preparava intanto nuove, terribili prove: la morte atroce del figlio Giorgio, il 31 agosto 1949, nel rogo del suo aereo all'aeroporto di Cannes, sotto gli occhi della fidanzata Merle Oberon; e la Fondazione che alla memoria di lui  volle dedicare, restaurando a proprie spese l'isola di San Giorgio Maggiore, in faccia a San Marco, trasformandola nel massimo laboratorio culturale della civiltà veneziana: un'impresa di mecenatismo privato tra le più importanti su scala mondiale del secondo Novecento.
Vittorio Cini è stato anche il primo a intuire i nuovi orizzonti del problema di Venezia, nel segno di uno sviluppo compatibile con la sopravvivenza  della città e la salvaguardia della laguna. Dopo l'apocalittica "acqua alta" del 4 novembre 1966, con l'onestà intellettuale che lo contraddistingueva, comprese per primo che la città e la laguna non avrebbero retto a un ulteriore sviluppo dell'industria di base, di quella Marghera che lui stesso aveva creato insieme a Volpi.

Su tutto ciò, come sulla complessa questione dei rapporti di Cini con il fascismo, stanno lavorando sempre più alacremente gli storici contemporanei. A me lo spazio in questa rivista consente ormai solo di ricordare che egli fu anche il più affettuoso, liberale e fedele degli amici: anche in ciò umanista, anche in ciò rinascimentale. In nessun luogo si coglie il suo spirito, io credo, meglio che all'isola di San Giorgio Maggiore dove, nel primo chiostro palladiano, una lapide lo ricorda con quattro parole: Si monumentum requiris, circumspice, se cerchi il suo monumento, guardati intorno.