le discussioni intorno al poema eroico, a cui aveva preso parte viva all'ombra del padre, gli facevano apparire quel genere letterario come l'unico capace di conferire fama sicura a chi avesse saputo andare oltre la sfortunata prova del Trissino e corrispondere così all'aspettativa di tutto il mondo letterario contemporaneo;
il riuscire a fare opera diversa e più moderna di quella grandissima dell'Ariosto, emulando i maggiori modelli dell'epica classica, sembrava dovergli agevolare la via d'accesso alla corte estense;
i ricordi dei racconti ascoltati da fanciullo a Cava de' Tirreni, nei quali rivivevano, tra storia e leggenda, la figura del papa Urbano II e le imprese dei crociati, fondendosi con le personali trepidazioni per la sorte della sorella Cornelia, dopo l'incursione piratesca sulla costa amalfitana, e i generali timori del pericolo turco largamente diffusi in tutta Europa e particolarmente a Venezia, gli indicavano la traccia di un tema vivamente attuale;
la lettura, infine, degli antichi cronisti delle crociate, stampati e ristampati in territorio veneto, e ancor più forse la suggestione diretta delle narrazioni orali che gli uomini d'arme e i mercanti avevano recato via via dall'Oriente, precisavano e arricchivano quella traccia, delineando il grande disegno dell'opera.
Da tutti questi stimoli tra loro concorrenti, e anche per l'insistente incoraggiamento del Cataneo, affettuoso consigliere e prezioso collaboratore, il Tasso fu tratto ad abbozzare il primo canto del Gierusalemme, poco più di un centinaio di ottave ove è sommariamente svolta parte della materia che sarà poi distribuita nei primi tre canti della Liberata. Si trattò di un tentativo destinato ad arrestarsi alle prime difficoltà. Di troppo, infatti, l'ambizioso progetto sormontava le capacità del giovane poeta, già tecnicamente e culturalmente provveduto, ma nutrito appena di esperienze puramente letterarie e animato solo da un ingenuo vagheggiamento eroico.
Gli mancavano ancora quel complesso d'affetti e di convinzioni e quella maturità e profondità di motivi interiori che avrebbero potuto assicurare all'opera salda architettura, durata narrativa, ricchezza e varietà di temi e, soprattutto, un autentico centro ispiratore. E tuttavia sarà da sottolineare l'importanza di questo tentativo, perché ci tramanda l'immagine più vera del Tasso, còlta nelle sue schiette fattezze: l'immagine di un adolescente e aristocratico poeta, ardente, generoso, sensibile e gentile, inteso a rievocare, con sincera passione e convinta serietà, gli avventurosi cavalieri (ché tali sono ancora i crociati del Gierusalemme) nel fervore delle loro corse diurne e nell'immaginazione delle lunghe notti all'addiaccio, in un'atmosfera di imminente trionfo.
Il grande decennio 1564-1574 e quindi il triennio 1575-1577 costituiscono il periodo della ripresa della Liberata e del suo compimento, della sua chiarificazione e difesa critica, oltre che delle più profonde e decisive esperienze umane del Tasso. Sono gli anni in cui la sua coscienza, attivamente inquieta, e la sua opera poetica riflettono l'assillante antinomia dell'età controriformistica, ponendosi di fronte a essa con il generoso intento di conciliarne i motivi opposti e di esprimere nell'arte la raggiunta concordia. Impresa difficile, a cui il Tasso si dedicò con slancio e fervore e da cui doveva uscire alla fine stremato.
Egli, infatti, si sforzò di risalire alla luce da una condizione sentimentale assai turbata e di ristabilire l'equilibrio ormai spezzato tra soggettività arbitraria e aspirazioni comuni, liberando se stesso e i suoi contemporanei dalle insidie opposte ma egualmente funeste dell'edonismo estetico e del regolismo esteriore.
Questo spiega perchè il lungo lavoro della Liberata è vigilato all'inizio dai Discorsi dell'arte poetica e tutelato alla fine dalle Lettere poetiche a Scipione Gonzaga.
Così il Tasso manifestava, oltre alla propria, un'esigenza fondamentale della sua epoca, intensamente votata all'esercizio critico e alla teorizzazione estetica, a differenza della precedente che aveva veduto gli artisti risolvere ogni loro problema nello stesso momento creativo con naturalezza e felicità mai più ricuperate.
In pochi poeti, pertanto, la meditazione sull'arte, e particolarmente sul poema eroico, ebbe un carattere così serio e un'importanza così decisiva come nel Tasso. I Discorsi dell'arte poetica, infatti, non costituiscono una poetica astratta, mero riflesso di una speculazione intellettuale, ma la consapevole e necessaria presa di coscienza delle questioni ineludibili che la Liberata, appena avviata, imponeva al Tasso.
In questi Discorsi, dove l'aristotelismo è assunto con eccezionale discrezione e personalmente utilizzato in rapporto all'opera in fieri, il poeta ha imposto con chiarezza i termini interni e stilistici di quel rapporto dialettico tra affetti e ragione, tra moralità e retorica, tra ispirazione religiosa e classicismo, che gli sembrava realizzabile solo col ritorno ai modelli della perfezione antica, illuminata di spiritualità cristiana.
Solo chi non vede l'esigenza profonda d'ordine e di chiarezza che è implicita in questa trasposizione tassiana dell'aristotelismo sul terreno della problematica contemporanea, può considerare la struttura della Liberata come un macchinoso congegno, una cornice puramente retorica; e gli sfuggirà così l'assidua tensione, tra l'energica spinta unitaria e l'opposto impeto delle forze centrifughe, che costituisce in realtà l'irrequieta e indocile vita interna del poema.
Perché l'unità per il Tasso è in definitiva un bene da ricuperare faticosamente nella propria coscienza, prima che nell'arte, un premio costantemente conteso.
Ed è perciò fatale che da quel processo uscisse una struttura del tutto nuova, fondata non sopra un'unica e fortissima sollecitazione, ma sopra un ritmo alterno di spinte e controspinte che ora impongono alla poesia tassiana sviluppi ascendenti, a spirale (con quelle vertiginose impennate verso zone di assoluta pacificazione, di ansia purificata), e ora sviluppi diversivi, più distesamente autonomi, ma mai del tutto eccentrici rispetto all'azione centrale.
Il risultato è un'originale compenetrazione di piani diversi, in cui i momenti eroici (storici e morali) e quelli lirici (sentimentali e autobiografici) strettamente si intrecciano e reciprocamente si trasfondono attraverso successive increspature e secondo impulsi subitanei ed eccitati, in un continuo e spesso repentino mutare di luci e ombre, di opposte prospettive, entro una dimensione narrativa a costante doppio registro.
Il costante bifrontismo spirituale del Tasso trova solo nella Liberata la sua vera forma congeniale, la sua più compiuta sanzione artistica. Gli ameni inganni e le alte disposizioni vivono infatti, nel poema, in una luce comune di vibrante trepidazione. Tanto sui personaggi che sui luoghi, innestati di scorcio e in funzione di partecipante, si stende l'ombra di una minaccia, di una segreta insidia.
E' la tipica suspense tassiana. Non quella romanzesca, estrosa e inventiva dell'Ariosto, quel sublime espediente narrativo calcolato come un congegno perfetto (con le argute e innocenti assunzioni del sortilegio), ma una suspense che è inerente alla coscienza stessa del poeta, proiezione letteraria del suo sgomento di fronte alla realtà.
Così il piacere appare insidiato dal sentimento della labilità, e si fa tanto più acre e voluttuoso quanto più se ne avverte l'effimera durata; l'amore è contrastato alla corresponsione negata esoprattutto dai presagi funesti e si nutre di languidi ardori o di disperata mestizia; la fama terrena è corrosa dal trascorrere del tempo, e lascia di sé solo un'eco fragile che il vento disperde; la natura finge promesse e lusinghe, ma improvvisamente impietrisce in un pauroso squallore desertico; gli eventi sono soggetti all'estro imperscrutabile e spesso crudele della fortuna, sì che la gioia è costantemente minacciata dal dolore; l'idea stessa della vita, infine, è ovunque associata a quella della morte.
E', insomma, un continuo oscillare tra verità e apparenze, in un mondo non rappresentato nitidamente con distacco e sicurezza, ma filtrato attraverso una sensibilità ansiosa e irrequieta. Anche il "magismo", realizzato con l'innesto del meraviglioso religioso entro la storia, corrisponde del resto a questo senso costante del mistero che grava sulla vita, e la fa penosa e dolente, penetrando nel cuore degli uomini e agitandoli oscuramente, popolando la natura di strane voci e malefici incanti.
Ma la suspense tassiana non ha solo questo registro basso, questo tono sensuale, allucinato e talvolta anche torbido e morboso, quasi preludio a un'irreparabile catastrofe.
Le si associa, infatti, un registro acuto, energico, attivo, che mitiga quell'angoscia e spesso la redime, ricuperando, giusto al limite dove ogni energia si sfrangia e si dissolve, un sentimento ancora generoso e intenso della vita che sorregge e illumina i gesti eroici, trattiene le impazienze e fortifica lo spirito nella rinuncia, celebra il sacrificio, esalta la pietà e la gentilezza, consola i pianti segreti, illumina anche la morte di una sublime speranza, mentre i paesaggi si liberano degli incantesimi orridi e paurosi e la natura sorride conciliata sotto cieli rifatti finalmente sereni e benigni.
Il complesso accordo di questi due registri costituisce il nodo vitale della Liberata, la condizione della sua originale riuscita poetica. Su di esso incombono continuamente due pericoli: da un lato, quello di abbandonarsi con troppa compiacenza al puro ineffabile, all'inquietudine fuggitiva, vanificando la realtà nell'unica direzione del brivido esistenziale; dall'altro, quello di alzare solo volontariamente il registro "eroico", tacitando l'intimo assillo con l'enfasi sonora dell'eloquenza.
Né si può dire che il Tasso non abbia talvolta soggiaciuto alla tentazione delle soluzioni facili, onde la sua poesia si attarda talvolta in artificiosi espedienti, nella duplice direzione dell'allusività metaforica e della concettosità intellettualistica. Ma, in generale, e direi per larghissima parte dell'opera (e sempre, comunque, in misura tale da non intaccarne l'unità) il Tasso ha saputo fondere tra loro le note oscure e labili con quelle chiare e ferme in una tessitura nervosa a esiti cromatici fortemente chiaroscurati.
In un'opera con tanta intensità dominata dalla dissonante vita degli affetti, i personaggi hanno naturalmente un rilievo eccezionale. Essi costituiscono infatti i nodi di confluenza, di implicazione o di chiarimento degli impulsi su cui l'operasi si regge, qualificandosi non tanto per gli atti che compiono, quanto per l'interno inviluppo delle passioni onde quegli atti e quelle vicende procedono.
Dietro le loro figure, esteriormente derivate da tradizioni illustri (classica e romanza), si apre la nuova dimensione psicologica tassiana, il suo intrepido intimismo, ed essi ne esprimono, di volta in volta e in modi diversi, le varie dominanti. Mai nelle forme della tipizzazione oggettiva, ma riflettendone la risentita irrequietezza.
Non direi, perciò, che nella Liberata ci siano personaggi veramente congeniali (Rinaldo, Tancredi, Erminia) e altri invece freddamente astratti (Goffredo, Sofronia), perché un'opzione del genere implica un taglio netto, nell'organismo del poema, tra motivi seri e profondi e motivi estrinseci e retorici, e quindi ancora una scissione tra struttura e poesia. Che è proprio quanto di meno persuasivo la critica ci abbia fornito in passato. È molto insidioso infatti, a proposito della Liberata, il procedimento che tende a esaltare i personaggi giudicati autobiografici sopra quelli che si reputano nati, all'opposto, da un atto di volontà non poetica.
A me sembra in verità che tutti i personaggi tassiani siano autobiografici, nel senso che il poema è permeato ovunque di sincera sostanza sentimentale; solo che in alcuni di essi questa sostanza si esprime con ampiezza e varietà minori che in altri, ma sempre per esigenze artistiche e non per falsità intrinseca di questo o di quel personaggio.
Quanto, infatti, il Tasso non può concedere talvolta in estensione, riesce tuttavia a ricuperare in intensità, sì che in certi personaggi veramente complessi (Tancredi, Clorinda, Erminia, Armida e soprattutto Rinaldo) l'autobiografismo tassiano si riflette con ampia ricchezza di modulazioni, in altri invece, più semplici o episodici, si concentra sopra un solo motivo, approfondendolo con impegno energico e schietto (Argante, nell'atto costante della violenza barbarica; Sveno, lieto nell'affrontare la morte con giovanile baldanza; Solimano, accoratamente pensoso di fronte al cruento spettacolo del campo di battaglia).
E soprattutto insisterei a difendere la funzione poetica di Goffredo e di Sofronia, tante volte messa in discussione, perché l'eroe invitto e pietoso e la vergine incorruttibile rappresentano, a loro volta, un momento fondamentale dell'ispirazione tassiana: quello, puro ed eroico, in cui il bello "ideale", che non è finzione retorica nel Tasso ma sentimento vivo e autentico, si realizza nella poesia in figure perfettamente virtuose, intangibili a ogni seduzione.
Tolte dal poema, dove vivono in un rapporto essenziale con gli altri personaggi, queste figure possono effettivamente apparire, soprattutto alla nostra sensibilità moderna, troppo schematiche e alla fine monotone nella loro santità senza storia.
Ma se si tiene presente il carattere particolare della Liberata, fondato sopra un equilibrio instabile, sempre in procinto di spezzarsi e in ogni caso animosamente ricomposto, Goffredo e Sofronia si rivelano personaggi insopprimibili proprio perché in loro si esalta il sogno di una splendida magnanimità e di una generosa forza morale, vittoriose sul disordine delle passioni; e la luce bianca, solo apparentemente fredda, della loro forza incontaminata, composta in una dignità ferma e sicura di gesti e di parole, collabora a rendere più intenso e più drammatico, per contrasto, l'oscuro struggimento dei desideri inappagati, il torpore inquieto delle evasioni voluttuose, il sentimento della colpa e l'angoscia della morte.
Lo strumento stilistico, lungamente elaborato e sperimentato nell'attivo e incessante esercizio delle liriche che accompagnano il lavoro della Liberata, realizza il bifrontismo tassiano in un'originale forma poetica, tanto più lontana dai modo acerbi del giovanile Gierusalemme quanto da quelli più esperti ma sostanzialmente tradizionali del Rinaldo.
Si tratta di uno strumento stilistico straordinariamente inventivo e arditamente composito, tra tradizione classica e libera espressività moderna, che associa insieme la magnificenza eroica e l'ineffabilità lirica, alternando l'alta scansione, il solenne declamato, il periodare "lungo" delle parti sublimi, al ritmo rapido e nervoso delle emozioni fuggitive, dei trasalimenti sentimentali.
Ove si volga, infatti, a rappresentare le visioni serene e pure, i memorabili esempi, l'alto decoro dei gesti virili e delle sagge risoluzioni, lo stile tassiano emula felicemente l'equilibrio costruttivo e la misurata eloquenza dei migliori modelli classici; ove invece inclini a suggerire fremiti dei sensi turbati, il libero gioco della fantasia, le perplessità dell'anima, il segreto linguaggio della natura, il doloroso sentimento del vivere, si risolve in vaghissime suggestioni musicali e in acute sospensioni evocative, rinnovando la tradizione petrarchesca attraverso la lezione dellacasiana.
L'incontro dello stile magnifico, nitido e pregnante, e di quello lirico, metaforico e allusivo, soprattutto nelle pagine più intense del poema, genera, attraverso l'uso duplice dei frequentissimi enjambements, ora in funzione di "legato" ed ora di "staccato", quel bellissimo temperamento di forte e di patetico, di grave e di delicato, che trova il suo corrispettivo forse soltanto nella grande musica monteverdiana.
Lanfranco Caretti
Professore di Letteratura Italiana presso l'Università degli Studi di Firenze.
La corte estense e il Tasso
Una biografia del Tasso che non tenga conto, oppure sottovaluti l'influenza della corte, e in particolar modo della corte ferrarese, nella vita e nell'opera del poeta, è sicuramente incompleta e forse ambiguamente fuorviante, di quell'ambiguità che spesso è suprema misura della parola poetica tassiana.
I volti del Tasso, l'immagine di lui che ci tramanda la tradizione e che egli stesso ha voluto in qualche modo costruire, variano col variare dell'età, del momento storico, in modo che il mito del Tasso ancor oggi si sovrappone inquietantemente alla verità biografica, alla cruda esperienza di fatti, talvolta tragici, agiti all'interno di un mondo cortigiano che ha sue leggi e limiti inderogabili, almeno per ciò che riguarda la propria immagine.
La corte, insomma, è la pietra di paragone, molto più dell'Accademia che pur sempre rappresenta l'altro polo del percorso intellettuale del Tasso, con cui si misura la volontà di poesia e lo sforzo d'interpretazione della situazione poetica del primo grande scrittore moderno.
Si potrebbe, forse con qualche forzatura, concludere che la poesia del Tasso e la sua stessa vicenda esistenziale sono imprescindibili dalla corte e da ciò che la corte estense ha saputo esprimere di sé impiegando l'immaginario come ideologia politica, come forza di persuasione e di convincimento, come esibizione del potere, ma anche come sua giustificazione.
Non è un caso che nella gloriosa tradizione europea della fortuna del Tasso (e chi non ricorda l'episodio di Goethe che a Venezia sente cantare ai gondolieri le ottave tassiane?), già alla fine del Settecento il soggetto del discorso e degli interessi si sposti dall'opera all'autore.
Alle innumerevoli repliche degli episodi della Liberata o alle note che rivestono i madrigali del poeta (famosa resterà la collaborazione di Tasso e del musicista Luzzasco Luzzaschi al raffinato e celebre concerto delle dame, voluto dal duca Alfonso II e dalla duchessa Margherita, tra le quali spicca l'impareggiabile arte di Lucrezia Bendidio, amata e cantata dal Pigna, il potente segretario ducale e storico di casa d'Este) si sostituisce la rappresentazione del destino doloroso del poeta, della sua follia, dell'impossibile rapporto amore-politica.
Tasso, imprigionato nelle carceri dell'ospedale di Sant'Anna per l'invidia della corte, Tasso innamorato della duchessa Leonora, Tasso eroe romantico di una vicenda che interessò patimenti Goethe e Donizzetti, Rousseau e Shelley, Domenico Morelli e Delacroix. E questa vicenda, quasi un gioco di specchi per cui un sommo autore diventa personaggio, si mitizza già nelle settecentesche Veglie del Tasso del Compagnoni, dove il poeta afferma di volersi allontanare dalla corte, la cui «aria contaminata avvelena i cuori.»
Ma il mito del Tasso e della corte si fa parola poetica nel dramma di Goethe, in cui titanicamente il poeta è visto vittima del proprio genio, la cui dismisura non può essere capita, né accettata, dalla corte. Oggi, il mito novecentesco del Tasso si rapporta alle inquiete prospettive esistenzialiste di Uhlrich Leo, si affida alla mediazione dolente di Solimano che dall'alto della torre di Gerusalemme, vedendo trascorrere la battaglia finale che sancirà la vittoria dei cristiani, ricorda «l'aspra tragedia dello stato umano,» ma quel mito si storicizza in una nuova concezione della corte più complessa e difficile, dove l'immaginario poetico e artistico è parte non secondaria, della sua costruzione.
Perfino la follìa del Tasso può ora essere interpretata anche come un artificio retorico di quel vagheggiamento della corte che il poeta, nella sua convinta difesa di un luogo e di una situazione, aveva trasferito nell'arcadia senza tempo di Aminta, in cui i pastori e le ninfe sono i cortigiani e i boschi sono la costruzione raffinata dei giardini della delizia di Belvedere, l'isoletta sul Po cantata da Ariosto, scena teatrale, ma anche palcoscenico del Paradiso del Principe. La corte diventa il luogo dell'anima dove trovare il proprio tempo intcriore.
Agli albori del novecento un altro sommo scrittore cercò nei riti mondani della coté dei Guermantes il senso dell'inquieta misura dell'io; alla fine della ricerca quel mondo, quella corte, risulta un guscio senza più vita, inutile. Per il poeta della melanconia, invece, la corte sarà l'Eden al quale l'angelo vendicatore della storia ha escluso il ritorno, ma del quale non ha potuto cancellare l'immagine e il desiderio, trasformandoli in fantasmi poetici.
Gianni Venturi
Ordinario di Lingua e letteratura italiana all'Università di Firenze.
Direttore dell'Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara.