In effetti, la contraddizione è evidente: il certificato di deposito è (o dovrebbe essere) e viene percepito come una specie di "Bot della banca"; legarne la redditività a qualcosa di oscuro, lontano e aleatorio come l'indice del listino dei valori trattati su una piazza finanziaria esotica significa, in buona misura, tradire la buona fede dei sottoscrittori.
Oltre tutto, mi domando se i sottoscrittori di questo titolo di credito hanno capito con esattezza che, se la Borsa di Tokyo va male, rischiano di ottenere un rendimento nullo o negativo (in termini reali) alla fine dell'anno.
Ma questo dirigente bancario - e con lui molti altri - non ha sicuramente finito di meravigliarsi. Rientrato in redazione, ho trovato sul mio tavolo la mazzetta dei giornali esteri e su The Economist ho letto una notizia che recitava più o meno così: «Una banca spagnola ha lanciato un certificato di deposito a tre anni il cui rendimento è legato alle prestazioni delle squadre di calcio di serie A. Argentaria [questo il nome della banca] offre ai sottoscrittori del Certificato di deposito dei Campioni la possibilità di ottenere un rendimento del 13% se pronosticano esattamente la squadra vincitrice del campionato. Chi non ci azzecca ottiene solo il 4%.»
The Economist è un settimanale inglese che, essendo erede di una tradizione più che secolare di pacatezza e cautela nel riportare le notizie, non si è permesso alcun commento. Se fosse toccato a me trasmettere la notizia sulle pagine del giornale che mi paga lo stipendio, probabilmente mi sarei domandato, e avrei domandato ai miei lettori, se qualche istituto concorrente non stesse già pensando di sfruttare la stagione ippica per emettere Certificati di deposito a tre giorni, con il rendimento collegato ai risultati delle corse tris.
Anche se mi ostino a considerarmi giovane, vengo da una generazione che non ha dimestichezza con i videogiochi e che continua a considerare il denaro degno di rispetto; tanto più se si tratta dei risparmi e, a maggior ragione, se i risparmi sono altrui. In effetti, sembrerebbe proprio che questa mia intima convinzione mi releghi nella categoria dei vecchi assai più di quanto riesca a farlo la mia goffaggine di fronte a un joystick.
Nel mondo della banca e della finanza, pare che modernità e innovatività siano sinonimi di leggerezza nella gestione del denaro raccolto dai risparmiatori: nel corso di tutto l'anno abbiamo assistito a crisi di istituzioni finanziarie provocate da una eccessiva disinvoltura nella gestione e dalla mancanza di efficaci controlli.
Due casi per tutti: quello della Barings, la banca inglese fallita in seguito alle perdite subite nella trattazione di contratti a termine (legati al citato indice Nikkei) e quello della giapponese Daiwa, i cui dirigenti sono impalliditi nello scoprire perdite per più di un miliardo di dollari (1700 miliardi di lire), dovute all'imperizia di un loro operatore di mercato obbligazionario.
In Italia, per fortuna, la concorrenza nel settore bancario non è ancora così accesa come in altri paesi. Dico "per fortuna" non tanto perché sia avverso al libero mercato, quanto perché - in virtù del ritardo accumulato in decenni di protezionismo - le banche del nostro paese possono godere del privilegio di imparare dagli errori commessi da altri, evitando di sperimentare strade che hanno dimostrato di essere piene di buche e di accidenti. La prima cosa che non bisogna scordare (uso la forma impersonale perché non lo devono scordare né i banchieri né i risparmiatori) è che il rapporto con la banca, in quanto erogatrice di servizi di importanza capitale, è di natura strettamente fiduciaria.
Il risparmiatore può e deve chiedere alla banca di rispettare la fiducia accordatale, mentre alla banca tocca l'ingrato compito di temperare le proprie esigenze con il rispetto di tale fiducia. La legge sulla trasparenza del 1991 ha già fatto molto in questo senso, ma non possiamo non renderci conto che banca e risparmiatore parlano ancora oggi un linguaggio molto diverso e che proprio la diversità di linguaggio crea non pochi problemi di rapporto. Ma, dopo aver dato voce alle perplessità di un tecnico, tocca a me esprimere i dubbi che mi tormentano riguardo ai miei colleghi (giornalisti e risparmiatori).
Troppe volte ho sentito affermare, negli ultimi tempi, che la misura dell'efficienza di una banca passa per la valutazione dell'offerta di prodotti: se la mia banca mi offre molti prodotti, possibilmente sofisticati ed esotici, significa che è moderna ed efficiente; se si limita a continuare a propormi conti correnti, bot e - se mi considera particolarmente propenso al rischio - quote di fondi comuni, significa che è una banca "vecchia" e che farei bene a trovarmene presto un altra se non voglio correre il rischio di pagare troppo per qualcosa che vale molto poco.
Pare, quindi, che il pubblico della banca voglia il nuovo a tutti i costi. Ma è proprio in queste circostanze che la banca deve espletare appieno il proprio compito di filtro tra un pubblico non sufficientemente preparato (salvo eccezioni) e un'offerta diversificata e complessa.
Fallendo in questo compito, la banca metterebbe a repentaglio il rapporto fiduciario con la propria clientela. Espresso in termini più "drammatici", il dilemma del banchiere moderno è questo: «Devo dare ai miei clienti quello che mi chiedono, anche se so che questo li espone a un elevato rischio, oppure devo proporre esclusivamente quello che sono convinto possa soddisfarli?»
Ecco una vera questione etica. Sì, perché l'etica è assai più vicina alla quotidianità di quanto non si creda normalmente. E trattandosi di questione etica, è difficile sostenere che esista una sola risposta esatta. Ogni banca si regolerà in corrispondenza della propria vocazione, della volontà degli azionisti, delle inclinazioni del management e di considerazioni relative al rapporto tra costi e benefici.
La banca moderna si trova di fronte a due necessità impellenti. Da una parte deve essere in grado di garantire agli operatori economici più evoluti e ai risparmiatori più sofisticati, i livelli di operatività più specializzata; deve, insomma, essere in grado di trattare options e futures, put e call, titoli Nasdaq e quant'altro, con efficienza e precisione.
Questo è un dovere di efficienza tecnica che la banca si deve assumere nei confronti dalla clientela attuale e potenziale; deve quindi disporre di attrezzature informatiche idonee, di personale formato e aggiornato, di consulenti, di partner specializzati per tutti i prodotti e i mercati dove non può trattare direttamente.
Dall'altro lato, a questa universalità di competenze non deve corrispondere una offerta indiscriminata di prodotti alla clientela con il solo scopo di soddisfare un vago desiderio di modernità. Nei confronti della clientela media - cioè del piccolo risparmiatore, dell'artigiano, del commerciante, del piccolo e medio imprenditore - la banca ha un dovere di selezione.
Entrando in banca, il cliente "medio" deve poter essere certo di ricevere proposte meditate e adatte al suo livello culturale, alla sua propensione al rischio, alla consistenza del suo portafoglio. Come ho già affermato, il rapporto con la banca è di natura strettamente fiduciaria, analogo a quello che intercorre tra medico e paziente; dunque, se mi sentirei più garantito e sicuro se sapessi che il mio medico è in grado di eseguire le operazioni chirurgiche più sofisticate, mi guarderei bene dal ricorrervi se per risolvere definitivamente una cefalea cronica mi proponesse un trapianto di cervello. Non dovrei forse applicare lo stesso metro di giudizio alla banca?