Tuo Gaetano.
Due sillabe
In quei lontani anni Venti, quando io, mio fratello Francesco e mia sorella Caterina andavamo ancora alle Elementari delle Suore di Piazza Ariostea - ultima di noi, mia sorella Roseda, all'Asilo - nella nostra vecchia casa di via Palestro 31, ricorreva di tanto in tanto la parola "Cassa", pronunciata da nostro padre, avvocato Leopoldo, con tono grave, serio, da "C" maiuscola; mentre nostra madre, più giovane e disinvolta, usava quasi sempre la minuscola. Tutti e due, in ogni modo, senza mai far capire di che "Cassa" o "cassa" si trattasse; attenti, se mai, a usare espressioni generiche e vaghe come fanno di solito i "grandi" quando, per la gravità o la delicatezza dell'argomento, non vogliono che i "piccoli" capiscano. A noi quei loro discorsi, e tanto meno quelle due sillabe, non interessavano affatto, o almeno così ci pareva, perché un giorno mio fratello Francesco, il più estroso e vivace di noi quattro, alzando i suoi occhi verdazzurri dal teatrino di legno dove faceva giostrare i suoi burattini, sbottò: "Ma si può sapere cos'è questa benedetta "cassa"? Si può sapere cosa c'è dentro?" La mamma, ridendo fino alle lacrime, lo abbracciò stretto stretto e poi, ripreso fiato, ci dettò con insolita solennità, l'attesa definizione. Vuol dire "Cassa di Risparmio". Seguì una lunga, incerta spiegazione di quelle parole, costellata di particolari importanti, per noi nuovi e sorprendenti: il Babbo - come lei, toscana di Siena, ci aveva insegnato a chiamarlo, rifiutando il francesizzante "papà" - era avvocato e socio della Cassa, e pertanto la Cassa era "cliente" del Babbo, forse la più importante o almeno pari ai Duchi Salviati; no, il Babbo non andava a lavorare alla Cassa che non aveva un suo Ufficio legale interno; toccava alla Cassa mandare documenti e fascicoli allo Studio Tumiati, contiguo a casa nostra, via Palestro 31, dove lui, il Babbo, aiutato dai suoi due collaboratori, avvocato Mistri e procurator De Paoli, studiava e risolveva ogni problema. Quella lunga, saltellante sfilza di particolari non riuscì certo a chiarirmi le idee sulla natura, le funzioni gli scopi della Cassa. Alla fine mi rimase soltanto una sensazione vaga, nebulosa, ma tutto sommato non spiacevole: la Cassa di Risparmio doveva essere un organismo, un istituto, un ente che aveva qualcosa in comune - non so, l'atmosfera, lo spirito, la tradizione - con la nostra famiglia. Mi ricordava nostra nonna Eda che non finiva mai di raccomandare a grandi e piccini di non esagerare con le spese; o forse aveva maggiori punti di contatto con il Babbo che, visto che non avevamo un motto di famiglia, se n'era inventato uno singolarissimo - "Il poco è ciò che appaga" - che spiccava in caratteri gotici sul paralume di pergamena sovrastante la tavola da pranzo. A me quel motto non dispiaceva, mi dava il tiepido senso di sicurezza che può infondere, d'inverno, la fiamma di un bel camino acceso. E tuttavia era chiaro che, per quanto suggestivo, non rappresentava tutta la famiglia. Mio fratello Francesco, per esempio, rifiutava di accettarlo. Tutti ricordavamo la scena di quella sera, a Fiera di Primiero, dove eravamo in villeggiatura, quando lui - sei anni- in risposta al solito monito paterno sul "poco" che "appagava", scattò in piedi e, a gran voce, con tono tra il provocatorio e l'umoristico, proclamò che no, lui non ci stava, il suo motto era diverso: "Più ce n'è, meglio è!"
Il Palazzo
Tra i vari palazzi di Giovecca, la nostra main-street, allora pavimentata a ciottoli, ce n'erano due che mi colpivano particolarmente: il Roverella che, per la sua splendida facciata di cotto, mi faceva sembrar lieta anche una giornata piovosa; e, per contro, Palazzo Pareschi, triste, ma affascinante, seminascosto tra le foglie, là in fondo al suo giardino misterioso.
C'era poi un terzo palazzo che s'imponeva all'attenzione di tutti per la sua mole maestosa e per lo stile tra l'antico e il moderno, tipico di certi edifici di rappresentanza nati a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento: il Palazzo della Cassa di Risparmio di Ferrara. Passandogli davanti, lo consideravo con rispetto e, ora che la mamma ci aveva dato tante spiegazioni, anche con un filo di affettuosa familiarità. Mi sarebbe piaciuto passare la soglia del suo monumenta-le ingresso per vedere "com'era fatto dentro", se c'erano o no le grandi sale che i suoi enormi finestroni, così lontani l'uno dall'altro lasciavano supporre. L'occasione di poterci entrare capitò il giorno in cui il Babbo, di ritorno da una passeggiata con me fino alla Prospettiva, pensò bene di passar dalla Cassa per ritirare non so qual documento. Varcammo così la mitica soglia, salimmo lo Scalone e subito fummo affidati a un Guardiano in divisa che ci accompagnò giù, fino al Reparto Cassetto, dove col suo mazzo di chiavi, cominciò ad aprire, uno dopo l'altro, cancelli e portoncini, avendo ogni volta cura di chiudersi alle spalle quello da cui eravamo appena passati. Alla fine sbucammo in un grande ambiente deserto, lucido, senza finestre, illuminato artificialmente. Alle pareti gli sportelli delle cassette ben inquadrati in compatto ordine cimiterial-militare. Nostro padre si avvicinò lentamente alla nostra e si accinse ad aprirla con ostentata metodica lentezza. Nonostante avesse parlato di documenti, pensai fino all'ultimo che in fondo al nero cubicolo sarebbe esploso lo sfolgorio di qualche anello d'oro, di qualche pietra preziosa. Invece, niente! Buio e basta. Nostro padre estrasse il documento che lo interessava, lo consegnò a me, tornò a frugare nel piccolo antro, e ne estrasse alcuni leggeri libretti. "Guarda, questo è il tuo", mi disse porgendomene uno. In effetti c'era il mio nome e improvvisamente ricordai: era uno di quei libretti, dotati di una piccola somma, che la Cassa intestava ai figli neonati dei suoi clienti più fedeli. "Ci sono tutti", mi rassicurò il Babbo mentre li riponeva, "anche quelli dei tuoi fratelli". E richiuse lo sportello. Non rimasi soddisfatto. Ma quel leggero rammarico si dissolse quasi subito. Una volta fuori, mentre ci avviavamo verso casa, andavo pensando agli strani poteri di quel palazzo tutto marmi che ci eravamo lasciati alle spalle. Sicurezza assoluta, soldi che da soli, nel buio di una cassetta, aumentavano di valore di anno in anno! Miracoli che possono avvenire soltanto in un ambiente sacro. Che anche il Palazzo della Cassa avesse poteri del genere? Certo non pari a quelli del nostro famosissimo Duomo, ma almeno quelli della chiesa della nostra parrocchia, in via Borgoleoni?
Zio Tullo
A citarla tutti i giorni, la parola Cassa, a introdurla addirittura nel nostro lessico familiare, fu nostro pro-zio, professor Tullo Ferraresi, fratello di nostra nonna Eda. Tipica figura di "nobile" della Ferrara prefascista, barba quasi bianca, pesanti abiti scuri, passo lento, indispensabile bastone, a noi sembrava vecchissimo; in realtà avrà avuto settant'anni o poco più. Scapolo solitario, aveva preso l'abitudine - non sgradita al Babbo, sopportata dalla mamma - di venire ogni giorno a casa nostra all'una, una e un quarto, proprio nel momento in cui stavamo affrontando il primo piatto. Senza aspirare a un invito, andava dritto dritto a una "sua" poltroncina un po' discosta dal tavolo e da lì cominciava a riferire e commentare i fatti del giorno, rivolgendosi vibratamente al Babbo che, tra un boccone e l'altro, rispondeva con la sua solita pacata concisione. La stragrande maggioranza delle notizie che sfornava al nostro tavolo riguardava la Cassa. Non c'era novità d'organico, vera o presunta, non c'era progetto, concreto o aleatorio, di cui non fosse o non si dicesse al corrente. E i suoi commenti, diceva nostro padre, avevano sempre un qualche fondamento. E tuttavia la sua notorietà era dovuta principalmente a un suo difetto veniale, quasi ingenuo: il vanto esagerato che attribuiva al fatto di essere uno dei più anziani "Soci della Cassa", qualifica più che altro onorifica che si otteneva per cooptazione fin dai tempi della fondazione della banca. "Socio dal 1895!", teneva a precisare nelle presentazioni. Di tanto in tanto cercava di provocare, più o meno scherzosamente, il collaboratore di nostro padre, avvocato Mistri, socio dal 1903, un omone di oltre un quintale, tanto acuto di mente quanto obeso di corpo, che però sul tema "anzianità" non gli dava alcuna soddisfazione. Aveva idee confuse, ignorava le date, dava risposte vaghe, continuando a fumare tranquillamente il suo mezzo toscano. Memorabile, in famiglia una battuta dello zio in un'occasione particolare. Nostra madre, nell'invitarlo a cena, gli aveva annunciato di aver rivolto lo stesso invito a un altro vecchio amico di famiglia più o meno settantenne: il piccolo, azzimato, compitissimo Peppino Agnelli, direttore della "Ferrariae Decus" e della Biblioteca Ariostea. "Grazie, grazie!", aveva risposto zio Tullo contento. "Lo vedrò volentieri! E mi divertirò a stuzzicarlo: è un 1909!". Non ricordo che su questo tema abbia mai scherzato con il Babbo, socio fin dal 1917, forse perché riteneva che quella qualifica, per quanto significativa, non sarebbe stata opportuna a chi poteva fregiarsi di quella meno ufficiale, ma più importante e concreta, di "primo avvocato della Cassa". Come chiamare colonnello un generale. La questione "anzianità" tornava invece di tanto in tanto in ballo nei suoi incontri con l'avvocato Giulio Righini, socio dal 1914, dove fra tutti era il più simpatico noi bambini ormai ragazzetti. Viso scavato, occhi chiari, vivissimi nel fondo di due orbite protette da sopracciglia foltissime e scure, l'avvocato Righini, nell'ultima villeggiatura passata insieme sulle Dolomiti, si era paternamente, gioiosamente, veramente prodigato a insegnarci il gioco degli scacchi in cui era maestro.
I taccuini
A poco a poco, visto che quasi tutti gli amici di famiglia ce l'avevano, finì per perdere di interesse. Del resto il tempo passava, gli Anni Venti stavano finendo, in giro si parlava sempre più spesso di crisi economica. Anch'io ero preoccupato, perché mancava poco all'esame di Quinta per l'ammissione alla prima Ginnasio, ma soprattutto perché nostro padre ci aveva solennemente annunciato che a ottobre, io e mio fratello Francesco, come volevano le tradizioni familiari, saremmo stati messi in collegio a Firenze, quello stesso collegio in cui avevano fatto tutti i loro studi lui e i suoi fratelli Domenico, Gualtiero e Corrado. Il più preoccupato di tutti era zio Tullo; aveva sempre meno novità da raccontarci e quelle poche le riferiva o a toni bassi, che quasi non si sentivano, o troppo acuti, scuotendo la testa. "Poveretto! È l'età!", commentava la mamma. Il Babbo, invece, sosteneva che alla base c'erano ragioni politiche. Uomo sostanzialmente di destra, ma tutt'altro che favorevole al fascismo, zio Tullo, secondo lui, sarebbe entrato in crisi per gli innegabili progressi che il movimento di Mussolini - e di Balbo - stava facendo in Italia e particolarmente a Ferrara. La prova scritta che nostro padre aveva ragione, la si ebbe soltanto alla morte di mio zio, molti anni dopo, nel 1944, da una incredibile serie di taccuini rilegati in pelle, centinaia di pagine fitte fitte di notazioni, date, sigle, punti interrogativi o esclamativi, da cui si deduceva come e perché, in quel periodo le sue preoccupazioni fossero serie e come, via via sarebbero, venute ulteriormente aggravandosi. Io, a quell'epoca, prigioniero di guerra nel Texas, quei taccuini, poi scomparsi nel gran caos di bombe e sfollamenti, non li ho mai visti. A quanto pare, gli ultimi commenti, tracciati con mano tremante da Tullo Ferraresi nel suo estremo ricovero al Sant'Anna, rivelavano, tra l'altro, la sua grave preoccupazione per la sorte di mio fratello Francesco, suo nipote preferito. Di lui a Ferrara si sapeva soltanto che, dopo lo sfascio dell'8 settembre, "era salito in montagna". Zio Tullo, che aveva approvato quella scelta, non arrivò a vivere fino ai giorni della Liberazione, quando, con le truppe alleate arrivò a Ferrara la tragica notizia: il giovane comandante partigiano "Francino" - medaglia d'oro alla memoria - era stato fucilato dai fascisti sulle montagne umbro-marchigiane.