Io, che spesso negli anni giovani studiavo e ancor più sognavo l'antica Ferrara, da quella prima voce sono stato condotto alla seduzione di un continuo, luminoso inseguimento di quelle immagini insostituibili e dense di fascino. Nessun luogo, se non Urbino, mi ha tanto conquistato nella vita. Prima di allora, avevo spesso evocato la città degli Estensi nel momento fatale dell'arresto della sua vita istituzionale e politica, un vero e proprio genocidio qual è stato quello segnato dal forzato ingresso in città di papa Clemente VIII Aldobrandini, nell'avanzato autunno dell'anno 1598. Soltanto la gotta



Dai passi cauti dei conoscitori ottocenteschi venne risorgendo un mondo sepolto. Ed è a quello cui la mostra desiderata si venne dedicando. Abbiamo confidato di poter pilotare un giorno un ramificato archivio di conoscenza positiva e di critica interpretativa. A forza di ripensare con grande emozione storica alla città degli Estensi - fuori dal tempo e anche dallo spazio - non rimase altro che meditare su quale sia stato il momento nel quale la città, quasi un'astronave di ritorno dal cielo, abbia ripreso terra e si sia rianimata. C'è dunque una Ferrara più antica, quella di Lionello, e poi di Borso e di Ercole, quella che giungeva ad approdare al primo Cinquecento, fino alla decorazione dei Camerini di Alfonso e all'alleanza di Bellini, Tiziano e Raffaello, che era rimasta compressa, quasi congelata tra Medioevo ed Umanesimo. La grande razzia dei Cardinali collezionisti romani, preda dell'età e del gusto ormai barocco, possedeva registri di piacere pressoché obbligati, che si tendevano in pratica sull'intero Cinquecento. Ma di quell'immensa, pregressa ricchezza artistica non si resero conto altri che non fossero rigattieri e collezionisti, mercanti di ‘zavagli' - come li chiamavamo a Bologna, che a prezzi vili avevano ormai creato concentrazioni e ammassamenti in androni scuri, magazzini con vistose ragnatele, regno davvero di gatti (azzurri?). Era una nuova forza, non la rapina di Verre descritta dalla sapienza di Cicerone nella Sicilia orientale, questa che guidava l'arte con la sua stessa bellezza. Dal secolo romantico in poi tutti questi luoghi nascosti alimenteranno collezioni, concentrazioni antiquariali, inedite pareti di nuovi musei europei. Grandi famiglie e piccoli cacciatori scientifici hanno sfondato il piacere di ripercorrere con voluttà una grande storia rovesciata all'indietro, la stessa che si venne rianimando, ma à rebours. In fondo, solo con la mostra del '33 in Palazzo dei Diamanti e l'Officina Ferrarese di Roberto Longhi (1934), le due anime della storia di Ferrara si vengono ricongiungendo. L'incontro ebbe luogo in Roma, davanti alla figurazione de La Notte del Guercino, nel folto del parco dei Ludovisi. A sanare la diffidenza, quando non il chiliasmo novecentesco, minacciato una volta ancora da Nostradamus, Alfredo Santini volle poi opporre lo straordinario restauro del Giudizio Universale di Bastianino in Duomo: l'ultimo dei grandi recuperi dopo quelli del Bonone in Santa Maria in Vado, o dello Scarsellino in San Paolo. Quell'esperienza esaltante andò a dissotterrare tavolozza e piote di questo pittore, gigante insabbiato come un fiocinino perduto con le sue rivoluzioni mentali tra la nebbia e la sabbia padana. Francesco Arcangeli, nel '62, aveva già tracciato nel fosco cielo teso sopra la città l'immagine di quell'artista vissuto a ridosso della morte della più grande Corte d'Europa, e ormai fuori dal tempo e - in certo modo - oltre il profilo stesso della storia. Qualcuno diceva, nelle brume della storia, che egli aveva violentato e lasciato urlare nel vuoto di quel cielo la stessa tragedia della Sistina. Ma il restauro potè finalmente mostrare come Bastianino avesse trasformato l'esaltata dannazione mentale e ideale, in un dramma corporale, dolente, irrefrenabile. Questa versione quasi punitiva dell'idealismo di Michelangelo si esprimeva in una tempesta sulfurea, dove si era aggrappato fino ad annaspare sul vuoto, un ammasso di corpi pressoché ustionato in un fremere drammatico. Torsioni delle membra, ribaltamenti vertebrali, rovesciamenti anatomici non conservavano però più nulla di lubrico. Lassù, l'idea dell'eterna ritorsione bruciava ogni futuro, accendeva soltanto l'atto contin-gente che seguitava a corrompersi dinanzi all'immediatezza del fuoco. Il Bastianino teneva in mano, ormai unta di colore e di vernici, la grande incisione al bulino che l'Alghisi aveva eseguito intorno al 1566. E su quella gettava la forza muscolare del suo "parlar disgiunto", teso come un vento rovente tra l'ingombro corporeo e la luce che ne esaltava il riflesso e l'orma stessa della luce creativa. L'ispirazione tratta dall'acquaforte non era altro che un modello di lavoro creato e avvalorato nel Cinquecento, allo spegnersi della demoniaca "maniera", mentre grandi artisti, da Annibale e Ludovico Carracci a Federico Barocci, stanno ormai avviandosi a resecare e a ritagliare duramente il seme dell'opera manieristica dalla nuova, ricercata apparizione della necessaria e invocata riforma naturalistica: un ritorno alla tradizione rinascimentale alla quale tuttavia l'esistenzialismo corrotto del Bastianino oppose la sua dannata ragione, la morte stessa della pittura. In questo vastissimo catino absidale, come entro un paesaggio del delta fosco e annuvolato, si era spenta tutta la tenerezza mondana e secolare che, disfattasi dallo scheletro del chiaroscuro strutturale, aveva abitato tanti altari delle chiese estensi; lasciando al dominio della caligine cromatica la soffusa, affettuosa fisionomia tipica d'una città popolare adriatica, adornata da un sapore nuovo della luce ripartita capace di aggirarsi attorno all'emersione della poesia dei luoghi di fiume e di mura, di golena e di marana. Il terzo progetto espositivo e didattico, poi, volle tentare di riflettere sulla lettera di Torquato Tasso a Ferrante Gonzaga a proposito del "parlar disgiunto". Un dibattito al quale dovevano concorrere assai più i quadri che non le parole: quelli dei pittori di Torquato. Giulio Carlo Argan aveva letto già letto quella pagina del 1575 e aveva indagato tra le vele, le sartìe e i ponteggi di vecchio e nuovo Testamento montato da Tintoretto. Io, che col consiglio di Federico Zeri, avevo individuato il volto del poeta tra le opere di Jacopo Bassano, mi emozionavo sul modo di strutturare con la luce il cromatismo stesso della grande tradizione veneta. E tuttavia, Arcangeli, ancora con la sua intelligenza assoluta, aveva estratto dal profondo delle nebbie la dissociazione tra il dramma carnale e l'oscurità della luce filtrata da quel deliquio fatale. Fu quel rovinìo delle carni - più ancora che di costruite anatomie - che riemerse tra sprazzi e luministiche deformazioni, illuminando il problema allora vicino e premente per forza di poesia pittorica che si disse del " parlar disgiunto". La figura sintattica evocava, voce di Torquato Tasso rivolta a Ferrante Gonzaga, un tipo di separazione attiva e possibile - tra luce e colore - che si paragonava alla letteratura e più esattamente alla poesia. In pittura, la disgiunzione creativa, mirabilmente interpretata anzitutti da Jacopo Bassano, veniva identificandosi con il disfacimento che del croma faceva il vecchio Tiziano. Ma proprio come Francesco Arcangeli aveva chiarito in una puntuale nota critica al suo straordinario libro dedicato nel 1962 al Bastianino, nella collezione della Cassa di Risparmio, era di Bastianino la pittura di luce e di colore che dall'alto dell'abside della Cattedrale, e con diversa malinconia dalle pale dipinte di San Paolo, corrompeva nel tramonto il senso stesso della storia quale si veniva tracciando sullo scoscendere del grande secolo d'oro. Ciò che ci parve straordinario fu poi che in Urbino, e dunque in un'altra corte in crisi, fosse attivo un altro grande poeta, Federico Barocci, caro a Lucrezia d'Este nel suo breve esilio roveresco, la luce del quale era tanto penetrata e incorporata nel colore da apparire - agli occhi del finissimo Mengs - e a mezzo Settecento, un corpo privo di un telaio chiaroscurale: e dunque con l'effetto visivo ed emotivo di un corpo visto nell'alta nebbia rappresa sull'alto d'una montagna, senza struttura di supporto. Il contrario, precisa ancora il Mengs, di ciò che deve ritenersi il corpo organico della pittura caravaggesca, assetto naturale di un modello colto nella luminosità irraggiata d'una cantina nella quale una riconoscibile luce calasse dalla ferita di un pertugio. Di questa esposizione a soggetto, che affondava parte delle sue tesi nella famosa ricerca di Erwin Panofsky, si costituirono protagonisti, oltre agli artisti che abbiamo nominato, anche lo stesso Annibale Carracci che nella giovinezza prima, avanti di affrontare la ritrovata solidità carnale correggesca, giocò a liquefare - si direbbe - l'ordito pittorico entro una tramestio di tavolozza piuttosto che in un progetto di organico, preminente disegno. Nacque così in Palazzo dei Diamanti, un'esposizione tanto compatta quanto breve e sapiente, dove il soggetto dichiarato - e dunque il ‘Parlar Disgiunto' - veniva illustrato da una decina di capolavori assoluti degli artisti principali della Spätrenaissance, e cioè dell'avanzato Rinascimento - ai quali si poteva accreditare una parte molto elevata della pittura di ordito luministico, uscita dal manierismo accademico, e piuttosto entrata nell'osservazione d'aprés nature: non nel senso di un approccio realistico e veritiero, ma essenzialmente e esistenzialmente verisimile, perché calato entro il metodo d'una attiva contemplazione. Raramente furono uniti attorno a un soggetto di rara difficoltà ermeneutica i nomi che abbiamo annotato in questo ricordo, con opere come quelle di Jacopo o di Tiziano, di Annibale e del Tintoretto. E insieme con meravigliose opere, pale d'altare d'una liturgica emotività, del Bastianino, in omaggio al fatale restauro del Giudizio Universale nella truna della Cattedrale; e un abbozzo per i colori di Barocci, finalizzato alla meravigliosa Sepoltura di Cristo in Santa Croce di Senigallia, esposto per la prima volta in assoluto per concessione e alta comprensione del suo proprietario, George Wildenstein. Un reale contributo all'illuminazione critica e storica dell'anno 1580 nel quadro della risoluzione finalmente raggiunta dalla riforma naturalistica dell'arte italiana. Alle origini della pittura moderna europea.