Visioni e pensieri sull’arte a Ferrara

Written by  Andrea Emiliani
Un particolare degli affreschi che decorano la “Sala del Tesoro” eseguiti da Garofalo e dai suoi collaboratori presso Palazzo Ludovico il Moro, nelle pagine seguenti alcune immagini dell’allestimento della mostra “La Leggenda del Collezionismo”.Tre grandi progetti per la fine del secolo Ventesimo
L'arte di Ferrara da qualche anno è entrata in possesso di uno strumento di grandissima efficacia evocativa, che nessuna, o quasi, tra le grandi città dell'arte italiana può esibire con altrettanto legittimo orgoglio. Da quando uno storico, Werner Gundersheimer, ha portato alla conoscenza degli amatori dell'arte lo straordinario manoscritto vaticano di mano di Sabadino degli Arienti,
intitolato alla descrizione puntuale delle 'delizie' estensi, le pagine del poeta bolognese specialista in preziose narrazioni e in resurrezioni di ambiente bentivolesco - e, in questo caso, ferrarese, - si sono aperte un varco nella coltre oscura, ostinata della storia passata: e possiamo ora profittare tutti d'una voce che narra e descrive l'incomparabile bellezza dei luoghi dell'arte.
Io, che spesso negli anni giovani studiavo e ancor più sognavo l'antica Ferrara, da quella prima voce sono stato condotto alla seduzione di un continuo, luminoso inseguimento di quelle immagini insostituibili e dense di fascino. Nessun luogo, se non Urbino, mi ha tanto conquistato nella vita. Prima di allora, avevo spesso evocato la città degli Estensi nel momento fatale dell'arresto della sua vita istituzionale e politica, un vero e proprio genocidio qual è stato quello segnato dal forzato ingresso in città di papa Clemente VIII Aldobrandini, nell'avanzato autunno dell'anno 1598. Soltanto la gotta Allestimento della mostra avrebbe potuto arrestarlo, narrano i suoi biografi, paralizzando braccio, gomito e dita all'atto della benedizione urbi et orbi. Ma la mangiata venne dopo, e abbondante. Nel tempo stesso si consumava l'ultimo episodio della vita avversa e infelice di Lucrezia d'Este, la quale aveva duramente trattato con il butterato cardinal nipote, Pietro Aldobrandini, la devoluzione di Ferrara e della sua storia allo Stato romano. Erano state le gelide notti di Faenza, entro le cui mura il colloquio segreto veniva condotto, a ospitare le trattative fino alla consumazione della letterale svendita della città. Ma poi la mia oscura tensione fantastica vinceva un'altra volta, e rivedevo Goethe che nel 1789 scendeva dalla carrozza sotto il canale di Castello e camminava per strade e piazze. Il poeta presto smaniava e si immalinconiva per quelle larghissime vie bianche e piene di Palazzi sublimi, dove il profondo silenzio si sfaldava come fosse nebbia, liberando un sapore acido che si respirava o quasi inumidiva il volto anche dentro le mura. Il poeta meditava allora su grandi amori, antiche follie e numerosi sepolcri. È meglio andare subito a Cento, mormorava, e guardare la bella pianura e i campi verdi contenuti nell'ansa del fiume Reno. Un segno di nuova, diversa speranza. Allestimento della mostra Un'altra immagine, questa volta moderna e tuttavia avvincente, che si accendeva felicissima e apriva la mia vita di studio e di speranze, era quella dell'inaugurazione della prima mostra di De Pisis in Castello, 1951, dove da pochi mesi studente, ero stato portato da Francesco Arcangeli ad ammirare il grande pittore e anche ad ascoltare Peppino Raimondi che, nel caldo del mattino domenicale, leggeva la sua introduzione al catalogo che ancora conservo . Ferrara era bella sotto il blu del suo cielo estivo come mai m'era sembrato che potesse essere. Mi ritrovai un po' smemorato che era già notte, nel giardino della Palazzina di Marfisa. Una stupenda figura femminile in tunica bianca si aggirava misteriosa tra quelle aiuole e io non l'ho mai dimenticata. Esaltanti memorie. Ma da quando Sabadino m'ha lasciato leggere il suo manoscritto meravigliosamente dedicato alla puntuale descrizione delle ‘delizie' estensi, io addirittura ho preso a passeggiare, a muovermi silenzioso, corridoio dietro corridoio, salone dopo salone, tra affreschi e immagini di caccia e d'amore, una moltiplicata serie di mura istoriate e di finestre spalancate su luminosi giardini. Una sceneggiatura così intensa m'ha inciso nella pupilla la matrice dello stile ferrarese. Non importa come, ma ora io "vedo" srotolarsi storie squisite, e soffitti ornati, stanze adorne di capolavori e protette da corami dorati come soltanto Adolfo Venturi aveva potuto e saputo prevedere nei suoi scritti del 1884-85, che sono quelli nei quali la storia dell'arte ferrarese ha ripreso corpo e vita e prepararsi per i tempi moderni. Queste descrizioni, un vero meraviglioso archivio dell'arte estense, lanciato come un film tra Adolfo e Sabadino, e le mie lunghe soste nel deserto salone di Allestimento della mostra Schifanoia, m'avevano immerso entro la storia più affascinante del mondo. Fu così che, quando già si era avvistato nel cielo il profilo del tramonto del millennio, con Alfredo Santini e pochi altri amici andammo a rovistare nei ricordi e a cercar di trovare spunti di iniziative (di mostre, di libri, di restauri) e accensioni vivaci di quegli stessi sogni inarrestabili. In questo modo è nata, nell'ultimo decennio del Novecento, una sequenza riassuntiva degli eventi d'arte che la Cassa di Risparmio aveva deciso di promuovere e di patrocinare insieme alla Pinacoteca Nazionale di Palazzo dei Diamanti. E prese corpo una serie di progetti ravvicinati di esposizioni e di itinerari didattici, raccolti attorno a questo bellissimo, indimenticabile fantasma ferrarese. Il primo progetto è stato dunque quello, piuttosto maturo, ormai, di rovistare tra studi reviviscenze e memorie per rimettere in vita, e cioè riportare al mondo, il collezionismo storico di Ferrara. Era come una rete di canali sotterranei, una trama di flussi carsici, che bisognava scoprire tesa nel sedime stesso di Ferrara, entro il suo basamento argilloso poggiato sulle falde del Po e la nutriva come una venatura figurativa riflessa nello specchio dell'arte. La presenza delle tracce di questa ricerca nel Palazzo dei Diamanti, già corredato come solo può esserlo una galleria nata nei secoli, poteva porgere sede a una esposizione che sarebbe poi divenuta un grande progetto di rianimazione critica e di accumulazione storica. Se lo chiamammo, più o meno impropriamente, "La leggenda del Collezionismo", ciò avvenne per caricare il fascino di quell'ipotesi e la sua stessa poesia, il rinnovato mistero che durava da secoli e che era lo stesso che risuonava ancora tanto forte da giungere fino alle pagine di Giorgio Bassani. Il tema faceva dell'orma storica un inedito, affascinante corso della memoria nascosta al di là delle radici del presente storico. Ora è necessario che io ne narri la vicenda. Dietro il corteo, e alle spalle di Clemente VIII e del suo corteo che abbandonava Ferrara per la strada di Cento e di Bologna, dove per l'occasione lo attendeva il decoro di un specie di libretto di melodramma, ornato e disegnato dal giovane Guido Reni, si allontanava e si perdeva nelle nebbie invernali l'orma rossastra dei tetti e delle mura estensi. Da allora le stagioni si sarebbero succedute quasi senza più rumore, se non il batter d'ali degli uccelli di passo. L'eredità di Dosso e della macchia chiaroscurale, dell'ombra colorata delle notti ferraresi, sarebbe stata raccolta dopo poco da un giovane centese, il Guercino che, già nel ‘17, Ludovico Carracci, patriarca del romanzo pittorico lombardo ed emiliano, esalterà la sua capacità artistica come capace di imprese esaltanti. In Ferrara lo ospitavano i grandi cardinali collezionisti come Jacopo Serra, a Bologna lo ammirava il legato Ludovisi, che salirà presto al soglio romano. Ferrara continuava così a vivere, e cercava con gli occhi il suo futuro. Ma nel trascorrere dei giorni la meravigliosa città dell'umanesimo eroico di Borso e di Ercole sembrava davvero estinguersi nel silenzio d'una storia che era stata di fatto amputata dalla devoluzione romana. La prima, sonante Ferrara cortigiana , quella che aveva fatto gola a papa Clemente, e con lui a tutta la schiera degli infaticabili collezionisti, da Scipione Borghese a Maffeo Barberini, a Pietro Aldobrandini, si distende sotto le torri del Castello e dei maggiori Palazzi, avendo asserragliato tutto il carico divino della Rinascenza, di quella intesa come età d'oro, estesa tra la corte di Alfonso I e l'ultima corte troncata dalla morte senza eredi maschi di Alfonso II. Alla faccia di don Cesare d'Este, costretto a risalire la via d'acqua di Finale e ad asserragliarsi a Modena. Esisteva tuttavia una Ferrara ancor più antica, e dunque l'intera fascia dell'organismo dell'Umanesimo quattrocentesco, che da Leon Battista Alberti si allacciava alla Rinascenza e alle soglie della triplice alleanza di Bellini-Raffaello-Tiziano. Questo secolo intero era di fatto rimasto compresso tra Medioevo e Umanesimo. Alla decisione del corteo papale e dei Cardinali romani di ripartire, contribuirà anche la notizia di Roma allagata dalla più allarmante inondazione del Tevere nel secolo nuovo che si stava aprendo, il Seicento, e del suo straordinario Giubileo. I grandi collezionisti, sui quali essi stessi caleranno peraltro la mannaia dell'orgoglioso fedecommesso, adoravano l'arte presente, ma non avevano messo mano all'orma del passato meraviglioso di Cosmè Tura oppure di Ercole. Di quell'immensa ricchezza artistica che rimase per altri due se non tre secoli appesa ai muri di Palazzi o di sacrestie, nelle case dei signori dell'establishment cortegiano, non si resero contro se non alcuni raccoglitori che - a prezzi vili - avevano iniziato lenti ammassamenti in androni oscuri, magazzini pieni di ragnatele, regni cupi di gatti non più azzurri. L'apparizione di questi materiali adatti a una storia immobile, quasi un'archeologia incrostata agli intonaci d'una città fantastica, è naturalmente legata alla fortuna delle prime aste pubbliche di Bonaparte, e anche alla divulgazione della vera novità critica che esplose in pochi mesi dopo la nascita del gusto detto dei "primiti-vi", lo stesso che intorno al 1812, a seguito dell'ostinata mostra a essi dedicata da Dominique-Vivant Denon , avrebbe potuto difendere dalla possibile dissoluzione il maggior museo del mondo, il Louvre imperiale. Dopo Waterloo e la spoliazione alla quale partecipò per l'Italia Antonio Canova, anche nella deserta Ferrara diverranno entro pochi anni ben visibili le concentrazioni più singolari, gli ammassamenti più fantastici della pittura ritrovata al di là del tempo, come in primis la collezione Costabili e via via tutte le altre collezioni, raccolte, doti ereditarie, lasciti o familiari donativi. Alla folgorante bellezza di quell'età, che prese a brillare tra le mani dei collezionisti e le vernici, i restauri, le puliture degli antiquari, si sono dedicati a volta a volta tutti i musei del mondo moderno: ma ciò decorse dalla coscienza storica e formale che ne venne discoprendo il magnete del collezionismo che ronzava tra case e chiese nel corso del secolo romantico. La prima galleria che ne volle pilotare lo scavo fu così l'ultima grande istituzione nata a Londra, la National Gallery di Trafalgar Square.
Dai passi cauti dei conoscitori ottocenteschi venne risorgendo un mondo sepolto. Ed è a quello cui la mostra desiderata si venne dedicando. Abbiamo confidato di poter pilotare un giorno un ramificato archivio di conoscenza positiva e di critica interpretativa. A forza di ripensare con grande emozione storica alla città degli Estensi - fuori dal tempo e anche dallo spazio - non rimase altro che meditare su quale sia stato il momento nel quale la città, quasi un'astronave di ritorno dal cielo, abbia ripreso terra e si sia rianimata. C'è dunque una Ferrara più antica, quella di Lionello, e poi di Borso e di Ercole, quella che giungeva ad approdare al primo Cinquecento, fino alla decorazione dei Camerini di Alfonso e all'alleanza di Bellini, Tiziano e Raffaello, che era rimasta compressa, quasi congelata tra Medioevo ed Umanesimo. La grande razzia dei Cardinali collezionisti romani, preda dell'età e del gusto ormai barocco, possedeva registri di piacere pressoché obbligati, che si tendevano in pratica sull'intero Cinquecento. Ma di quell'immensa, pregressa ricchezza artistica non si resero conto altri che non fossero rigattieri e collezionisti, mercanti di ‘zavagli' - come li chiamavamo a Bologna, che a prezzi vili avevano ormai creato concentrazioni e ammassamenti in androni scuri, magazzini con vistose ragnatele, regno davvero di gatti (azzurri?). Era una nuova forza, non la rapina di Verre descritta dalla sapienza di Cicerone nella Sicilia orientale, questa che guidava l'arte con la sua stessa bellezza. Dal secolo romantico in poi tutti questi luoghi nascosti alimenteranno collezioni, concentrazioni antiquariali, inedite pareti di nuovi musei europei. Grandi famiglie e piccoli cacciatori scientifici hanno sfondato il piacere di ripercorrere con voluttà una grande storia rovesciata all'indietro, la stessa che si venne rianimando, ma à rebours. In fondo, solo con la mostra del '33 in Palazzo dei Diamanti e l'Officina Ferrarese di Roberto Longhi (1934), le due anime della storia di Ferrara si vengono ricongiungendo. L'incontro ebbe luogo in Roma, davanti alla figurazione de La Notte del Guercino, nel folto del parco dei Ludovisi. A sanare la diffidenza, quando non il chiliasmo novecentesco, minacciato una volta ancora da Nostradamus, Alfredo Santini volle poi opporre lo straordinario restauro del Giudizio Universale di Bastianino in Duomo: l'ultimo dei grandi recuperi dopo quelli del Bonone in Santa Maria in Vado, o dello Scarsellino in San Paolo. Quell'esperienza esaltante andò a dissotterrare tavolozza e piote di questo pittore, gigante insabbiato come un fiocinino perduto con le sue rivoluzioni mentali tra la nebbia e la sabbia padana. Francesco Arcangeli, nel '62, aveva già tracciato nel fosco cielo teso sopra la città l'immagine di quell'artista vissuto a ridosso della morte della più grande Corte d'Europa, e ormai fuori dal tempo e - in certo modo - oltre il profilo stesso della storia. Qualcuno diceva, nelle brume della storia, che egli aveva violentato e lasciato urlare nel vuoto di quel cielo la stessa tragedia della Sistina. Ma il restauro potè finalmente mostrare come Bastianino avesse trasformato l'esaltata dannazione mentale e ideale, in un dramma corporale, dolente, irrefrenabile. Questa versione quasi punitiva dell'idealismo di Michelangelo si esprimeva in una tempesta sulfurea, dove si era aggrappato fino ad annaspare sul vuoto, un ammasso di corpi pressoché ustionato in un fremere drammatico. Torsioni delle membra, ribaltamenti vertebrali, rovesciamenti anatomici non conservavano però più nulla di lubrico. Lassù, l'idea dell'eterna ritorsione bruciava ogni futuro, accendeva soltanto l'atto contin-gente che seguitava a corrompersi dinanzi all'immediatezza del fuoco. Il Bastianino teneva in mano, ormai unta di colore e di vernici, la grande incisione al bulino che l'Alghisi aveva eseguito intorno al 1566. E su quella gettava la forza muscolare del suo "parlar disgiunto", teso come un vento rovente tra l'ingombro corporeo e la luce che ne esaltava il riflesso e l'orma stessa della luce creativa. L'ispirazione tratta dall'acquaforte non era altro che un modello di lavoro creato e avvalorato nel Cinquecento, allo spegnersi della demoniaca "maniera", mentre grandi artisti, da Annibale e Ludovico Carracci a Federico Barocci, stanno ormai avviandosi a resecare e a ritagliare duramente il seme dell'opera manieristica dalla nuova, ricercata apparizione della necessaria e invocata riforma naturalistica: un ritorno alla tradizione rinascimentale alla quale tuttavia l'esistenzialismo corrotto del Bastianino oppose la sua dannata ragione, la morte stessa della pittura. In questo vastissimo catino absidale, come entro un paesaggio del delta fosco e annuvolato, si era spenta tutta la tenerezza mondana e secolare che, disfattasi dallo scheletro del chiaroscuro strutturale, aveva abitato tanti altari delle chiese estensi; lasciando al dominio della caligine cromatica la soffusa, affettuosa fisionomia tipica d'una città popolare adriatica, adornata da un sapore nuovo della luce ripartita capace di aggirarsi attorno all'emersione della poesia dei luoghi di fiume e di mura, di golena e di marana. Il terzo progetto espositivo e didattico, poi, volle tentare di riflettere sulla lettera di Torquato Tasso a Ferrante Gonzaga a proposito del "parlar disgiunto". Un dibattito al quale dovevano concorrere assai più i quadri che non le parole: quelli dei pittori di Torquato. Giulio Carlo Argan aveva letto già letto quella pagina del 1575 e aveva indagato tra le vele, le sartìe e i ponteggi di vecchio e nuovo Testamento montato da Tintoretto. Io, che col consiglio di Federico Zeri, avevo individuato il volto del poeta tra le opere di Jacopo Bassano, mi emozionavo sul modo di strutturare con la luce il cromatismo stesso della grande tradizione veneta. E tuttavia, Arcangeli, ancora con la sua intelligenza assoluta, aveva estratto dal profondo delle nebbie la dissociazione tra il dramma carnale e l'oscurità della luce filtrata da quel deliquio fatale. Fu quel rovinìo delle carni - più ancora che di costruite anatomie - che riemerse tra sprazzi e luministiche deformazioni, illuminando il problema allora vicino e premente per forza di poesia pittorica che si disse del " parlar disgiunto". La figura sintattica evocava, voce di Torquato Tasso rivolta a Ferrante Gonzaga, un tipo di separazione attiva e possibile - tra luce e colore - che si paragonava alla letteratura e più esattamente alla poesia. In pittura, la disgiunzione creativa, mirabilmente interpretata anzitutti da Jacopo Bassano, veniva identificandosi con il disfacimento che del croma faceva il vecchio Tiziano. Ma proprio come Francesco Arcangeli aveva chiarito in una puntuale nota critica al suo straordinario libro dedicato nel 1962 al Bastianino, nella collezione della Cassa di Risparmio, era di Bastianino la pittura di luce e di colore che dall'alto dell'abside della Cattedrale, e con diversa malinconia dalle pale dipinte di San Paolo, corrompeva nel tramonto il senso stesso della storia quale si veniva tracciando sullo scoscendere del grande secolo d'oro. Ciò che ci parve straordinario fu poi che in Urbino, e dunque in un'altra corte in crisi, fosse attivo un altro grande poeta, Federico Barocci, caro a Lucrezia d'Este nel suo breve esilio roveresco, la luce del quale era tanto penetrata e incorporata nel colore da apparire - agli occhi del finissimo Mengs - e a mezzo Settecento, un corpo privo di un telaio chiaroscurale: e dunque con l'effetto visivo ed emotivo di un corpo visto nell'alta nebbia rappresa sull'alto d'una montagna, senza struttura di supporto. Il contrario, precisa ancora il Mengs, di ciò che deve ritenersi il corpo organico della pittura caravaggesca, assetto naturale di un modello colto nella luminosità irraggiata d'una cantina nella quale una riconoscibile luce calasse dalla ferita di un pertugio. Di questa esposizione a soggetto, che affondava parte delle sue tesi nella famosa ricerca di Erwin Panofsky, si costituirono protagonisti, oltre agli artisti che abbiamo nominato, anche lo stesso Annibale Carracci che nella giovinezza prima, avanti di affrontare la ritrovata solidità carnale correggesca, giocò a liquefare - si direbbe - l'ordito pittorico entro una tramestio di tavolozza piuttosto che in un progetto di organico, preminente disegno. Nacque così in Palazzo dei Diamanti, un'esposizione tanto compatta quanto breve e sapiente, dove il soggetto dichiarato - e dunque il ‘Parlar Disgiunto' - veniva illustrato da una decina di capolavori assoluti degli artisti principali della Spätrenaissance, e cioè dell'avanzato Rinascimento - ai quali si poteva accreditare una parte molto elevata della pittura di ordito luministico, uscita dal manierismo accademico, e piuttosto entrata nell'osservazione d'aprés nature: non nel senso di un approccio realistico e veritiero, ma essenzialmente e esistenzialmente verisimile, perché calato entro il metodo d'una attiva contemplazione. Raramente furono uniti attorno a un soggetto di rara difficoltà ermeneutica i nomi che abbiamo annotato in questo ricordo, con opere come quelle di Jacopo o di Tiziano, di Annibale e del Tintoretto. E insieme con meravigliose opere, pale d'altare d'una liturgica emotività, del Bastianino, in omaggio al fatale restauro del Giudizio Universale nella truna della Cattedrale; e un abbozzo per i colori di Barocci, finalizzato alla meravigliosa Sepoltura di Cristo in Santa Croce di Senigallia, esposto per la prima volta in assoluto per concessione e alta comprensione del suo proprietario, George Wildenstein. Un reale contributo all'illuminazione critica e storica dell'anno 1580 nel quadro della risoluzione finalmente raggiunta dalla riforma naturalistica dell'arte italiana. Alle origini della pittura moderna europea.