





















generale Giovanni Malacarne e il vicedirettore Antonio Boari. L'importanza dell'acquisizione è sottolineata da Cesare Gnudi. La vicenda dell'acquisizione della tranche di Maria Teresa Ricasoli comincia intorno agli anni Settanta, con consulente il critico e professore di storia dell'arte a Bologna Carlo Volpe. Intervengono altri illustri critici come Bruno Toscano e Mina Gregori. Le trattative sono portate avanti tra il 1981 e il 1982 da Carlo Volpe, Filippo Lodi, ma soprattutto da Paolo Ravenna che nel 1983 risolve la questione di uno dei più importanti pezzi della collezione, il cosiddetto "Maestro di Figline" espunto dal blocco delle opere. Con il suggerimento di Ravenna l'opera viene comprata dallo Stato e dirottata alla Pinacoteca di Ferrara, benché fose stata destinata agli Uffizi. Da questa breve e talvolta lacunosa ricostruzione appare evidente come la vicenda dell'acquisizione della collezione Massari evochi nomi che avranno importanza determinante nella sorte e nelle scelte della collezione "storica". Primi fra tutti, Cesare Gnudi e Giuseppe Minerbi. Di Cesare Gnudi è stata compilata una bella nota biografica nel Dizionario biografico dei Soprintendenti Storici dell'arte (1904-1974), Bononia University Press, 2007, a cui rimando, come per Amalia Mezzetti che scriverà sulla collana due monografie: quella sui fratelli Dossi, 1965 e quella su Girolamo da Carpi, 1977. Gnudi, così presente nella trattativa sulla prima collezione Massari, offre l'esempio più suggestivo di un soprintendente che possedeva profonda dottrina, uso degli strumenti critici e capacità manageriali nel difficile compito del suo ufficio. Piace ricordarlo qui assieme ad Andrea Emiliani che, come è noto, rinunciò alla carriera accademica, dopo la sua nomina a professore di storia dell'arte, per tener fede al principio di quel "civil servant" ora minacciato da tagli e sparizioni a vantaggio di una figura di sovrintendente esclusivamente manager. Dalla profonda conoscenza della materia e soprattutto dall'impegno militante, le due figure di Gnudi e di Minerbi traggono i requisiti per impostare la collana. Salta subito all'occhio un'apparente incongruenza scientifica nel primo dei volumi pubblicati, il citato Cosmè Tura di Mario Salmi. Come spiegare che l'opera del più importante pittore ferrarese non fosse stata affidata al suo più illustre commentatore: vale a dire a Roberto Longhi? Il piccolo mistero viene chiarito in una lettera di Minerbi comunicatami da Paolo Ravenna in cui l'autore si lamenta dell'opposizione del consiglio al nome del grande critico. Viene scelto dunque Mario Salmi che, nel 1960, pubblicherà anche la monografia su Ercole de Roberti e l'anno successivo, Pittura e miniatura nel primo Rinascimento. Salmi si presenta tra i più strenui difensori della tutela dei beni artistici e non va dimenticato che la sua laurea in Giurisprudenza (O gran bontà de'cavalieri antiqui!), discussa a Pisa nel 1910, ha per argomento "La tutela del patrimonio artistico nazionale"; inoltre, nel 1967, ricoprendo la carica di vicepresidente del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti, istituì per Arezzo una Soprintendenza autonoma. Non è proprio il suo campo quello in cui esercita la sua critica sul grandissimo Tura, ma la sua indiscutibile capacità di muoversi in quell'ambiente che comprende anche le cosiddette arti minori (si ricordi che fu tra i fondatori, a Firenze, della cattedra che portava appunto quella denominazione e che rese più criticamente valido il volume sulla miniatura e la pittura), ne ha fatto un punto di riferimento apprezzabile in tempi pionieristici. È importante ricordare anche il ruolo svolto da Ferrariae Decus, la storica associazione culturale ferrarese, che si associa all'impresa. Nella testimonianza dell'exergo di apertura del volume si legge: "La Ferrariae Decus [...] ha promosso questa pubblicazione che nel nome di Cosmè Tura ravviva la gloria dell'antica scuola pittorica ferrarese." Sarà poi Monica Molteni che, per conto della Fondazione, rivisiterà nel 1999 il pittore con una nuova monografia; come già aveva fatto nel 1995 per l'Ercole de' Roberti. Il problema dell'aggiornamento dei volumi, quelli di più antica data o che necessitavano di radicali revisioni critiche, è stato compito della successiva ripresa sotto l'egida di Cassa e Fondazione unite per alcuni titoli come il Garofalo di Alberto Neppi la cui versione storica risale al 1959, ripreso da Anna Maria Fioravanti Baraldi nel 1993; o il Cossa (Neppi, 1958), riproposto da Vittorio Sgarbi nel 2004; o lo Scarsellino (Maria Angela Novelli, 1964), con importanti e fondamentali studi dalla stessa autrice. Il volume uscirà in contemporanea con questa rivista nel 2008. Se questa è, dunque, la necessaria politica culturale di aggiornamento dei titoli, ancora si attende la ripubblicazione di quello che, a parere unanime, è considerato il capolavoro indiscusso della collana storica: il Bastianino di Francesco Arcangeli (1963), che rappresenta uno dei punti più alti della critica su questo magnifico pittore interpretato da un grandissimo critico. L'opera che non ha perso né di smalto né di attualità è ormai introvabile. Il progetto di una revisione nell'apparato delle note, delle fotografie e dell'aggiornamento bibliografico proposto da Andrea Emiliani nel 2000, al tempo del restauro del Giudizio universale, con un'introduzione magistrale di Ezio Raimondi sulla figura di Arcangeli e una nota tassiana proposta da chi scrive, è ancora rimasto lettera morta; ma non disperiamo che la Fondazione e la Cassa raccolgano questo invito. Ritornando ai titoli della collana storica, ai tre volumi di Salmi s'intrecciano i due di Alberto Neppi su Garofalo e Francesco del Cossa. Neppi, come Salmi, proviene da studi non umanistici. Si laurea, infatti, in Chimica interessandosi contemporaneamente ai movimenti culturali che si addensano in quei primi vent'anni del Novecento. Lo scatto determinante avviene quando, dopo il primo conflitto mondiale, assume la direzione della gloriosa casa editrice ferrarese Taddei, comprata dal padre. Sotto la sua direzione, l'attività editoriale assume ben presto una raffinata impronta. Neppi pubblica Corrado Govoni e Filippo De Pisis. Dopo l'esperienza editoriale, Neppi si trasferisce a Roma dove collabora a "Dedalus" l'importante rivista di critica d'arte e si dedica ai suoi amati studi sulla pittura ferarrese del Rinascimento. Nel caso di Neppi, la scelta dei consiglieri è indirizzata dalla "ferraresità" dell'autore, ma ben presto, proprio per suggerimento di Gnudi e di Minerbi, s'impone un indirizzo critico che nella maggior parte dei casi si rifà alla scuola bolognese di Longhi, Volpe e Arcangeli. Comincia Emiliani col volume sul Bononi (1962), allora considerato autore difficile e poco conosciuto, riscoperto in epoca contemporanea nella celebre esposizione di Bologna (1959), Pittura del ‘600 emiliano curata da Arcangeli, Calvesi, Cavalli, Emiliani, Volpe, vale a dire la generazione più avvertita dell'insegnamento di Longhi a Bologna, con una premessa di Gnudi. Ma la "scuola bolognese" attesta, oltre al citato Bastianino di Arcangeli e allo Scarsellino della Novelli, una numerosa schiera di critici: da Frabetti dell'Ortolano (1966) e del Manieristi a Ferrara (1972) e dell'Autunno dei Manieristi a Ferrara (1978), allo Zamboni del Mazzolino (1968), del Pittori di Ercole I d'Este (1975), al Riccomini de Il Seicento ferrarese (1969) e de Il Settecento ferrarese (1970), tutti sono di "derivazione" longhiana, mentre i due volumi di Ranieri Varese (Costa, 1967; Il Trecento ferrarese, 1976) risentono della scuola di Ragghianti. In questo duplice schieramento (oltre ai citati Salmi, Neppi e Mezzetti), si ritrovano il gusto e le scelte di Gnudi, ma soprattutto di Minerbi. Resta da accennare ai volumi affidati rispettivamente a Claudio Savonuzzi (Ottocento ferrarese, 1971) e a Sandro Zanotto (Novecento ferrarese, 1973); specie del primo che, fuori dal coro, delinea un ancor sollecitante e valido panorama di una delle epoche meno frequentate, a quei tempi, della cultura pittorica ferrarese, ora oggetto di molti ed esaustivi lavori di Ranieri Varese e di altri critici. L'assenza dei due capiscuola, Longhi e Ragghianti, appare tanto più significativa quanto più essa è determinante per la scelta degli autori. Ma a Ragghianti, intrinseco di Minerbi, toccherà poi il compito di illustrare in un volume gli splendidi affreschi della Casa del Sale: Gli affreschi di casa Minerbi a Ferrara. Senza indicazione di anno, (ma 1970), esce a cura della Cassa di Risparmio di Ferrara, seppure un'avvertenza chiarisca che il volume è stato sovvenzionato dall'Associazione fra le Casse di Risparmio italiane. La gratitudine di Ragghianti per l'amico Minerbi è inoltre sottolineata in una nota finale; ma per tutta la questione riguardante le diverse indicazioni critiche, Longhi, Ragghianti, Arcangeli sull'autore/autori dei superbi affreschi di Casa Del Sale-Minerbi, restaurati da Ottorino Nonfarmale e dal Raffaldini nel 1955, si rimanda a una postilla di chi scrive apparsa nel saggio Interni ferraresi. Il problema del vedere nella narrativa di Giorgio Bassani negli Atti del convegno Interni familiari nella letteratura italiana, a cura di Maria Pagliara, Bari, 2007, pp. 177-79. Questa geografia culturale che ho tentato di delineare mi sembra indaghi abbastanza esaustivamente il progetto della collana storica intrapresa dalla Cassa. Dapprima gli autori quatrocenteschi, poi quelli del Cinquecento intersecati dalle scuole pittoriche, indi il panorama storico critico dei secoli: dal Trecento al Novecento. Le risonanze furono nel tempo straordinarie: dai tre volumi dell'Indice ragionato dei pittori italiani di Amalia Mezzetti e di Emanuele Mattaliano (1981-83) ai ponderosi volumi di Alessandro Ballarin su Dosso Dossi del 1994-95. Un'altra tappa decisiva della politica culturale di Cassa e Fondazione va ravvisata ancora nella straordinaria acquisizione della Collezione Costabili, indagata da Grazia Agostini (1997) sul materiale raccolto da Emanuele Mattaliano, e in quella della Collezione Strozzi Sacrati che ha rappresentato, per i pezzi destinati dallo Stato alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara, la più cospicua, per importanza delle opere (basti pensare alle due Muse dello Studiolo di Leonello) di questa nuova acquisizione. Puntuale illustrazione ne dà Giuliana Marcolini in La collezione Sacrati Strozzi: i dipinti restituiti a Ferrara, 2004. E per concludere, l'opus magnum di Adriano Franceschini che, dal 1993 al 1997, pubblica in tre volumi il fondamentale lavoro archivistico di Artisti a Ferrara in età umanistica e rinascimentale a cui si aggiunge, proprio quest'anno, l'opera postuma finanziata dalla Fondazione: Presenza ebraica a Ferrara, a cura di Paolo Ravenna, Olschki , 2007. Questa imponente raccolta e interpretazione della cultura ferrarese nasce, dunque, da una politica ben precisa e illuminata che si conclude, provvisoriamente, nel lavoro di restauro del nuovo Museo che abbellisce Ferrara: quello che ha riportato alla luce e al mondo delle arti il Tempio di San Cristoforo alla Certosa. Un'impresa colossale che non sarebbe stata possibile senza l'intervento illuminato e decisivo della Fondazione Carife. Va da sé che una riflessione s'impone. Chi investe in cultura, prima o poi ha un ritorno di immagine e di consenso che in questi tempi difficili vale come monito: non ci può essere economia senza cultura.