Ferrara e la sua Cassa

Written by  Patrizio Bianchi
Anche nel dopoguerra sono proseguite le opere di bonifica. Nell’immagine vediamo i lavori di bonifica di valle Zavalea, nel 1952. Alcune riflessioni sull'evoluzione del sistema economico ferrarese nel periodo dal dopoguerra a oggi
Nel dopoguerra, la Cassa di Risparmio comincia una nuova fase. Nella relazione del Consiglio di amministrazione, presentata nel "Rendiconto del 1945, 107° esercizio dell'Istituto", si legge: Cessata nella primavera scorsa la tragica bufera di guerra che per cinque anni aveva sconvolto il mondo con stragi e lutti particolarmente gravi per la nostra Nazione, l'alba di pace non ha purtroppo segnato l'auspicata, sollecita ripresa di una vita pacifica ed operosa. Troppe rovine erano negli animi e negli spiriti travolti dal turbine della lotta sanguinosa! Auguriamoci che la ferma volontà e i tenaci sforzi di tutti gli onesti possano superare i critici momenti attuali e vincere gli ostacoli che si frappongono al conseguimento di questi alti fini che la parte migliore del Paese persegue.
Con la liberazione, il precedente Consiglio di amministrazione si era dimesso e venne sostituito da una gestione commissariale, istituita con decreto prefettizio, confermato dal comando alleato. L'avvocato Mario Cavallari, commissario, e l'avvocato Renato Giovanetti, vicecommissario, nel luglio 1945 assunsero la responsabilità di rilanciare la Cassa, ai cui vertici vennero confermati con decreto ministeriale nell'ottobre successivo come presidente e vicepresidente. Nel dicembre, si insediò poi il nuovo consiglio e con questo atto l'istituto riprese la sua ordinaria amministrazione. Deve essere rilevato, come scritto nel "Rendiconto", che per l'intero periodo bellico e Il premio Nobel per la chimica conferito al professor Giulio Natta (nell’immagine con alcuni suoi collaboratori del Politecnico di Milano) ha dato grande lustro e impulso all’economia ferrarese degli anni del boom.anche negli ultimi giorni della guerra, tranne che per i pochi giorni tra la Liberazione ed il Primo maggio, la banca continuò a funzionare, nonostante la provincia fosse così prossima al fronte. Nonostante l'avvicinarsi della zona di battaglia, l'Istituto ha continuato imperturbato il suo lavoro, con la sola interruzione del periodo per la nostra provincia, dal 21 aprile al 2 maggio, in cui la Cassa per superiori disposizione rimase chiusa, dopo di che la normale funzionalità dell'Istituto fu ripresa in piena. Ed egualmente va notato che la ripresa delle attività a pieno regime fu pressoché realizzata in tutte le filiali della provincia, tranne proprio Argenta che fu al centro delle operazioni di sfondamento da parte delle truppe alleate. Tale positiva tenuta della banca di fronte a eventi così devastanti fu largamente dovuta al fatto che il sistema creditizio italiano aveva già affrontato il suo momento più drammatico durante la grande crisi economica mondiale del 1929, da cui era uscita con un sistema di regolazione pubblica, che di fatto lo protesse anche durante i lunghi anni di guerra e, anzi, fu in grado di sostenere la ricostruzione, la ripresa, e tutte le sue successive fasi di sviluppo fino al 2000, quando il processo di integrazione europeo impose una liberalizzazione e privatizzazione del sistema bancario.Una visuale sugli impianti del Petrolchimico di Ferrara (1963).Il sistema creditizio italiano, prima di quella temperia, era basato su alcune antiche istituzioni creditizie, il Monte dei Paschi, l'Istituto San Paolo, i banchi meridionali, già istituti di emissione Sardegna, Napoli, Sicilia, le casse di risparmio, monti di pietà, casse rurali e altri banchi locali, a cui si erano aggiunti, dalla fine dell'Ottocento, le banche d'investimento di derivazione francese e poi tedesche. Le grandi banche miste, la Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano, il Banco di Roma, la Banca Italiana di Sconto raccoglievano i risparmi, ma investivano direttamente in azioni industriali, principalmente in imprese che producevano beni acquistati dallo Stato, dai treni alle opere pubbliche, che a sua volta finanziava con buoni del tesoro acquistati dalle stesse banche. Questo circuito, che pure in fase di crescita aveva permesso a un paese arretrato di accelerare il suo sviluppo, durante la prima guerra mondiale era stato tirato fino al punto di rottura. Inflazione alle stelle, deficit pubblico fuori controllo, grandi imprese controllate dalle banche moltiplicate per mille. Alla fine della guerra il crollo della economia di guerra portò ai primi fallimenti, fra cui Banca di Roma e Banca Italiana di sconto. Dopo una apparente risoluzione, i problemi riemersero con la grande crisi mondiale che portò al collasso del sistema bancario e a un intervento di salvataggio da parte dello Stato, con la creazione dell'IRI e poi con la legge bancaria del 1936, in un assetto che perdurò fino al 1992. l’uscita degli operai dallo stabilimento Montecatini, nel 1960. Un’immagine simbolica del passaggio del territorio ferrarese da un’economia quasi esclusivamente agricola a un’economia pienamente industriale.Il sistema bancario attraversò quindi il periodo bellico ben strutturato entro uno schema di regolazione pubblica che resse anche al cambiamento di regime politico e a un completo ridisegno del contesto economico internazionale. In questo schema strettamente vigilato dal Tesoro e dalla Banca d'Italia, le Casse di Risparmio mantengono il ruolo di raccolta dei risparmi minuti e di impiego nella realtà locale, con un forte impegno verso le categorie meno abbienti. In questo contesto, la Cassa di Risparmio di Ferrara fin dal primo esercizio successivo alla fine delle ostilità si presenta come una banca ben radicata in un territorio agricolo, con una larga parte di attività legate all'ammasso dei cereali, al finanziamento delle attività produttive legate ai cicli agricoli. Tuttavia, in quegli anni, il territorio del ferrarese era caratterizzato da un profilo agricolo ben diverso da quello del resto della regione. Soprattutto nella Bassa, la proprietà era fortemente concentrata in grandi imprese (Società Bonifiche Terreni Ferraresi, Lodigiane, Gallare), e alcune grandi tenute familiari. Era questo l'esito delle grandi bonifiche che, dapprima in epoca estense, avevano risanato le terre attorno alla città e poi, in età più recente, avevano recuperato tutta la vasta area tra il Po, il Mare e il Reno. La bonifica era un'attività industriale, condotta con tecnologie avanzate, l'impiego di grandi capitali e una organizzazione di vasta scala, che richiamava Sale controllo della produzione degli stabilimenti Polimeri Europa negli anni 1990.lavoratori, che poi permanevano nell'azienda come braccianti. La principale azienda era la SBTF, costituita nel 1871, in Inghilterra, con l'obiettivo di bonificare vaste aree paludose nella provincia di Ferrara e in altre regioni del Regno d'Italia. La società entrò pure in crisi finanziaria nei primi anni trenta e attraverso il salvataggio dello Stato rimase al Fondo pensioni della Banca d'Italia, giungendo a disporre di oltre 28 mila ettari. Egualmente, le altre grandi imprese disponevano di una struttura organizzativa di grande impresa, con proprietà lontane, produzioni estensive, che nell'insieme non dava lavoro a una così vasta popolazione. Nella Provincia di Ferrara nel dopoguerra l'85% dei lavoratori agricoli erano giornalieri, con un profilo occupazionale riscontrabile solo nelle aree più arretrate del Mezzogiorno. La povertà era così estesa che interi comuni erano sotto la linea della miseria. Le poche imprese manifatturiere erano connesse con l'agricoltura e nel dopoguerra faticosamente stavano riprendendo. La Bertoni e Cotti di Copparo, la VM di Cento, la Fratelli Pesci Aratri di Mirabello, la Burgo di Ferrara, sono imprese che hanno percorsi ben diversi fra loro. L'evento che muta il quadro industriale della provincia è l'insediamento della Montecatini Sale controllo della produzione degli stabilimenti Polimeri Europa negli anni 1990.nell'area industriale di Pontelagoscuro. Montecatini concentra qui risorse e lavoratori, da altre sedi con significativi effetti per la struttura economica e sociale del territorio. Ricordiamo l'inserimento di una considerevole comunità proveniente dalle Marche, che si inserisce nell'area nord della città, dapprima separata nei confronti del precedente insediamento locale. Ne scaturisce una dinamica che per anni presenta caratteri molto simili alle grandi periferie del Triangolo industriale, generando un rapporto fabbrica, scuola, quartiere, che appare del tutto separata rispetto al resto della città. Ricordiamo anche il tipico effetto di arrivo di una grande impresa in un territorio agricolo e artigianale, cioè il progressivo svuotamento della fascia di operai specializzati e di piccoli imprenditori artigiani, che sono stati assunti dalla grande impresa, ricercandovi sicurezza economica e percorsi di carriera, ma svuotando di fatto tutta la fascia di più alta qualificazione delle imprese locali. Si genera quindi un effetto di desertificazione dell'industria locale, che lascia segni pesanti per lo sviluppo futuro dell'imprenditoria locale. Egualmente bisogna ricordare che l'industria chimica non genera sul territorio effetti di indotto come l'industria meccanica, che richiede subforniture offerte da piccole e medie imprese. La grande petrolchimica non richiede subforniture esterne né attiva indotto. Vi è quindi una riarticolazione del sistema produttivo che tende a strutturarsi su poche grandi imprese: chimiche a Ferrara, Montecatini, ma anche Solvic; meccanica invece a Cento, che nel tempo diverranno tutte multinazionali, in netto contrasto con quanto si stava realizzando nelle provincie della Via Emilia, avendo unica somiglianza con la Provincia di Ravenna. All'interno di Montecatini va rilevata, quasi paradossalmente, la presenza di uno straordinario centro di ricerca che porta addirittura il suo direttore, Giulio Natta, a ricevere il Premio Nobel per la chimica. Da questo tuttavia non si ha nessun impatto sullo sviluppo cittadino, che in effetti recupera occupazione in un ambito di grande industria moderna, ma nel contempo perde nei comparti artigianali e industriali. In questo quadro si colloca la riforma agraria realizzata con la legge stralcio del 1950. Le grandi lotte bracciantili del dopoguerra ponevano il tema centrale della grande povertà legata alle bonifiche, che una volta realizzate mantenevano inattive a livello locale grandi masse di lavoratori, necessari nella fase di costruzione della rete dei canali scolmatori, dei canali di irrigazione, della costruzione delle idrovore, e più in generale della straordinaria opera di ridisegno di un così vasto territorio. Ne risulta una richiesta di riscatto sociale, ma anche di una profonda riorganizzazione dell'attività agricola. La riforma agraria dà vita all'Ente Delta Padano che avvia una gigantesca attività di esproprio delle terre bonificate dalle grandi imprese, con una conseguente attività di frazionamento e assegnazione a braccianti, che divengono così piccoli proprietari, mutando la loro identità sociale. La riforma incide profondamente sulla struttura economica e sulla società ferrarese. Tutte le grandi imprese sono toccate e in particolare la SBTF che viene ridotta a poco più di quattro mila ettari, ancora elevatissima come dimensione, ma lontana da quella media emiliana, dove vi sono molte grandi imprese agricole padronali, ma pochissime capitalistiche come nel ferrarese. Il frazionamento porta a oltre quindicimila nuovi piccoli proprietari, cifra enorme che però lascia scoperti migliaia e migliaia di braccianti; le assegnazioni, infatti, sono mediamente di 5 ettari, certamente non sufficienti ad assumere salariati e ben presto si evidenzia anche la insostenibilità di sopravvivenza per famiglie numerose. Attorno alla nuova piccola proprietà contadina e agli assegnatari si strinse una fitta rete di nuovi rapporti, dalla rete dei consorzi agrari, alla Coltivatori diretti, alla mutua di categoria. Una nuova organizzazione che si contrappone a quella sindacale bracciantile, generando non poche tensioni, che si ridurranno solo per una crisi locale che sfocia alla fine degli anni Cinquanta in una massiccia emigrazione verso il Triangolo industriale e in particolare verso la cintura torinese. La Bassa dimezza in pochi anni i propri abitanti, le case appena costruite dall'Ente Delta vengono abbandonate, Moncaglieri, Nichelino, crescono con comunità che lasciano Ambrogio, Berra, Codigoro, e via via tutti i nostri paesi. I bilanci della Cassa riprendono puntualmente questa situazione, riportando di anno in anno l'evoluzione degli avvenimenti, segnalando come la provincia abbia una tendenza diversa di quella nazionale, tanto che negli anni del boom economico, per la Provincia di Ferrara come per le provincie più depresse del Mezzogiorno, la nostra economia peggiora, determinando flussi migratori verso le aree in crescita. La tensione sociale si sposta sulle imprese industriali, agli inizi degli anni Sessanta si arriva a un conflitto durissimo alla Berco di Copparo, che addirittura viene posta sotto sequestro dal Consiglio Comunale e, espulsa la proprietà, sottoposta a una Commissione di nomina pubblica. Alla fine degli anni Sessanta, è la Montecatini, divenuta Montedison, a essere centro di una vertenza sindacale altrettanto dura. Imprese che tuttavia prenderanno ben presto la via di una proprietà multinazionale, che progressivamente nei decenni successivi saranno sempre più lontane dalle dinamiche locali. La relazione del 1970 descrive con grande attenzione la fragilità della economia ferrarese e la difficile situazione della imprenditoria locale. Ferrara ha il fiato grosso. Cala il numero delle industrie (13 iniziative industriali sono dirottate nell'area bolognese-modenese; 40 nell'area polesana) 25.000 unità lavorative attendono il loro collocamento sempreché non debbano fare la fine delle altre 60.000 che negli ultimi anni hanno lasciato la nostra terra (p.16, Resoconto 1970). Uno spaccato della situazione economica locale resta comunque ben dato dalla analisi degli impieghi a breve termine della Cassa, che nel 1970 vede ancora il 50,93 per cento concentrati nel settore dell'agricoltura e dell'alimentazione. Del rimanente 49 per cento, il 20,24 per cento è dato dalla attività degli enti pubblici, al terziario va un 12,88 per cento (di cui al finanziamento di credito e assicurazioni, ben un 9,83 per cento) e un restante 3 per cento a finanziare alberghi, case di cura, spettacoli e l'intera area del commercio al minuto). Il credito a privati raggiunge un 5,33 per cento. Interessante è dunque, infine, quanto degli impieghi va all'industria: solo il 10,62 per cento del totale, ripartito in un 1,14 per cento al tessile, abbigliamento, calzature, un 3,80 per cento ai settori degli oli minerali, ferro, macchine, metalli, elettrodomestici, chimica, carta. Il restante 5,80 per cento ai settori tradizionali dell'edilizia, materiali da costruzione, legname. Una situazione economica, quindi, ancora largamente incentrata sull'agricoltura, con una industria manifatturiera che disponeva di grandi impianti di imprese multinazionali, che però avevano altrove il loro centro vitale, e un'imprenditoria locale, concentrata in settori tradizionali, frammentata in imprese di piccola dimensione. Questo mentre nell'area centrale della Via Emilia si stavano delineando i primi distretti industriali, con aggregazioni produttive che in pochi anni - negli anni della crisi della grande industria - diventeranno l'asse portante dell'industria italiana. Mentre Bologna, Modena, Reggio, Parma divenivano il cuore del Made in Italy, sviluppando l'economia delle 4A, cioè Alimentazione, Abbigliamento, Arredamento, Automazione, la provincia di Ferrara accentuava caratteri di debolezza strutturale, tanto che lo stesso "Rendiconto" del 1970 deve sottolineare, alla stessa pagina 16: Abbiamo esposto i connotati della problematica provinciale, non per drammatizzare una situazione che seppur grave non è certo disperata (Ferrara "non" sta alla Regione, come il Mezzogiorno all'Italia), ma perché le più significative forze economiche della provincia, autorevolmente rappresentate nella nostra assemblea, traggano volontà ed energia in un clima di concordia, per superare questa fase di depotenziamento del nostro assetto economico e pervenire allo sfruttamento di tutte le potenzialità di manovra, di intervento e di difesa che pure non ci mancano. Con la creazione della Regione Emilia-Romagna, il tema della relativa arretratezza della provincia ferrarese diviene argomento della stessa programmazione regionale. Nella prima giunta, presieduta da Guido Fanti, l'assessore Germano Bulgarelli lanciò la visione dell'Emilia Romagna come "sistema metropolitano policentrico", in cui le vocazioni territoriali si dovevano integrare in un quadro regionale organico. Fu qui che emerse la principale debolezza del nostro territorio. Quale visione prospettica, quale vocazione per un territorio che sembrava presentare più vuoti che pieni? Cominciò in quella epoca difficilissima una riflessione attenta sul rilancio del nostro territorio, che fece perno su un'azione di valorizzazione del patrimonio storico e ambientale come elemento di identità e quindi di vocazione per lo sviluppo. Mentre erano più critiche le condizioni della nostra economia si ebbe, infatti, quella convergenza di intenti che portò a un patto per lo sviluppo che effettivamente generò uno spirito nuovo. Il recupero delle Mura, dei grandi contenitori storici, il rilancio dell'università con la creazione di nuove facoltà, l'avvio delle grandi mostre, la musica, e poi, nel tempo, la valorizzazione del Delta, rappresentano i passi di un lungo cammino originale, divenuto poi prototipo per molte altre realtà italiane, con il contestuale progressivo sostegno a realtà produttive, certamente non integrate fra loro come nelle realtà "forti" della regione, eppure in via di consolidamento in un contesto che si stabilizzava, differenziandosi. Nel frattempo. il quadro generale cambiava rapidamente. Dalla metà degli anni Settanta, il quadro economico mondiale era cambiato. La crisi petrolifera aveva segnalato un quadro diverso, in cui i prezzi delle materie prime divenivano instabili e fattore di straordinaria incertezza. Di fronte a una crisi che poneva tutte le grandi imprese in difficoltà inedite, la stessa Comunità europea non era in grado di rispondere, se non alla metà degli anni Ottanta rilanciando una più avanzata fase di integrazione europea. All'interno di questo percorso si è convenuto che il punto cruciale fosse l'apertura e l'integrazione del mercato dei capitali. Questo percorso viene accelerato in Italia, nella prima parte degli anni Ottanta, da una serie di pericolosissime deviazioni nel mondo bancario, che determinano la convinzione che la regolazione degli anni Trenta non sia più sufficiente a garantire lo sviluppo in economia aperta. Le spinte europee verso un'apertura dei mercati dei capitali e le stringenti necessità interne per un riordino dell'intero settore a quasi cinquant'anni dalla legge bancaria, portarono verso una serie di interventi normativi volti a riconoscere il carattere di impresa delle attività creditizie, rivolgendo le modalità di intervento della Vigilanza verso una maggiore concorrenza fra banche, superando le precedenti distinzioni funzionali esistenti fra istituti votati alla raccolta dei risparmi e banche indirizzate a sostenere le attività produttive, con il superamento della ormai insostenibile divisione fra credito di breve e di lungo e medio periodo. Come rileva Giordano (2007), già nelle sue prime "Considerazioni Finali" del 1979, il Governatore Ciampi aveva chiaramente indicato il senso di marcia della sua azione riformatrice. Cruciale fu in questa fase, l'azione del Ministro del Tesoro Andreatta, che abolì nel 1981 l'obbligo della Banca d'Italia di acquisire i titoli residui delle aste del Tesoro, giungendo così a quel "divorzio" fra Tesoro e Banca d'Italia, che aprì il passo a una effettiva separazione fra ruolo del governo e ruolo della banca centrale nella gestione della liquidità, e quindi permise a sua volta di ripensare l'intera impalcatura del credito in Italia, aprendo la via a una liberalizzazione delle attività giungendo in tempi brevi alla banca universale e nel contempo a una privatizzazione degli istituti pubblici. Gli interventi definiti nella seconda parte degli anni Ottanta furono tali che nei primi anni Novanta si giunse a una privatizzazione che non ebbe confronto in nessun paese del mondo. Si ricordi che ancora negli anni Ottanta oltre il 95 per cento dei depositi era in istituti pubblici o controllati dal pubblico, mentre in meno di dieci anni si giunse all'opposto, cioè a una quasi totalità di depositi in istituti privatizzati. Nel 1985, con otto anni di grave ritardo e una dichiarazione d'inadempienza da parte della Corte di Giustizia, viene approvata una legge che applica in Italia la Prima direttiva europea, che riconosce il carattere di impresa dell'attività bancaria. Nel 1986, la Banca d'Italia avvia nuove regole per l'apertura di nuove banche e fissa i vincoli patrimoniali minimi per garantire la stabilità del sistema, anticipando gli accordi di Basilea del 1988. Si giunge così alla legge 30 luglio 1990, n.218, Disposizioni in materia di ristrutturazione e integrazione patrimoniale degli istituti di credito di diritto pubblico, detta Legge Amato, e il successivo D.Legs. 20 novembre 1990, n.356: disposizioni per la ristrutturazione e per la disciplina del gruppo creditizio. Questi interventi ridisegnano completamente il sistema creditizio italiano, dando il via a una ristrutturazione sostanziale dell'organizzazione bancaria in Italia. Si supera la separazione fra credito a breve e credito a medio e lungo termine, vero pilastro della Legge Bancaria del 1936, e quindi si spingono gli istituti di credito ad assumere forme privatistiche con le conseguenti necessarie ridefinizioni delle governanti interne. Contestualmente si separano proprietà e controllo, definendo una struttura per la gestione delle proprietà, le Fondazioni, e una struttura per la gestione, l'azienda bancaria, e a essa connessa la possibilità di delineare gruppi bancari, che riuniscano più strutture operanti in contesti territoriali diversi e in ambiti operativi fino ad allora distinti. Con il recepimento della Seconda Direttiva europea, degli accordi di Basilea e, infine, con la emanazione del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (D.Lgs. 1 settembre 1993, n.385, in vigore dal 1 gennaio 1994), l'impalcatura normativa, che prende vigore con l'avvio della privatizzazione da parte dell'IRI della Banca Commerciale Italiana e del Credito Italiano. Si avvia una fase di fusioni e acquisizioni che non ha eguale in Europa, se non sul mercato tedesco. Tra il 1990 e il 2000, si realizzano in Italia 514 operazioni di aggregazione, definendo 75 gruppi bancari con una quota cumulata del 90 per cento del mercato. In questo contesto così turbolento, ma anche innovativo, la Cassa di Risparmio di Ferrara si ritrova nella necessità di riadeguare la propria missione e la propria struttura organizzativa, separando Fondazione e azienda bancaria. In tale fase, la Fondazione scelse una via diversa da quella di molti altri istituti locali, di mantenere ben saldo il controllo della azienda bancaria, rifiutando la cessione ai grandi gruppi che si stavano aggregando attorno alle banche cedute dall'Iri o agli istituti già di diritto pubblico. Una scelta che richiamò in tempi brevi la strada di fare della Cassa di Ferrara l'elemento aggregante di un gruppo bancario, superando la ristretta area di riferimento della stessa Provincia di Ferrara. Ne scaturì un decennio di grande crescita, che ha portato alla configurazione attuale di gruppo bancario, che è si è progressivamente espanso nel resto del Paese, acquisendo istituti locali, fortemente radicati nei loro territori e quindi riconoscibili come soggetti attivi in comunità locali aperte, ma tuttora ben legate alle tradizioni. In questo contesto, la provincia di Ferrara conosce momenti di grave crisi. Le lunghe e travagliate vicende della Montedison e di tutta la chimica italiana portano a una ristrutturazione pesantissima del Petrolchimico. Le vicende della chimica italiana hanno rappresentato una parte cruciale dello sviluppo, ma anche del declino della grande impresa in Italia. Le ricorrenti crisi finanziarie legate a scalate incrociate fra gruppi pubblici e privati hanno portato alla dispersione di un patrimonio di ricerca e produzione che aveva pochi eguali in Europa. Il 1993, fu l'anno chiave della chimica italiana, segnati tragicamente dalla morte di Gabriele Cagliari e di Raoul Gardini, e quindi dalla fine di un disegno di una grande chimica nazionale, in grado di competere a livello internazionale con i grandi colossi americani, ma anche dall'evidenza che la crisi stava nelle strutture proprietarie e finanziarie e non nella solidità degli impianti di produzione e nelle strutture di ricerca, tanto che l'impianto di Ferrara viene comunque ristrutturato e acquisito da altre società interessate proprio agli assets di ricerca del gruppo. L'unitarietà dell'impianto viene sezionata dapprima in tre: Himont (con l'americana Hercules), Enichem, e Monteco per la gestione dei servizi, e poi progressivamente in sempre più imprese operanti sui singoli impianti, mentre il cuore dello stabilimento, il centro ricerche passa prima a Shell, poi a Basf, e infine a una società finanziaria russo-americana, che ridenomina la società Basell in Lyondell. Un esito positivo per una crisi che poteva essere ben più grave, che tuttavia raccoglie nel Petrolchimico un numero cospicuo di multinazionali, che nel complesso rimangono però al margine dello sviluppo della comunità locale. Egualmente, anche gli altri grandi soggetti imprenditoria-li della provincia, dalla Berco alla VM, vengono acquisite da grandi multinazionali che permettono a questi impianti di operare in un contesto fortemente internazionalizzato. A questo quadro si deve aggiungere la crisi del settore saccarifero, con la scomparsa della industria di trasformazione in tutto il ferrarese. Alle crisi e ristrutturazioni dei grandi impianti si aggiunge la crescita di una piccola industria, indubbiamente in ritardo rispetto all'area centrale emiliana, che tuttavia si consolida in produzioni di subfornitura e in comparti specialistici, con un effetto complessivo di ridisegno del profilo industriale della provincia, meno schiacciata su grande impresa chimica e saccarifera, ma ancora segnato da fragilità proprie di una area che vede contestualmente convivere attività in declino e attività nascenti e quindi che racchiude in sé due fragilità. In questa difficilissima condizione, tuttavia, pare realizzarsi quanto auspicato in passato: cioè tutte le forze economiche e sociali della città e del territorio sembrano convergere verso un ritrovato slancio per ridisegnare una identità al nostro territorio. L'identificazione della Città d'arte è oggettivamente servita come linea di riferimento per una riqualificazione dell'area urbana e del suo ambiente circostante. La convergenza nella valorizzazione monumentale del centro storico, lo sforzo per il recupero artistico, dai restauri al riuso di grandi contenitori storici, la forte qualificazione della musica, del teatro, dell'arte, non solo come richiamo turistico, ma come identità nuova della città, sono momenti fondamentali per intendere la situazione attuale. In questo quadro, certamente la presenza di un istituto bancario qui localizzato ha costituito un elemento di dinamismo; ma altrettanto importante è stato avere qui una Fondazione bancaria, coinvolta nel processo di riqualificazione e re-identificazione del percorso di sviluppo della città.