La Cassa di Risparmio di Ferrara e le "provvidenze" sanitarie nei secoli XIX e XX
"Altri stabilimenti sovvengono bensì ad alcuni bisogni, ma parziali, o di morbo, o di scaduta sorte, o di tant'altre singolari calamità, cui va soggetta l'umana famiglia, ma vi sovvengono allora solamente che la sventura è giunta al colmo, lungamente durata, pubblicamente notoria. La nostra Istituzione previene ogni genere di sciagura col risparmio in antiveggenza, col cumulo fruttante in inviolabile arca locato...". Con queste parole, il 25 marzo 1840, il marchese Ferdinando Canonici, che esercitava le funzioni di Presidente pro tempore dopo la prematura scomparsa del Conte Alessandro Masi, introduceva i lavori della prima assemblea degli azionisti della neonata Cassa di Risparmio di Ferrara. Nel sottolineare le differenze sostanziali di metodo nell'operare a favore del contesto sociale fra la Cassa e le altre istituzioni assistenziali preesistenti, il marchese Canonici rivendicava, tra le aree di intervento pertinenti alla nuova, anche quello della sanità. Scorrendo i bilanci, i rendiconti annuali, i lucri che dal 1857 sarebbero stati convertiti in beneficenza, secondo quel che prescriveva il regolamento, si delinea ben presto - eccezion fatta per la Poliambulanza medico chirurgica, la Croce Verde e le locande Sanitarie per pellagrosi - sia per numero che per importanza, una sorta di identificazione tra la sanità e l'ente che ricovera e cura il maggior numero di derelitti: l'Arcispedale S. Anna ovvero il Grande Ospitale in Ferrara per i poveri. E se è vero che «les hopitaux sont la mesure d'une civilisation, l'image d'une société» - secondo una felice espressione dello storico francese Muriel Jeorger in un raro articolo del 1977 - la vicenda ospedaliera italiana del secolo XIX, con le sue tardive realizzazioni, con la sua legislazione scarsa ed unica per ospedali e opere pie, ben documenta uno dei gravi ritardi del governo unitario. Parimenti, proprio in nome del paradigma "ospedale-societàciviltà", giustifica ampliamente le energie profuse dalla Cassa per questa istituzione cittadina. E a noi posteri permette un excursus non marginale sullo stato della sanità a Ferrara nell'Ottocento e nel Novecento: non solo, l'Arcispedale S. Anna diventa la cartina di tornasole dei rapporti fra scienza e medicina a Ferrara. Fondato dal Vescovo di Ferrara, Beato Giovanni Tavelli da Tossignano, per espresso volere e incarico del Papa Eugenio IV con breve pontificio datato 8 ottobre 1440, sorse nella vasta area della Contrada o Borgo di S. Guglielmo, nei pressi della Porta dei Leoni e sulla sponda del canale di circonvallazione - ora corso della Giovecca - in luogo dell'antico e abbandonato Monastero dei Padri Armeni. Secondo il pontefice doveva essere un grande e ragguardevole Ospedale in un luogo adatto e comodo, vale a dire che offrisse oltre a salubrità di posizione e ampiezza di estensione, facilità di accesso e possibilità di espansione: il Tavelli ebbe gioco dall'abbandono dei Padri Armeni che lasciarono un grande fabbricato monastico con annesso oratorio ed un vasto terreno che si estendeva da Borgo San Leonardo - ora Borgo dei Leoni - al Borgo San Guglielmo (via Palestro), allo stesso tempo fuori della città, ma nei pressi della medesima. E fu così fino a che l'Addizione Erculea lo incluse fra le mura e sorsero case e palazzi tutt'intorno, in primis, il grandioso convento dei Gesuiti. Gli ospedali erano allora destinati in modo specifico alla raccolta, al ricovero, alla cura, all'assistenza dei malati poveri e, alla imprecisa identificazione del morbo, che a volte sconfinava nella vecchiaia o nell'indigenza, seguiva una altrettanto ambigua definizione della cura (vitto appropriato, tisane, salassi, per quanto riguarda il corpo), mai disgiunta da quella, solerte e assidua, dell'anima. Un ricovero indifferenziato - e il titolo del presente saggio ne dà ragione - il cui modello venne superato solo a partire dal Settecento con la separazione tra malati e poveri, con l'istituzione di speciali "contenitori" solo per questi ultimi. Nel Settecento la rivoluzione dell'istituzione ospedaliera non venne dalla "carità", ma dalla scienza, da una impostazione della cura del malato come studio delle affezioni morbose, la ricerca delle cause piuttosto che la semplice cura degli effetti: indispensabile quindi il collegamento tra l'insegnamento della medicina e la pratica nosocomiale, con raggruppamenti omogenei - v'era «promiscuità... dei malati di qualunque specie di morbo anco cutaneo, ed attaccaticcio » diranno all'ospedale S. Maria Nuova di Firenze nel 1783 -, e dal punto di vista "strutturale", una maggiore cura per la ventilazione e l'igiene delle corsie. Indispensabile divenne separare dagli altri le donne gravide e le partorienti, i folli e gli insani, disporre delle sale per le operazioni chirurgiche, anziché praticarle presso il letto stesso del paziente. Ben si comprende come questa rivoluzione nella scienza medica non poteva non tradursi in un ripensamento della struttura stessa degli ospedali. A Ferrara, solo quarantacinque anni prima della nascita della Cassa, assume l'insegnamento di medicina pratica presso l'Ospedale Antonio Giuseppe Testa, e ciò avviene alla morte di Ignazio Petronio Zecchini (1793), anatomico dell'università di Bologna, voluto a Ferrara dal cardinale legato Antonio Spinola. A soli vent'anni, Testa era già un medico laureato, accolto nel più importante cenacolo letterario che si riuniva a palazzo Bevilacqua, insieme a Gianfrancesco Malfatti, Lorenzo Barotti, Vincenzo Monti, Alfonso Varano, Onofrio Minzioni e Alessandro Zorzi, - corrispondente con alcuni eminenti uomini di lettere e di scienza come Girolamo Tiraboschi, Sebastiano Canterani e Lazzaro Spallanzani - facendo di Ferrara il centro di una delle iniziative culturali più importanti degli anni settanta del Settecento: aggiornare l'Encyclopédie. Le frequentazioni francesi, parigine in specie, di Testa - che frequentò l'Hôtel-Dieu, il più grande ospedale di Parigi che ospitava mediamente 2500 pazienti al giorno e alle cui dipendenze spiccava Pierre-Joseph Desault, uno dei più grandi chirurghi dell'epoca - gli consentirono di elaborare una serie di osservazioni sull'arcispedale ferrarese che costituiscono la prima completa analisi sulle mende del nosocomio e sulla necessità di porvi rimedio. Nella sua Memoria libera su lo spedale di S. Anna, Testa lamentava: la mancanza di regole per l'ammissione e la gestione dei malati; l'ubicazione e le caratteristiche strutturali degli edifici - soffitti bassi e finestre collocate in alto, con conseguente scarsa ventilazione e penetrazione dei raggi solari; colonnati di legno nei cortili interni che dovevano essere «pregni dei più micidiali miasmi», oltre ad altre ataviche carenze che qui tralasciamo per imposta brevità. Come già Testa nel Settecento, anche Luigi Baldassarri, direttore sanitario del medesimo arcispedale, in una comunicazione fatta all'Accademia di scienze Mediche e Naturali di Ferrara nel 1906 dal titolo L'Arcispedale S.Anna e l'ospitalizzazione dei poveri in Ferrara, lamenta una struttura insufficiente a soddisfare l'afflusso, e, in quanto concepita secondo criteri obsoleti, non solo inutile, ma dannosa: «Costituito da un solo edificio come si usava in antico [mentre dal XVIII secolo si optava per la suddivisione in corpi denominati padiglioni]... il nostro ospedale può ravvicinarsi ...a quelli che comprendendo corti centrali hanno per tipo di costruzione la forma quadrata, ormai non più seguita per la difettosa circolazione d'aria. ... Ha infermerie troppo vaste nelle quali sta riunito un numero eccessivo di ammalati ed è tolta la possibilità di dividerli tanto più che per ciascuna difettano camere di separazione e gli annessi, ai quali si tende a dar sempre maggior sviluppo (fino a 10 mq per letto)». Sempre negli stessi anni, Baladassarri, in Movimento degli infermi e condizioni presenti dell'Arcispedale S. Anna, in una analoga comunicazione presentata alla stessa Accademia, così si esprime: «Il movimento scientifico, economico, sociale dei tempi moderni ha portato per gli ospedali la necessità di una profonda e rapida trasformazione. ...Per questo complesso di cause ...la questione ospitaliera viene studiata e dibattuta con varia intensità e fortuna, ma alla sua soluzione definitiva fanno difetto generalmente non le idee o l'ardire ma i mezzi finanziari». Raccogliendo, anzi prevenendo queste osservazioni e auspici, la Cassa, a cominciare dal 1891 con le 900 lire di quel bilancio, devolve anno per anno, costantemente, regolarmente, provvidenze che al 1930 ammontavano a 2.650.000 lire "per l'erigendo Ospedale". Ma non solo, in linea con le più moderne concezioni dell'Ospedale a padiglioni, oltre alla somma già stanziata, eroga negli anni 1935-36 55.000 lire per la costruzione del padiglione "Maria Pia di Savoia", per non dimenticare i mutui stipulati con l'Istituto di credito in oggetto, che ammontano a 3.000.000 di lire secondo il rendiconto generale riassuntivo. Secondo i criteri Istat di rivalutazione, dal 1906 al 1926 le erogazioni a favore dell'Arcispedale sono paragonabili a 4.700.000.000 di vecchie lire. Vorremmo ricordare in chiusura, fra le già cospicue elargizioni sopra elencate, questa, che ne rappresenta idealmente il coronamento, a dimostrazione ulteriore della partnership rappresentata in solido dalla Cassa all'Arcispedale S.Anna. L'anno è il 1938, centenario della fondazione della Cassa. Se il restauro della Palazzina di Marfisa d'Este, invocato da Gabriele D'Annunzio nelle pagine delle Faville del Maglio, oltreché da enti cittadini benemeriti e dal quadrumviro cittadino Italo Balbo, «avrebbe perpetuato il ricordo centenario con un'opera civica di bellezza e di poesia», dotare l'Arcispedale di "radium elementi" per la cura del cancro, significava compiere un gesto di grande valore umanitario e di spessore sociale. Infatti, poiché l'altissimo costo del radium ne impediva l'approvvigionamento al nostro ospedale, gli ammalati abbienti ricorrevano in altre città, mentre quelli poveri erano destinati a fine certa. L'acquisto fu fatto in due tempi: una prima tranche di 149 milligrammi, dalla ditta "Radium Belge-Union Miniére du Haut Katanga" nel 1932, più altri 59 provenienti dalla Cecoslovacchia, per una spesa complessiva di 220.000 lire, una cifra elevatissima per quei tempi. Aghi, tubetti e placche - così si presentava il contenuto dell'astuccio - presi in consegna dall'economo dell'Arcispedale e dal dirigente del gabinetto radiologico, rappresentavano una speranza di vita per tanti sventurati. L'atto di donazione all'Ospedale venne rogato dal notaio Giacomelli, firmato dal senatore Pietro Niccolini per la Cassa, dall'avvocato Giuseppe Magni per il S. Anna e controfirmato dai testi Italo Balbo ed Edmondo Rossoni. Le provvidenze continueranno, con acquisti di strumentazioni per la diagnostica nei vari settori specialistici. Dal 1993 diviene operativa la Fondazione, a cui passa il testimone: al servizio della comunità ferrarese la parola "fine" non esiste.