Ma qual è la produttività dell'arte? In questo senso, un tempo si diceva che l'oggetto d'arte era un fossile economico, dal momento che, entrato in un museo, era impossibile venderlo o commerciarlo. Era cioè stato un argomento vivo nel tempo lontano, quando Botticelli o Reni l'avevano dipinto, assolvendo così a un contratto di committenza.
Poi, una volta entrato in un patrimonio "chiuso", la sua economia restava simbolica, congelata, assente. In conseguenza, i soli che potevano vantarsi di continuare a fare un'economia dell'arte erano gli antiquari. E non c'è dubbio che una visione così commerciale avesse portato anche il valore dell'imprenditoria artistica verso livelli abbastanza banali, con tutto il rispetto per il mondo dell'antiquariato.
Era necessario, dunque, riscoprire e risollevare il valore economico dell'oggetto d'arte, della scultura o della collezione, fuori dalla sua versione paleostorica, che è quella tutto sommato rozza della compravendita. Da questo punto, inizia anche la vicenda delle acquisizioni di dipinti e di "valori" d'arte da parte delle Casse di Risparmio, fino alla creazione di vere e proprie collezioni. Il fenomeno è noto in tutto il mondo; le Casse di Risparmio - e tra le primissime la Cassa di Risparmio di Ferrara - sono tra i pochi istituti che possono citarsi alla testa di una meditata trasformazione economica.
Un'editoria di incentivazione, l'indirizzo generalmente rivolto alla catalogazione dei beni patrimoniali pubblici, le acquisizioni di dipinti o di raccolte, fino alla costituzione di collezioni pubbliche, sono le attività che - organizzate in un piano - hanno ormai una scia storica consistente e visibile.
Se poi qualcuno fosse in grado, con una sapiente opera di ricostruzione archivistico-documentaria, di ricucire gli interventi di restauro operati dalle Casse italiane in concomitanza con eventi civici o celebrazioni, oppure in collaborazione a risanamenti urbanistici o architettonici, scoprirebbe che nella "forma" che noi chiamiamo ormai centro storico si contengono interventi di grande e programmatico valore.
In questo senso, chi scrive la storia del restauro dei "centri storici" italiani negli anni ha a che fare con l'intervento, pianificato o meno, di una Cassa e con la cultura che questo istituto ha espresso, le sue tradizioni e le sue intenzioni. È una vicenda che ha inizio almeno verso l'ultimo decennio del secolo scorso e che dunque ha, spesso e volentieri, un secolo netto di vita.
Ma, per tornare alle collezioni costituite dalle Casse, qual è e dove si rivela il loro valore, al di là dell'investimento che i beni costituiti rappresentano? Occorre superare, per questo, la visione delle collezioni come arredamento o come pompa celebrativa. E' necessario che i beni entrino in un organismo che consenta di esprimere il loro potenziale. Detto senza troppe cerimonie, l'organismo pubblico che può attuare un'economia culturale in forma di servizi e di accoglienza, di studio e di didattica, di avvenimento sociale e di elaborazione turistica, è il museo.
I musei in Italia, contati con caparbietà statistica, sono più di tremila e trecento. Almeno un migliaio, a essere pignoli, è ottimo, potente, oppure in grado di diventarlo tale in poco tempo. La Cassa di Risparmio di Ferrara ha scelto questo indirizzo economico già da una decina d'anni a questa parte e ha depositato le proprie collezioni nel corpo della Pinacoteca Nazionale di Palazzo dei Diamanti.
Una convenzione con lo Stato italiano legalizza tutto questo: i capolavori del Maestro di Figline, dello Scarsellino, del Bastianino e del Francia, di Girolamo da Carpi e del Maestro della Pietà Massari - insomma, un'ottantina di testimonianze d'arte, eredi del grande collezionismo ferrarese - sono oggi in apposite sale, denominate appunto "Raccolte d'arte della Cassa di Risparmio di Ferrara".
L'ultimo intervento operato sul vivo della dinamica di mercato e nel pieno di un evento artistico e commerciale di portata internazionale è stato il completamento - e dunque il perfezionamento - della grande raccolta Sacrati Strozzi. Si tratta di un modello, a nostro modo di vedere, di ingegneria economica, capace di incidere a vantaggio dell'opera stessa iniziata e impostata dallo Stato.
Come si ricorderà, la raccolta, che da Ferrara era migrata a Firenze alla fine del secolo andato, offerta recentemente (1991) in concessione fiscale allo Stato, era stata acquistata e affidata alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara. Si trattava di ventinove dipinti, tra i quali brillavano due perle assolute del collezionismo italiano: le Muse Erato e Urania, opere di allievi del Tura provenienti dalla famosa decorazione dello Studiolo di Belfiore, voluta da Leonello d'Este nel 1447.
Con questo, la Nazionale di Ferrara saliva al rango della National Gallery di Londra, dei Musei Statali di Berlino e di Budapest, celebrando così la buona mostra che proprio allo Studiolo era stata dedicata dal Museo Poldi Pezzoli poco avanti.
Mentre le Muse, e tutti gli altri compagni - da Aspertini a Dosso, dal Panetti al Gandolfi e a Vicino ferrarese - entravano nella Pinacoteca, si aveva notizia dell'asta che la Sotheby's aveva bandito, raccogliendo allo scopo gli altri ventinove dipinti della Raccolta che, per non essere stati vincolati a norma di legge, erano rimasti estranei all'intervento fiscale dello Stato (ex lege 512/82) e dunque affidati alla libera compravendita.
Ma come non pensare, allora, che l'acquisizione della prima parte della collezione famosa fosse il precedente assolutamente indispensabile anche per la trattativa d'acquisto della seconda? Il ministro Alberto Ronchey impegnò la sua autorità con ogni forza e dettò un vincolo di insieme collezionistico anche per questa parte della Raccolta: non si poteva perdere l'occasione di un perfezionamento così ambito.
Risponde alla logica naturale degli eventi il fatto che sia stata la Cassa di Risparmio di Ferrara a consentire al ministro di avviare un procedimento di grande responsabilità, destinato ad avviare di fatto un'intera asta verso un acquisto programmato in terra italiana.
Le cose andarono nel modo previsto, l'asta venne delusa, la Cassa iniziò le sue trattative con la proprietà e, dopo qualche tempo, pur con la fatica connaturata a eventi di questo carattere, anche la seconda parte della collezione Sacrati Strozzi entrava in Palazzo dei Diamanti: vi entrava, naturalmente, come deposito integrativo concesso dalla Cassa di Risparmio di Ferrara.
Si ricostituiva in tal modo un tessuto collezionistico famoso, che a sua volta andava a integrare il "recupero" ferrarese che negli ultimi decenni ha visto ricollocati a confronto nuclei indiscutibilmente famosi e leggendari, come la raccolta Baldi Vendeghini, la Massari e, ora, la Sacrati Strozzi.
L'enumerazione dei dipinti e delle qualità peculiari è impressionante anche stavolta. Il frammento attribuito alla maniera di Ercole Roberti si associa allo stupendo tondo di Biagio, il delizioso Scarsellino si aggiunge agli altri, si riapre la discussione a riguardo delle belle e difficili quattro Scene della Vita di Cristo, la cui attribuzione al giovanissimo Theotocopoli potrebbe restituirci almeno tentativamente un documento fondamentale del transito di cultura che il Greco opera tra la patria ortodossa e la nuova cultura veneziana.
Come ritornare, ora, sul concetto più attivo di economia dell'arte? Il colloquio tra pubblico e privato è colmo, reciprocamente eloquente. I nostri "fossili" economici pompano ogni giorno nuovi viaggiatori, nuovi turisti e visitatori verso via Ercole I d'Este e il Palazzo dei Diamanti. Quale indagine, a quale disciplina appartenente, saprà restituirci in termini quantitativi l'utile di questo evento economico?
Sta di fatto che cultura e educazione sono già per se stessi acquisti di valore identificabile. Sull'orizzonte della Ferrara che sceglie un destino d'arte, la Pinacoteca Nazionale e la Cassa di Risparmio procedono insieme, verso risultati che sono già decisamente alti.
Andrea Emiliani
Soprintendente ai beni artistici e storici per le provincie di Bologna, Ferrara, Faenza, Forlì, Ravenna