Tornando sulle Mura

Scritto da  Giuseppe Grazzini

Vedute aeree di Ferrara a confronto: da una carta del XVIII secolo (Biblioteca Ariostea). "... Se è vero che le guerre, in un modo o nell'altro, non finiscono mai, è bello ritrovarsi su un cammino di ronda e pensare che una città, dentro le sue mura, può ancora difendersi."

Ero stato in Giappone e in Argentina, in Norvegia e in Sudafrica, negli Stati Uniti, in Europa e, naturalmente, anche in Italia. Ma non ero mai stato a Ferrara. Questo dipendeva dal fatto che un inviato va dove il direttore gli dice di andare e non dove vorrebbe lui: così viaggia sempre per servizio e, quando toma a casa, ha voglia di tutto meno che di muoversi ancora. Finalmente, però, venne anche la volta di Ferrara: fu nel novembre del 1986, quando mi affidarono un'inchiesta sulle antiche mura di cinta. Se ne parlava anche all'estero. Una mostra itinerante promossa da Italia Nostra stava richiamando migliaia di persone a Roma, come a Varsavia e a Parigi.


Caso rarissimo, persino i politici erano tutti d'accordo sulla necessità urgente di restaurare quella cortina che, cinquecento anni prima, si era alzata fieramente per nove chilometri intorno alla città e che, dicevano, era ormai sul punto di scomparire. Caso unico, infine, lo Stato sembrava disposto a finanziare i lavori con quasi 70 miliardi. Francamente non capivo il perché di tutto questo. Mi domandavo a che cosa potesse servire una cinta di mura, alla vigilia del Terzo Millennio. Come attrattiva turistica? Poteva anche darsi.

Vedute aeree di Ferrara a confronto: oggi. Ma non sarebbe stato sufficiente, nel caso, rimetterne in sesto uno scorcio come fondo per le inquadrature delle foto e delle videocamere?
Con questi dubbi incontrai l'avvocato Paolo Ravenna, l'animatore delle campagne per il recupero delle mura. "Lei deve anzitutto vederle," mi disse. "IN macchina non si può andare. Ma io ho due biciclette. Le dispiace?" Non aveva neppure aspettato la risposta e stava già scendendo le scale. "Questo è uno che ci crede," pensai: dai tipi così, quando si ha la fortuna di trovarli, si impara sempre qualche cosa. Anche nelle circostanze meno favorevoli, come quella mattina.

Pioveva, tanto per cominciare, e di solito, quando piove, almeno non c'è nebbia. Ma quella mattina c'era anche la nebbia, e sempre più fitta via via che ci si allontanava dal centro. L'avvocato pedalava gagliardo, tanto che faticavo a stargli dietro, e debbo confessare che in quel momento le mura di Ferrara non mi interessavano affatto; cercavo solo di non perderlo di vista, perché nemmeno ero del tutto sicuro che, nella preoccupante eventualità, sarebbe tornato a cercarmi.

Le Mura dopo il restauro.Per fortuna, scalata una breve rampa, si fermò. "Siamo sul baluardo della Montagna," disse. "Qui venne innalzato un terrapieno perché le artiglierie, sparando da quote più alte, avessero una gittata più lunga. Il terrapieno si chiamava cavaliere. Fu un lavoro colossale; d'altra parte questo era un punto strategico di prima grandezza. Ha visto?" Per la verità non avevo visto niente.

C'erano, intorno a noi, delle ombre più scure che dovevano essere degli alberi. E davanti, per quei pochi metri che apparivano e scomparivano nella nebbia, dei mattoni rossi IN rovina. Non sapevo che cosa rispondere e l'avvocato capì. "Verso mezzogiorno," disse con fermezza, "la nebbia dovrebbe alzarsi." "È successo anche a Napoleone sul campo di Austerlitz," dissi io, ma soltanto per solidarietà. E ci rimettemmo in cammino.

Arrivammo sui baluardi del fronte sud, San Giorgio, Sant'Antonio, San Pietro, San Lorenzo, risalimmo fino alle Mura degli Angeli e di ogni tratto quell'uomo straordinario mi raccontava una storia diversa, anche se per me gli scenari erano tutti uguali. La nebbia non si era alzata e alle due del pomeriggio sembrava già notte. Freddo. Umido. Fatica. E anche fame. Ma quel giro non era stato inutile. Mi aveva fatto valutare le dimensioni di un'opera colossale. E soprattutto, quando l'avevo riconsiderata sulle mappe di Ferrara dal Cinquecento in poi, le ragioni per cui tanti uomini di buona volontà intendevano servirsene ancora: certamente non solo per offrire uno sfondo alle foto ricordo.

Salvando le cinta delle mura, Ferrara avrebbe conservato la propria identità urbanistica, mentre ogni altra città è condannata a disfarsi in squallide e indistinguibili periferie: il limite delle mura avrebbe dunque rappresentato per Ferrara quello che i canali rappresentano per Venezia, la frontiera tra la misura dell'uomo e l'angoscia dell'alienazione, l'anello magico da cui si parte alla scoperta dei tesori d'arte e di storia ben custoditi nell'interno mentre, all'esterno, si comunica con i grandi spazi aperti del parco urbano, raggiungendo il Po lungo incantevoli itinerari verso nord.

Le mura prima del restauroSono tornato a Ferrara nel settembre del 1994, otto anni dopo, e ho ripercorso il lungo cammino di ronda delle antiche mura: col sole, finalmente, e con la rara soddisfazione che si prova quando si vede una speranza diventata realtà, grazie all'efficienza e alla prodigiosa volontà dell'Amministrazione comunale. Ho preso qualche nota, per curiosità di cronista.

I cantieri sono stati aperti per 50 mesi e le ore di lavoro dei soli operai sono state 160.000; ma con gli operai hanno lavorato anche architetti, ingegneri, geometri, storici, archeologi. I mattoni originali staccati e quindi rimessi in opera sono stati più di un milione e il materiale nuovo non ha superato il 10%, secondo il saggio principio di un restauro strettamente conservativo, che ha riportato alla luce 263 postazioni per artiglieri e fucilieri, cinque fondamenta di torrioni e altri manufatti di architettura militare.

Ho rivisto le mura, allora scalate da milioni di piante che le soffocavano in una rete inestricabile di rami e minate nelle fondamenta dall'occulta prepotenza delle radici: oggi segnano una linea netta e rossa nel verde e davanti a questa frontiera c'è subito e soltanto la campagna, i milleduecento ettari del barco, dove un tempo andavano a caccia i duchi d'Este.
Niente cimiteri di automobili, niente accampamenti di zingari, niente favelas di immigrati; il barco è ancora il luogo della delizia. Adesso è per tutti e non in esclusiva per i privilegiati: se è vero che le guerre, in un modo o nell'altro, non finiscono mai, è bello ritrovarsi su un cammino di ronda e pensare che una città, dentro le sue mura, può ancora difendersi.

Giuseppe Grazzini
Giornalista