Così, l'inizio dell'Evo moderno è uno dei momenti più alti della lunga presenza ebraica a Ferrara che dal 1100 si protrae per oltre otto secoli, intrecciandosi costantemente con la storia della città. Dapprima un minuscolo stanziamento in via Centoversuri, poi nella Giudecca nei pressi delle antiche mura medievali - da cui l'attuale via Giovecca - quindi, nel Quattrocento, nel triangolo via Sabbioni (oggi via Mazzini), via S. Romano, via Vittoria, ove restano definitivamente, sempre crescendo di numero fino a raggiungere o superare le 1800 anime.
Si forma in tal modo la Comunità di Ferrara ove, come in tante altre del nord Italia, confluiscono tre correnti ebraiche: una parte da Roma, l'altra scende dalla Germania, l'altra ancora, quella appena ricordata, arriva dalla Spagna.
All'inizio, gli ebrei ferraresi sono agricoltori, medici e piccoli commercianti. Poi, in seguito alla sempre crescente ostilità della Chiesa, che proibisce ai cattolici il prestito a interesse, gli ebrei, con l'appoggio delle autorità secolari, vengono sollecitati a volgersi all'attività bancaria.
Questa diviene gradualmente loro appannaggio specifico e a Ferrara, come a Cento e in altri luoghi minori della provincia, svolgono un ruolo sociale che è oggi quello espletato dalle banche nazionali e locali. Ma accanto ai commerci, si sviluppa una cultura multiforme che renderà celebre nel Rinascimento l'ebraismo ferrarese. Si ricordino solo Raffaele Mirani, autore della Specularia; Abramo Colorni, ingegnere di Ercole II per le Mura; il celebre stampatore Usque e il dottissimo medico Amato Lusitano.
Paradossalmente, il peggiorare della condizione ebraica, con la fine del dominio Estense (1598), l'istituzione del Ghetto per opera dello Stato Pontificio (1624) e la chiusura degli ebrei negli angusti confini della residenza coattiva, consente un ulteriore fiorire di dottrina ebraica che avrà il più insigne rappresentante in Isacco Lampronti, autore di un'imponente enciclopedia talmudica dell'ebraismo nota in tutto il mondo ebraico: il Pahad lzchak, ovvero il Timore di Isacco.
I portoni del Ghetto si aprono per breve tempo con l'arrivo dei Francesi (1796) e vengono definitivamente abbattuti con il Regno d'Italia (1859). Si ha così un graduale reinserimento del nucleo ebraico nella città con la quale, per vero, aveva convissuto in equilibrata simbiosi anche nei periodi più oscuri. Rilevante la presenza nella vita produttiva con industriali, specie della seta a della canapa, agricoltori, un diffuso tessuto di artigiani e commercianti. Dall'ex Ghetto esce una parte della moderna borghesia locale: amministratori pubblici, uomini politici, professionisti, artisti di fama.
All'inizio di questo secolo, la Comunità contava circa 1300 iscritti che progressivamente diminuiscono. Sono 700 nel 1938, al momento delle persecuzioni razziali. E altri ancora emigrano. Nel 1943 vengono deportati nei campi di sterminio 101 ebrei: ne tornarono cinque. In Comunità, dopo la Liberazione, si ritrovano ormai poche decine di persone che ricostruiranno dalle macerie quanto era rimasto e, da allora, opereranno per salvaguardare l'inestimabile patrimonio religioso, culturale e civile loro tramandato dai secoli.
È così che il vasto Ghetto, le celebri Sinagoghe e l'affascinante Cimitero costituiscono ancora oggi una parte tra le più espressive e originali di Ferrara ebraica. Un complesso come pochi in Europa. Il Ghetto è una vera città nel cuore della città. Generazioni di ebrei, per oltre due secoli, vi hanno vissuto rinchiusi, creando un ambiente tutto particolare, discreto e affascinante. Chi passi per via Mazzini, via Vignatagliata, via Vittoria, può ancora respirare la sottile aria di quella storia.
Intravede dove i cinque portoni rinserravano gli abitanti dal tramonto all'alba; avverte la peculiarità delle case, cresciute in altezza per una popolazione costretta a vivere stipata in minuscoli ambienti tortuosi, collegati da passaggi segreti, con frequenti balconi per sopperire alla mancanza di spazi, di verde, di alberi.
Qua e là, edifici più severi. Le sedi della vita sociale ordinata e intensa di un tempo. Un esemplare ospizio per i vecchi in via Vittoria, le scuole in via Vignatagliata - nel Ghetto già nell'Ottocento l'educazione scolastica era obbligatoria - il forno rituale, i luoghi ove le Confraternite svolgevano i compiti di assistenza più disparati, seguendo le persone dalla nascita alla morte.
Un'amministrazione oculata, con un sistema di autotassazione creato per soddisfare i bisogni di una popolazione numerosa ma meno ricca di quanto si possa immaginare. All'inizio dell'Ottocento, su circa 320 famiglie, solo due o tre erano ricche e otto o dieci agiate. Le altre vivevano in condizioni economiche molto frugali «con un pasto giornaliero e poco companatico.»
Il centro del Ghetto era nell'edificio delle Sinagoghe, che si erge in via Mazzini. È qui che, almeno dal 1485, quando il banchiere romano Ser Samuel Mele o Melli donò il complesso alla Comunità, si svolge senza interruzione la vita religiosa e culturale ed è qui che ogni pietra testimonia i passaggi più intimi della lunga vicenda ebraica ferrarese.
Nell'antico edificio sono la Sinagoga Italiana, quella Tedesca e quella Fanese: non si conoscono altri casi, in Italia, di coesistenza di tre riti diversi sotto uno stesso tetto. Una volta rimarginate le distruzioni nazifasciste e dopo recenti lavori di restauro, il complesso ha riacquistato l'antico aspetto di luogo di culto e di vita.
Così lo vide la dolce Micòl del Giardino dei Finzi-Contini, la protagonista del romanzo di Giorgio Bassani che ha reso Ferrara famosa nel mondo: «Quando ci incontravamo sul portone del tempio, in genere all'imbrunire, dopo i laboriosi convenevoli scambiati nella penombra del portico finiva quasi sempre che salissimo in gruppo anche le ripide scale che portavano al secondo piano, dove ampia, gremita di popolo misto, echeggiante di suoni d'organo e di canti come una chiesa - e così alta, sui tetti, che in certe sere di maggio, coi finestroni laterali spalancati dalla parte del sole, al tramonto, a un dato punto ci si trovava immersi in una specie di nebbia d'oro -, c'era la Sinagoga italiana.»
L'aula, devastata nel 1944, non è più destinata al culto e ospita oggi preziosi arredi.Ai piani inferiori la grande Sinagoga tedesca, anch'essa amorosamente restaurata, si apre per le festività annuali. È il momento dei ritorni. I numerosi ebrei ferraresi sparsi in Italia e nel mondo, legati sempre alla loro città, affollano per qualche giorno quell'aula severa e pregano sui banchi che furono dei loro avi.
Ma per i pochi fedeli rimasti a Ferrara, le preghiere quotidiane vengono recitate nell'elegante Sinagoga Fanese del XVII secolo. In altri ambienti contigui avevano sede l'antica Comunità, il tribunale Rabbinico, il prezioso archivio storico, purtroppo disperso dalla guerra.
È in fase di avanzato studio un percorso museale che testimonierà le vicende dell'ebraismo ferrarese, parte integrante della storia della città. L'iniziativa, perseguita dalla locale Comunità, potrà significativamente avvalersi di contributi del Comune, della Provincia e della Cassa di Risparmio di Ferrara, dopo quelli già ricevuti dallo Stato per il recente restauro.Usciamo dal ghetto e portiamoci nell'Addizione di Ercole, dove troviamo quei preziosi tesori della Ferrara ebraica che sono i Cimiteri. Anche l'antico Cimitero spagnolo-lusitano di via Arianuova è stato recentemente recuperato, con le poche lapidi ma con i suoi ricordi irrinunciabili. Il più noto, però, è il grande Cimitero di via delle Vigne, uno dei più suggestivi d'Italia, meta delle visite di artisti, studiosi e turisti.
Lasciamo che sia ancora una volta Giorgio Bassani a evocarne l'immagine: «delimitato torno a torno da un vecchio muro perimetrale alto circa tre metri, il cimitero israelitico di Ferrara è una vasta superficie erbosa, così vasta che le lapidi, raccolte in gruppi separati e distinti, appaiono nel complesso assai meno numerose di quanto non siano. Dal lato est, il muro di cinta corre a ridosso dei bastioni cittadini...»
Paolo Ravenna
Responsabile dei beni culturali della Comunità ebraica di Ferrara