Il Palio: fastosa imitazione

Scritto da  Gaetano Tumiati

Immagine fotografica originale del Palio di Ferrara del 1933.Cavalli, somari, personaggi noti e perfetti sconosciuti in piazza Ariostea per la prima riedizione degli antichi giochi.

Piazza Ariostea, a Ferrara, è uno spazio rettangolare più vasto di un campo di calcio. E sembra ancor più ampio perché le case, sui quattro lati, sono basse e relativamente anonime tranne due edifici - Palazzo Mazzucchi e Palazzo Rondinelli - che con la loro austera nobiltà rompono quella quiete orizzontale.

Al centro della piazza svetta, bianca e altissima, la colonna che regge la statua di Ludovico Ariosto ritto in piedi, la lira al fianco, lo sguardo perso in lontananza ben oltre i tetti circostanti. Tra il traffico che gira torno torno e il verde prato centrale riservato ai giochi dei bambini e alle soste dei pensionati si leva una cornice di platani dalle foglie d'un color verde mielato.


Una piazza dal respiro agreste, bella ma non bellissima; neppure da mettere a confronto con la famosa Piazza del Campo, a Siena: quella dove si corre il Palio. Ma quando, all'inizio degli anni Trenta, le autorità fasciste dell'epoca decisero che anche Ferrara avrebbe dovuto avere il suo Palio, non ci furono dubbi: Piazza Ariostea era l'unica tra le piazze cittadine adatta alla competizione. Per renderla più adatta furono necessari grandi lavori, anche perché si volle abbassare di qualche metro il prato centrale così da creare una specie di rustico stadio dagli spalti erbosi.

Era un'impresa che sfiorava l'assurdo, quella di resuscitare il Palio di Ferrara, morto da secoli. Gli affreschi di Palazzo Schifanoia, è vero, stavano a testimoniare che negli anni d'oro del ducato estense a Ferrara si correva un Palio che appassionava l'intera popolazione. Anzi, non uno, ma ben tre Palii perché, oltre a quello classico dei cavalli, c'era anche quello comico degli asinelli e quello "trasgressivo" delle putte, le ragazze che, tra l'altro, dovevano affrontare la gara nude o quasi. Ma con la fine degli Este e il lungo dominio pontificio la tradizione si era interrotta: del Palio tra i ferraresi non era rimasta neppure l'ombra del ricordo. Perché farlo rivivere?

Alla base c'era, forse, una certa tendenza alla spettacolarità connaturata al fascismo, una inclinazione ai circenses, ma c'era anche un motivo preciso. Proprio nel 1933 era prevista una manifestazione artistico-culturale destinata a segnare una tappa fondamentale nella storia cittadina: quella Mostra del Quattrocento ferrarese che avrebbe radunato a Palazzo dei Diamanti opere di Cosimo Tura, Francesco del Cossa, Ercole De Roberti da tutte la parti del mondo, dimostrando definitivamente le dimensioni e il peso della Scuola ferrarese nel quindicesimo secolo.

Bene, a questa manifestazione d'alta cultura si ritenne di abbinarne un'altra, più semplice e popolare, che, ispirandosi alla stessa fonte, riuscisse a suscitare curiosità e interesse tra più larghi strati sociali: un Palio che rievocasse appunto i fasti del Rinascimento.

Per lanciare Mostra e Palio fu messa in moto una potente macchina organizzativa: grande campagna pubblicitaria in Italia e all'estero, facilitazioni ferroviarie, addirittura "treni popolari" diretti a Ferrara. L'incarico di disegnare i costumi fu affidato a una giovane signora della borghesia cittadina, Nives Casati, nota per la straordinaria bellezza, la verve, l'anticonformismo, l'amicizia con Italo Balbo. Ispirandosi direttamente agli affreschi di Schifanoia, la Casati non tradì le aspettative: a detta di molti, i suoi costumi risultarono addirittura più belli di quelli di Siena, anche perché per la confezione furono creati apposta tessuti e ornamenti di gran pregio.

Immagine fotografica originale del Palio di Ferrara del 1933.La prima edizione del Palio si celebrò il 4 giugno 1933, in un pomeriggio pieno di sole. Piazza Ariostea era gremita fino all'inverosimile; nella tribuna delle autorità, oltre a Italo Balbo, incontrastato ras locale, e al conte Volpi di Misurata c'erano ministri, senatori, consiglieri nazionali. Dalla folla non saliva, s'intende, neppur l'ombra di quelle passioni, di quelle rivalità, di quei fremiti che animano lo scenario unico al mondo di Piazza del Campo, a Siena, prima, durante e dopo i palpitanti minuti della corsa.

Per l'occasione Ferrara era stata divisa in otto rioni, ciascuno contraddistinto da colori particolari e molti, con quei colori, avevano addobbato balconi e imbandierato finestre; ma era un"'appartenenza" superficiale, senza radici, che al massimo poteva suscitare qualche battuta, qualche motto di spirito; mai esplosioni di entusiasmo, scontri, invettive. La folla seguì con calore la corsa dei cavalli - vinta dalla contrada di San Paolo - ma si appassionò molto di più a quella dei somari che, con le loro impuntature e gli inattesi dietro front, suscitavano boati di risa; il Palio delle putte non era stato riesumato.

Il divertimento maggiore stava, in ogni caso, nel riconoscere sotto i roboni e le calzamaglie le personalità cittadine che, come per gioco, avevano accettato di partecipare alla sfilata in costume rinascimentale. Una partecipazione che, scarsa da principio, andò di anno in anno facendosi sempre più numerosa, fino a creare intorno ad alcuni una particolare aureola di notorietà.

 

 

Il Palio oggi: la gara dei cavalli.Il marchese Paolucci delle Roncole, per esempio, gentiluomo di vecchio stampo dalla gran chioma precocemente argentea, che sapeva avanzare a cavallo con la dignità di un antico duca d'Este; o Guido Angelo Facchini, bonario gerarca un po' pingue, considerato il "padre del Palio", che, al contrario, nonostante il suo sontuoso costume da capitano non riusciva a mascherare la sua apprensione per eventuali scarti del suo destriero.

Tra i giovani in calzamaglia colorata c'erano anche numerosi studenti universitari, alcuni dei quali destinati a diventare famosi, come Giorgio Bassani e Michelangelo Antonioni, impassibili entrambi di fronte ai richiami e ai saluti, ora ammirati, ora irridenti, degli amici sugli spalti. Ma forse l'aspetto più interessante era l'involontaria gara di bellezza che a ogni Palio si veniva a creare tra le ragazze della borghesia cittadina - figlie di professionisti, di professori, di ricchi proprietari terrieri - che di anno in anno partecipavano sempre in maggior numero alla sfilata in costume.

Giovanissime, alte sui loro cavalli - sella all'amazzone, naturalmente, tutte e due le gambe dalla stessa parte, rese peraltro invisibili dalle lunghe gonne quattrocentesche - suscitavano al loro passaggio mormorii di ammirazione e contrastanti valutazioni. Erano più attraenti le brune come Lucetta Crema e Mariarosa Barbieri o le bionde come Etta Forti e Bice Baglioni? Per alcuni il problema non si poneva: la palma toccava senz'altro a Fiorenza Vanzi, occhi chiari, affilato profilo da paggio, l'unica che dominasse il cavallo con il piglio di un giovanissimo condottiero.

Così, senza grandi passioni, tra applausi, ironie, ingenue fatuità, nel gran sole di piazza Ariostea, il "Palio non più Palio" - Siena aveva diffidato Ferrara dall'usare quel nome e il giudice le aveva dato ragione: quello ferrarese avrebbe dovuto chiamarsi più banalmente Torneo - visse i suoi primi anni di vita, fino all'edizione del 1939, senza rendersi conto che di lì a poco anche i suoi costumi, le sue trombe, i suoi pennacchi sarebbero stati travolti dalla gran bufera della guerra.

Gaetano Tumiati
Giornalista e scrittore