Osservando Michelangelo

Scritto da  Anna Maria Quarzi

Immagini della conversazione sul cinema di Wim Wenders e Tonino Guerra.Wim Wenders e Tonino Guerra, a Ferrara, parlano di cinema e della loro esperienza con Michelangelo Antonioni.

Il regista Michelangelo Antonioni, con la collaborazione del collega tedesco Wim Wenders e dello sceneggiatore Tonino Guerra, ha girato a Ferrara il film Al di là delle nuvole. L'occasione della presenza nella nostra città di personaggi di tale importanza non poteva passare inosservata, né essere archiviata come un fatto normale o quotidiano.
Per questo, il 20 marzo scorso, presso la Facoltà di Architettura ha avuto luogo una conversazione-incontro a cui hanno partecipato Wim Wenders e Tonino Guerra, seguiti da un pubblico numeroso e attentissimo.


I temi di discussione, spesso proposti dal pubblico presente nella sala grande della Facoltà, sono stati molteplici, pur ruotando essenzialmente intorno alla questione del "come fare cinema oggi". La massiccia presenza degli studenti della Facoltà ha anche portato la conversazione sui temi "architettonici" dello spazio, delle piazze, delle città. Nello stralcio che proponiamo - in esclusiva per i lettori di Ferrara. Voci di una città - abbiamo preferito mantenere lo stile vivo e colloquiale che ha animato il dibattito nei momenti più significativi.

Che rapporto esiste tra Tonino Guerra, Wim Wenders e Michelangelo Antonioni?
Guerra - Con Michelangelo, io ho fatto 8 o 10 film e, certamente, lo conosco bene.

Anche se in questo momento ha delle difficoltà, devo dire che capisco molto bene, attraverso gli occhi, quello che lo può rendere soddisfatto e quello che vuole trasmettere. Abbiamo fatto molti viaggi insieme e voglio raccontarvi un aneddoto, perché mi piace che voi lo pensiate quando era ancora un giovane regista.

Diversi anni fa siamo stati in Uzbekistan per cercare un paese che fosse adatto per ambientare una favola che abbiamo scritto insieme e che si intitola "L'Aquilone". Abbiamo noleggiato un camioncino e giravamo per quelle contrade straordinarie; a un certo punto vediamo tre vecchi saggi mussulmani che camminavano a piedi, con tutti i loro barracani, con grandissima nobiltà. Michelangelo mi dice: «Facciamoli salire». Con noi c'era una persona che poteva tradurre.

 

Immagini della conversazione sul cinema di Wim Wenders e Tonino Guerra.Li invitiamo a bordo. Loro salgono, non dicono molte parole, ma avevano un'espressione, una lunghezza di sguardo enorme, straordinaria, come avere sedute accanto delle nuvole. A un certo punto ci fanno un segno, come per fermarci: avevamo fatto sì e no cinque chilometri. Ci fermiamo, in un paese che si chiama Zurgul: un paese con un cimitero straordinario dove i morti vengono legati a delle scale come quelle dei contadini, conficcate direttamente dentro buche. Credo che le scale servano alle ossa per salire verso il paradiso.
Prima di salutare i tre vecchi, Michelangelo - che aveva in mano una Polaroid - dice: «Facciamo una foto». Mostra la macchina e i tre si fermano. Michelangelo scatta, aspetta che dalla Polaroid esca la foto e gliela porge. «È un regalo». Il più anziano la prende e ci fa dire dall'interprete: «Perché fermare il tempo?» E se ne sono andati via. Ci siamo rannicchiati dentro il furgone, che ormai non era più un mezzo di trasporto, ma una bara, la bara delle nostre speranze.

Lavorare con Michelangelo, che ha veramente l'immagine negli occhi, è sempre stata un'avventura straordinaria. Anche oggi, nonostante la malattia, ha girato personalmente, indicando il posto della macchina, gli episodi del film Al di là delle nuvole. Quest'uomo che - secondo me - sarà uno dei più grandi geni di questo secolo per quanto riguarda il cinema, certo onora molto questa città.

 

Immagini della conversazione sul cinema di Wim Wenders e Tonino Guerra.Wenders - Quello che hanno detto quei tre personaggi in Uzbekistan sul "fermare il tempo" è vero. Quello che facciamo noi registi non è fermare il tempo, ma aprire lo spazio, e penso che di Michelangelo Antonioni si possa dire questo più di qualsiasi altro regista. Nella mia vita, non ero mai stato assistente di un altro regista. In questo caso non ho fatto nulla, ma ho osservato Michelangelo lavorare.
Naturalmente, non potevo impedirmi di immaginare che cosa avrei fatto con questo film, ma me lo sono tenuto dentro e ho obbedito a Michelangelo, perché il mio compito era fare in modo che lui potesse esprimere la sua visione. E devo dire che è stato un privilegio straordinario vedere quello che è riuscito a fare.

Non avevo mai visto un altro usare i miei stessi strumenti. Molti momenti erano risolti in un modo diverso da quello che avrei usato io, ogni inquadratura era concepita diversamente. Per la prima volta sono riuscito a comprendere il film proprio come una costruzione fatta con il tempo e con lo spazio. È stata un'esperienza straordinaria, un momento molto importante della mia vita.

Vorrei chiedere a Wenders, che sta lavorando a Ferrara con Antonioni, se ha trovato in questa città quegli spazi vuoti che cerca nelle città in cui va, in cui lavora.
Wenders - Ferrara mi colpisce come una città molto fotogenica; quello che impressiona sono le dimensioni e il modo in cui le vie e le case sono tagliate; viene voglia di fare delle foto e di pensare alle inquadrature per un film. Ma la fotogenia non è necessariamente una qualità: per stimolare e raccontare una storia occorrono anche altre cose e questo - da quando faccio cinema - è sempre stato un mistero. Il fatto è che ci sono dei luoghi che provocano una storia, altri che invece non la stimolano.

 

Wim Wenders con Michelangelo Antonioni sul set di Al di là delle nuvole, a Ferrara.Ricordo che la prima volta che sono venuto a Ferrara, circa due anni fa, ho avuto l'impressione che questa città possedesse la qualità di raccontare storie, che ci fossero delle case e degli spazi che dicevano «noi abbiamo delle qualità e ci puoi raccontare». Michelangelo mi disse allora, a gesti, che se fossi venuto a Ferrara avrei capito gli spazi. E aveva ragione.

Vorrei chiedere a Wenders che cosa è lo spazio relativo alla città.
Wenders - Ogni immagine è fatta di due dimensioni; il film è fatto di immagini bidimensionali. Tra un immagine e l'altra, tra un piano e un altro c'è qualcosa che aggiunge un elemento dimensionale; ma spostando la macchina da presa - anche se la si sposta di poco, di pochi passi - di fatto si crea un nuovo spazio. Vorrei riuscire a dare a chi guarda l'impressione di costruire lo spazio, di essere partecipe di questo processo, di costruire egli stesso uno spazio. In un film, l'unica ragione per cui ci sono un primo piano, un secondo, un terzo, un centesimo, un millesimo e tanti altri, è quella di raccontare una storia. Quindi è la storia che costruisce lo spazio e crea la terza dimensione.

Osservando Michelangelo, di nuovo mi sono reso conto - pur conoscendo i suoi film - di quanto lui fosse maestro negli spazi. Ha costretto ogni piano a una cronologia assoluta, cioè ha costruito il film secondo una rigida scala di tempi: ogni piano precedeva immediatamente il piano che costituiva l'elemento successivo della storia. Il fatto veniva raccontato nella storia, procedendo attraverso i tempi e i luoghi che la costruivano. Credo che, alla fine, raccontare una storia sia proprio questo: attraversare un terreno, percorrere uno spazio.

Vorrei chiedere a Wenders qual è secondo lui la differenza tra il cinema europeo e quello americano, e se anche lui ritiene che sia lo "spazio" tra spettatore e immagine, l'elemento che rende differenti le due scuole cinematografiche.
Wenders - Ritengo che ci sia una differenza sempre più marcata tra cinema europeo e americano e che tale differenza si incentri sull'idea del viaggio.
Colpisce il fatto che il cinema americano viaggi attraverso tutto il mondo; in qualsiasi paese del mondo si vedono le immagini del cinema americano. Ma a produrre questo spettacolo itinerante è un popolo che non viaggia affatto: solo l'otto per cento dei cittadini americani ha il passaporto. Le loro immagini viaggiano, non loro: è una grandissima contraddizione. Il cinema europeo ha una grandissima qualità, che sta però scomparendo: garantisce allo spettatore la possibilità di viaggiare all'interno del film, di muoversi nella storia che il film racconta, ma su questo argomento la voce di Tonino Guerra forse è più autorevole della mia.

 

Wim Wenders gira a Ferrara.Spesso si riesce a comunicare di più con il silenzio che con la parola, perché solo nello spazio bianco tra le righe è data la possibilità di viaggiare. Il cinema europeo ha questa caratteristica; è un cinema che permette di attraversare l'immagine, di muoversi attraverso un'immagine o tra l'una e l'altra immagine, come in uno spazio bianco tra due righe. Il cinema americano non lascia più spazi tra un'immagine e l'altra; le sue immagini sono serrate, bloccate.

Guerra - Per spiegare a modo mio quello che Wenders dice, posso fare un paragone. Se immaginate per un attimo i caratteri della scrittura giapponese, vedete grandi spazi bianchi tra un ideogramma e l'altro. Il cinema europeo, come la scrittura giapponese, attribuisce una grande importanza allo "spazio bianco". Gli americani chiudono tutto, mentre gli europei tengono sempre presente la funzione dello spettatore, desiderano il suo contributo. Un'opera d'arte è sempre incompleta: se è un libro, ha bisogno di un lettore; se è un film, dello spettatore.

Il cinema europeo, per esempio, concede spesso allo spettatore la possibilità di lavorare con il regista; nel cinema americano, questo non viene permesso: il regista non vuole lasciarti giocare, vuole fornirti un prodotto finito, tranquillizzante, che offra un godimento standardizzato, nel quale non esiste un rapporto artistico, un rapporto di collaborazione, tra il regista e lo spettatore.
Mi ricordo di un articolo formidabile su Antonioni nel quale si diceva che gli spazi dei film di Antonioni sono più importanti delle storie che raccontano; i vuoti, i movimenti, sono più pieni di racconto del racconto stesso; sono i vuoti che costruiscono il quadro generale. È per questo che, uscendo dalla sala cinematografica, lo spettatore sente di aver dato un proprio contributo.

In genere, quando si esce da una sala dove hanno proiettato un film americano, i giochi sono fatti; nel cinema europeo, invece, c'è sempre qualcosa che ti resta dentro, perché senti di aver contribuito, di aver pensato, di aver avuto delle idee. Ho conosciuto tanti registi - per esempio, Federico Fellini - profondamente interessati alle opinioni degli spettatori che avevano assistito al loro film; e questo non tanto per sentirsi dire «bello» o «brutto», quanto per i suggerimenti, i contributi che la gente riusciva a dare. Andare al cinema per divertirsi, per rilassarsi, per dire «ho raccolto qualcosa, ho riempito la mia memoria, qualcosa mi è stata data» è un modo orribile di andare al cinema.

Per uno spettatore è bello uscire dalla sala e tornare a casa pensando di "aver fatto il film", non di essersi limitato ad "averlo visto". Questo dovrebbe essere il cinema. Ma questo significa anche che i film "buoni" sono per molto pubblico noiosi, perché l'arte è bella e buona, ma anche difficile e "noiosa". E questo vale per i film come per la Divina Commedia. State attenti: fare lo spettatore è un mestiere difficile, come fare il regista.