Vivere a Ferrara

Scritto da  Roberto Pazzi

Il ciliegio giapponese nel cortile del Convento di Sant'Antonio in Polesine.Perchè qui, nella mia esistenza, è Ferrara, se il giardino di Armida o il castello di Atlante non so ancora capire, dove mi aggiro stupefatto prigioniero volontario.

«Sono qui per stupirmi»: è una frase di Goethe, nel suo Viaggio in Italia. Mi è sempre rimasta nella memoria e forse soltanto gli anni della maturità me ne hanno dischiuso a poco a poco il sottile e vago sapore profetico della scelta fondamentale della mia vita: rimanere qui.

Perché qui, nella mia esistenza, è Ferrara, se il giardino di Armida o il castello di Atlante non so ancora capire, dove mi aggiro stupefatto prigioniero volontario.
E mi stupisco ogni volta che riprendo questo viaggio nella stanza che è la mia città, riscoprendola da solo o con ospiti stranieri a cui mostrarla.


L'Italia che a Goethe si offriva sul finire del XVIII secolo, qui a Ferrara si racchiude nel breve giro delle mura rossettiane con quella intatta capacità di proporsi microcosmo che già aveva ammaliato Lodovico Ariosto, ai primi del XVI, restio ad accettare gli inviti del cardinale Ippolito a seguirlo nella lontana Ungheria.

È lo stato d'animo che ho affidato a questi versi in Calma di vento, "I nomi", mentre cammino col naso per aria a guardare i nomi nuovi e quelli antichi sulle targhe grandi e su quelle più piccole delle vie:

Metteva nomi Stanley a fiumi
che nessuno conosceva.
E sulle carte vergini dell'Africa
città e cascate apparivano
evocate da quell'esperto di nomi.
L'esploratore non rivelò mai
la formula delle sue evocazioni,
ma a volte, alzando il capo
in città a leggere i nomi
delle vie, in me rivive
quell'amore per gli sconosciuti
prigionieri del sonno delle pietre,
nell'incoerenza dell'acqua.


Ma la città, l'ho detto, è anche stanza, luogo dell'intimismo e della fedeltà ai riti delle abitudini che fermano il tempo nella proustiana misura del ripetersi degli eventi, sì da creare la sicurezza di un cosmo chiuso, dove tutto è misurabile e conosciuto.

Ecco le case della mia Ferrara, dove noi, creature dell'attimo, "passiamo" in tutti i sensi del verbo, quelli di trasformazione e quelli di movimento, sullo sfondo semantico di "passione" eristica del verbo "passare". Ed ecco altri versi cui ho affidato l'emozione di vivere l'intera città come il molle e accogliente "interno" di una stanza sola, "Le stanze":

Quanti sonni consumati
in queste stanze ...
Poi un giorno le stanze
passeranno, ne costruiranno
altre, ma solo i sogni resteranno.

 

Il protiro del Duomo di Ferrara. Vi sono luoghi di Ferrara dove il Tempo si ferma e acuto è il piacere sfumante nel disagio di invecchiare nei pressi di quelle meraviglie; lì si lacera la dolce ragnatela delle abitudini borghesi, rassegnata alle paste della domenica: irrompe il vento di lontane stagioni cui subito subentra «la presente / e viva, e il suon di lei».

Siamo noi, la rovina che si staglia in quei luoghi; sono quelle pietre, quei colori, quelle forme, la Vita che non muta. Si scambiano le parti, e i vivi sono i morti mentre i morti sono i vivi. Due ne patisco di quei luoghi, «gli occhi incerti fra 'l sorriso e il pianto» direbbe il nostro Carducci, che tanto amava Ferrara: il protiro del Duomo e gli affreschi di Schifanoia.

Il protiro si nascose ai nostri occhi per ben quattordici anni, tanti ne durò il mirabile restauro. All'emozione di rivederlo, a trentotto anni suonati, catapultato dai ventiquattro della giovinezza nella piena maturità, si riconducono questi versi sul protiro, mentre vedo effigiate le età dei sensi e quella della ragione lassù in alto, nelle statue dei dannati e dei beati, come se certi luoghi della città fossero le lancette di un invisibile orologio interiore che dobbiamo consultare quando vorremmo sapere a che punto siamo del Viaggio:

Settembre era un mese di peccati
non ammessi dal segno della Vergine
e poi per tutto l'anno rievocati
dallo spavento del giudizio universale.
E ora che metà della mia vita
mi sta alta davanti,
le statue della lussuria appaiono
nel duomo della mia memoria
meno antiche di quelle alte lassù.

C'è un giardino a Ferrara dove le stagioni della storia sembrano arrendersi a quelle della natura, come se in quel fazzoletto di terra bellezza dell'arte e dolcezza di vivere si armonizzassero nei ritmi di un albero che ad aprile ci ricorda il mistero della rinascita; quell'aprile che Eliot chiama «il più crudele dei mesi» per il privilegio della natura di rivivere ogni anno la giovinezza nella primavera, a noi mortali negato.

Quel luogo è il giardino del convento di Sant'Antonio in Polesine dove ogni primavera si corre ad ammirare il ciliegio giapponese. È l'albero la cui crescita si esprime e si esaurisce tutta nel fiore delicatissimo, quasi carnoso, che i ferraresi ben conoscono. Ma il ciliegio del Giappone non dà quasi frutto - solo un minuscolo semino, quasi invisibile. Il simbolico ciclo della vita, che è passare da foglia, a fiore, a frutto, in quest'albero sembra rifiutare il momento finale del frutto, per fermarsi ai primi due, la foglia e il fiore.

Sappiamo che il frutto è il simbolo del figlio - lo rammenta la più famosa preghiera cristiana a Maria - e dell'inizio della ripetizione del ciclo, all'infinito, finché la terra consentirà a farsi madre. Ma che cosa c'è dopo il frutto, stazione finale del desiderio, calma del possesso, piacere di addentare la polpa della vita caduta l'ansia di verificare che il figlio nascesse sano?

Dopo il frutto c'è solo la sua caduta, nella lenta decadenza verso la morte. Dopo il frutto c'è il morire... E noi esseri umani siamo come i frutti - non solo come le foglie, secondo un'ancor più tragica e poetica tradizione dantesca, «la vostra nominanza è come l'erba»... - di un albero; il fulgore e la maturità dell'intelligenza e della bellezza fisica durano l'attimo breve del trionfo, in vista di un'età che, per i più, oggi è intorno ai trenta-trentacinque anni.

Ora un albero, come il nostro ciliegio giapponese, che sia "sterile", tutto cioè soltanto di fiori, ci rammenta che, nel ciclo foglia-fiore-frutto, il momento più poetico, il più ricco di speranza perché non ancora in vista della fine, è proprio quello del fiore. Ed ecco altri versi che significano queste verità, colte da un altro angolo magico di Ferrara, "Il ciliegio giapponese":

C'è il mandorlo,
l'albero che fiorisce
appena qualche giorno
e poi si spoglia del colore
per i frutti,
come tutti gli amori mortali.
C'è l'albero del fico
che non mette mai fiore,
è subito frutto,
come la madre di Dio.
C'è il ciliegio giapponese
che quasi non conosce frutto,
è solo fiore,
come l'amore di Dio.


Una delle dimensioni più dolci e sofferte di Ferrara è nascosta nello scorrere delle sue ore, lo spleen tutto padano del suo sentimento del tempo. Le ore qui non passano come possono passare a Parigi, né come a Praga, né come a Roma. Le ore di Ferrara non sono nemmeno più quelle di Bologna e nemmeno ancora quelle di Rovigo.

È una verità che ho percepito da bambino, nell'enorme casa dove vivevo, unico figlio dei miei genitori, allora, prima della nascita di mia sorella Emilia. Era il palazzo della Cassa di Risparmio di Corso Giovecca, al cui ultimo piano vivevo e giocavo guardando il cielo da un enorme cortile interno visitato dalle rondini, dalla neve, dalle nuvole, dai merli, dai raggi di sole che infuocavano i mattoni della parete di fronte.

 

Un recente ritratto di Roberto Pazzi.Le ore, in quella casa nel cuore della città, non passavano mai con la stessa regolarità, certi pomeriggi d'inverno faticavano a fluire, mentre in un'altra ala dell'edificio, a me proibita, lontana come il Cataj, mio padre lavorava, alla sua scrivania... Il gioco fino a un certo punto poteva illudere il tempo di scorrere. Qualche volta si arrestava sull'onda del rintocco che veniva dal Castello, ogni ora e ogni mezz'ora.

Di quel tempo mi è rimasta la sensazione, ineffabile e in qualche modo eroica, della noia. Qualcosa di palpabile e immediatamente legato ai pomeriggi di Ferrara e a un'ora definita: le quattro.
Se Dio ha posto per la noia, come emersione del male di vivere, un'ora deputata alla sua epifania, essa è per me quell'ora ferrarese, le quattro del pomeriggio. C'era solo una tattica per poterla attraversare, quell'ora terribile della verità, rimanere immobili, quasi nella stessa rigidità cadaverica che fingono certi animali davanti al pericolo, per non essere uccisi: scampare alla morte con un poco di morte già da vivi, simulando la statua nella propria viva carne.

Forse è una connotazione psicologica della pazienza legata alla psiche del ferrarese, forse della resa, dell'impossibilità di credere fino a mentire a se stessi su certe ultime verità. Non saprei, ma certamente quella immobilità rassegnata, quella sindrome di Oblomov, che prospera nei paradisi discreti della provincia italiana cara a Leopardi, mi è entrata nel sangue ed è ormai connaturata alla mia personalità, ferrarese a vita, non solo di sangue ma di destino.

Molti anni dopo quei pomeriggi della mia infanzia, abbandonata quella residenza simbolica del risparmio di tante energie, in vista di un compenso futuro, ma anche latente invito alla rinuncia all'azione subito, vivendo in un'altra casa dovevo fare altre scoperte del sentimento del tempo ferrarese.

Nella nuova casa, dove vivo oggi, le ore mi visitano con curiosa distonia, suonando l'orologio del Castello sempre un po' prima o un po' dopo quello di San Domenico. Solo da due anni ho notato la presenza di un terzo, quello di San Cristoforo, che è il più preciso perché suona anche i quarti.
Era giusto che fosse l'ora dei morti la più rigorosa, realizzandosi sul quadrante di questo terzo orologio della città - è l'ora che sente il dottor Malaguti, l'oculista del mio romanzo, vagando la notte per le vie - il tempo dove la vita e la morte s'incontrano nella dimensione unitaria della memoria, la grande madre di Ferrara.

Qui tutto è memoria, non si scampa; qualche volta il viaggio è una salutare fuga dalla amata città per ritrovare la forza di vivere all'ombra della memoria, se diventa ossessiva. Ed ecco i versi sugli orologi di Ferrara, prima che scoprissi scrivendo il mio romanzo l'orologio della Certosa:

Due orologi battono dalle torri
le stesse ore a prudente distanza.
L'inutile ripetizione cerca
l'orecchio più duro
per convincerlo che il tempo
passa davvero
o è l'orecchio
che distorce il tempo e ripete
l'ora nella camera vuota della mente?

Si ringrazia l'editore Garzanti per aver concesso la riproduzione dei testi "Inermi", "Le stanze", "II protiro del duomo di Ferrara", "II ciliegio giapponese", da
Calma di vento (1987).
Si ringrazia l'editore Corba per aver concesso la riproduzione del testo "Gli orologi dì Ferrara" da
II filo delle bugie (1994).