Gli era piaciuto l'elogio della nebbia, come scrisse nel commento al mio tema; leggendo quanto avevo scritto s'era sentito coinvolto in una passeggiata per le vie della mia città, era come se avesse intravisto Ferrara e le sua case, i palazzi, le chiese, i monumenti nel lucore confuso di luci filtrate dalla nebbia. Ombre che appena si distinguevano; opere cariche di gloria e di storia ma - in quell'atmosfera - dall'incerta fisionomia; e quindi, proprio come la gloria e la storia, soggette a continue variazioni di giudizio. Così come poteva esprimerlo la folla di uomini e di donne, a sua volta nella nebbia, e quindi indistinta e anonima. Ogni ombra con i suoi segreti, tesori, meschinità e meraviglie.
Non conosceva Ferrara, il mio professore. E poiché il mio testo lo aveva incuriosito, mi chiese di parlargliene e - se possibile - di aiutarlo a conoscerla almeno in immagini. Portai allora in classe un album di xilografie di mia madre: erano le copertine della Rivista di Ferrara che lei aveva inciso e che rappresentavano alcune suggestive visioni della nostra città. Un paio erano in copia doppia e mia madre fu ben felice di regalargliele quando si conobbero, dopo la mia licenza liceale. Quel professore divenne così un amico di famiglia dopo avermi profuso per tre anni non solo amore per la cultura umanistica - un tempo parte del bagaglio culturale di insegnanti del cui stampo sembra oggi si siano perse le tracce - ma soprattutto sicurezza nello scrivere.
Da allora non ho mai smesso. E quando mi guardo alle spalle rivedo quell'inizio lontano, scribacchiato su quattro pagine d'un racconto dedicato alla nebbia della mia città; e mi emoziona ricordare che una delle due facce del mio mestiere - lo scrivere - ha le sue radici in quel breve "saggio" descrittivo di una Ferrara tra l'autunno e l'inverno. D'altra parte, anche la faccia opposta dello stesso mestiere di narratore e descrittore - la "professione del cinema" - ha per me remote radici nella città dove sono nato.
In una Ferrara non disegnata da ombre della nebbia, ma alla luce di un giorno luminosissimo d'estate (credo del 1942) posso dire - con impudenza - d'aver realizzato il mio primo film; che non ho più, purtroppo, perché si trattava di una "copia unica" - e spiegherò fra qualche riga da che cosa derivasse questa caratteristica tecnica - che si trovò a essere parte di quanto di casa Quilici finì a pezzi o in polvere con i bombardamenti del '43-'44.
Sinceramente, non credo proprio che quel "brano di film" sia da iscrivere in un elenco di tanti preziosi reperti allora andati perduti; oggi sarei però molto felice d'aver tra le mani quella decina di metri di pellicola, se non altro perché veniva da uno scarto gettato via da un assistente operatore di Ossessione di Luchino Visconti.
Questo accadde quando un giorno di quell'estate, con altri compagni di vacanza (era già vacanza, le scuole chiudevano anzitempo in periodo di guerra) andai a «vedere come si fa un film», ovvero ad assistere da lontano a un evento straordinario nella Ferrara di allora: le riprese di una scena interpretata da attori famosi, ambientata nella piazzetta alle spalle del Castello. Malgrado il divertimento nell'assistere alla "gran confusione" di una troupe cinematografica al lavoro, quella giornata sarebbe stata per me esperienza senza particolari ricordi, se non ci fosse stata la coincidenza della pellicola gettata via. Imparai più tardi, a Cinecittà, che gli ultimi metri di una bobina di film negativo con la quale si riprendono le varie scene si chiamano "spezzoni" e poiché questi avanzi son troppo corti per contenere una nuova scena, gli assistenti degli operatori di macchina se ne liberano come possono; e altrettanto fanno se si trovano tra le mani i metri di film impressionati con una scena considerata di scarto, o interrotta dal regista.
A me capitò di avere accanto uno dei tecnici di Visconti proprio in quel momento, quando gettava una scatola vuota (una "pizza") nel cui interno era un avanzo (uno "spezzone"); Quel dono destinato al pattume cittadino mi attirò subito; senza dare a vedere, m'inchinai sulla bicicletta e recuperai la scatola. A casa, poi, l'aprii e vidi che non conteneva spezzoni, ma l'avanzo di una scena sbagliata che per "loro" era inservibile, ma non per me.
Quel pezzo di cinema mi affascinò subito. Contrariamente però a quanto accadde a colleghi registi e operatori cinematografici con i quali ho avuto occasione di scambiare ricordi d'infanzia, e che mi hanno raccontato d'aver avuto spesso la fortuna di toccare e maneggiare alcuni metri di pellicola (forse perché abitavano a Roma), per me, allora, quell'occasione fu non solo un evento straordinario, ma con quella pellicola ebbi un rapporto del tutto personale: non mi interessavano i fotogrammi sui quali erano impressionate le immagini, ma fisicamente la pellicola in quanto tale.
Avevo letto da qualche parte che immergendola in acqua calda tornava a essere completamente trasparente; esperimento che tentai causando un notevole danno al funzionamento dei tubi di scarico della vasca da bagno della nostra casa di viale Cavour 40, ma riuscendo nel mio intento. Da quella ventina di metri di film raccolto per strada si distaccò, in bagno, l'emulsione di gelatina sulla quale erano impressi i resti di una scena filmata, ritenuta inutile da Visconti ma che oggi, forse, avrebbe un valore per un fanatico cinefilo. La gelatina distaccatasi da supporto di acetato s'accumulò come colla viscida nei tubi del bagno, con suprema disperazione dell'idraulico quando venne chiamato per trovar rimedio a una vasca che restava inspiegabilmente ingorgata.
Danno dal quale, in contrapposizione speculare, si rifletteva la mia gioia nel rendermi conto che possedevo una pellicola tornata trasparente come quando la Ferrania l'aveva prodotta.
Appesi i venti argentei metri fuor da una finestra di casa e li osservai con orgoglio sventolare tra il muro e il giardino, come una fettuccia da bucato lunghissima che il vento e il caldo dell'estate non tardarono ad asciugare. La riavvolsi allora, facendone una bobina; e rigirandola tra le mani mi resi conto di essere in possesso della mia prima pizza di film pronta a essere utilizzata. A mia disposizione.
Ricorsi all'aiuto di un compagno di classe, esperto in disegni a inchiostro di china minutissimi e gli proposi di realizzare immagini a mano in ogni fotogramma. Lui ci riuscì, utilizzando non solo inchiostro nero, ma altri rossi, azzurri, verdi. Mentre ne saggiava la qualità - e s'era quindi all'inizio della nostra autonoma produzione cinematografica - gli dissi già in tono da regista: «Da oggi ci impegniamo in qualcosa di grande! realizziamo cinegiornali, io li invento, tu li disegni sulla pellicola... Vedrai che successo!». Oltre alle boccette di inchiostro, avevo acquistato una varietà di pennini scelti nella grande cartoleria aggregata alla libreria Taddei dove, alla cassa, contrassi il mio primo debito verso fornitori (e anche quella fu premonizione!).
Indebitati ma entusiasti, trascurammo le ragazzine che pattinavano in piazza Ariostea e ci mettemmo a disegnare fotogrammi. Io li ideavo, li abbozzavo; l'amico eseguiva. Insomma, sperimentavo il mestiere, quello che avrei affrontato come regista avendo accanto non un disegnatore, ma un operatore. Quel nostro film disegnato non ricordo nemmeno bene che cosa illustrasse; posso però assicurare che lo vidi un'infinità di volte, perché con una lampada, una scatola e una lente avevamo montato un approssimativo proiettore per immagini fisse.
E nella screening room avevamo sempre visite, che seguivano - stacco dopo stacco sul muro di una stanza appena imbiancata - il susseguirsi di immagini che non solo erano uniche, ma anche all'avanguardia, in un certo senso, perché a quel tempo film d'attualità a colori, nei cinema, non se ne erano ancora visti e invece noi, usando diversi inchiostri di china, presentavamo al nostro pubblico nientemeno che un cinegiornale a colori! C'era di che inorgoglirsi nella nostra suprema vanità di adolescenti.
Quando i fotogrammi colorati furono pronti, il proiettore fu allestito e iniziarono le nostre proiezioni, non smisi di osservarli e di godere per la meraviglia e la gioia di vedere segni diventare vivi. Nella stanza buia dove proiettavamo il nostro film disegnato, non potevo immaginare che stavo contraendo un pericoloso contagio: mi ero ammalato di cinefilia, ovvero del gusto di raccontare ad altri le mie fantasie, quanto avevo visto e quanto mi aveva interessato. Contagio che avrebbe covato dentro di me per alcuni anni e poi sarebbe esploso al momento di affrontare il mio primo film. Insomma, i miei due mestieri hanno entrambi radici nella mia città. Radici diverse e molto particolari che prima d'oggi - per la verità - non m'era mai capitato di evocare scavando nei ricordi più lontani?
Radici che sembrano fragili e tenui, non nodose e robuste quali mi piace immaginare siano quelle culturali di chi si vanta di possederne di valide e profonde. Tenui le mie, forse anche tali da apparire inconsistenti a chi legge queste righe. Resistono però con una forza che non viene meno; sono una "trazione" che riesce a farmi tornare con gioia a Ferrara per ritrovare nebbia o sole; e per rivedere paesaggi, luoghi ove mi sento "a casa mia" pur avendone elette a domicilio - di case - tante altre, in varie parti del mondo. Quella vera invece è una sola; e m'aspetta dove tutto, per me, ha avuto inizio.