Un guardaroba rinascimentale

Scritto da  Grazietta Butazzi

Pala d'altare detta Sforzesca, raffigurante Ludovico il Moro con i figli e la moglie Beatrice d'Este, Milano, Pinacoteca di Brera.Lusso ed eleganza eletti a simbolo del potere in una corte del Quattrocento.

Nel gelido inverno del 1490 - freddo al punto da far gelare il Po - la corte estense quasi al completo partiva per Milano, al seguito della giovanissima Beatrice, destinata in matrimonio a Ludovico Sforza. Praticamente uno sconosciuto, più vecchio di 23 anni, una fama di donnaiolo e una, più sinistra, di usurpatore del legittimo duca, disposto a tutto per la corona; abbastanza da sgomentare personalità più solide di una quindicenne cresciuta tra le coccole e gli agi della corte.

Eppure, quella giovinetta, di cui appena sette anni dopo Milano avrebbe solennemente celebrato i funerali, doveva lasciare di sé un'immagine insieme opulenta e brillante. La sua avvenenza trovò pareri discordi: grossa e tozza per il Trotti, l'imperatore Massimiliano ne complimentava con Ludovico la bellezza del corpo e dell'anima, mentre il Muralto la descrive «formosa» e sottolinea l'abbondante chioma corvina, che amava intrecciare sulla schiena.


A noi è rimasto il volto pienotto e un po' sbarazzino, per quel nasetto carnoso di bambina, del busto marmoreo di Gian Cristoforo Romano: un'innocenza che stringe il cuore quando si leggono le parole del Trotti che la ritrae dopo la sua prima notte da duchessa «molto vergognosa, per modo che hoggi la è stata mezza persa, che non la pareva quella di hieri et de l'altro giorno».

Intelligenza non gliel'ha mai negata nessuno, e raffinata cultura - musica e studi classici, tutto perfezionato, insieme alla sorella Isabella, in un lungo soggiorno presso la corte aragonese di Napoli - appassionata di poesia provenzale e di poemi cavaliereschi. Doti che le meritano una citazione nel Cortegiano di Baldassarre Castiglione: averla conosciuta significava «non aver più a meravigliarvi di ingegno di donna».

 


G.A. Boltraffio, Ludovico il Moro.Castellana senza esperienza di donna, giocò le sue carte sul lusso e su un'immagine alonata dall'oro dei tessuti e dei gioielli, rappresentandosi ogni volta divesra: opulenza ostentata, grazia squisita di gusto ancora goticheggiante, fantasia nel gioco del travestimento. Della duchessa di Milano oggi resta soprattutto il lapidario ritratto del Muralto: «novarum vestium inventrix».  Alle invenzioni si sarebbe data quando Ludovico le lasciò piena libertà di interpretare il suo ruolo: nelle feste di matrimonio, infatti, le descrizioni del Calco insistono sulla prevalenza della moda alla spagnola, con il mantello gettato sulla spalla destra anche per le dame. I tòcchi spagnoli sono un'eredità materna, rinvigorita dal soggiorno napoletano, e Beatrice ne conserverà per sempre l'impronta.

Poco dopo le nozze, erano già ottantaquattro le vesti nuove e sfarzose, ben distese nel suo castello di Vigevano, che mostrò orgogliosa alla madre e al Prosperi. Questi - che pure era abituato agli splendori cortigiani - ne restò abbagliato e ne scrisse a Isabella come di «una sacrestia apparata di piviali».

Lo sfoggio divenne mirabile dopo la nascita del primogenito, nel 1492, e Isabella, a Mantova, deve leggere un po' invidiosa le lettere di Teodora Angeli. Una narrazione continua di meraviglie: la visita ai doni per la puerpera e, a ogni porta, scalchi e portinai vestiti di broccato d'argento «li quali mostravano le camere, li apparati», e poi feste ovunque, alla chiesa delle Grazie per la benedizione, in casa Crivelli, a casa Pusterla, e quando non si fa festa, le cacce al Barco.

Ogni giorno Beatrice sfoggia abiti nuovi e, dato che deve competere con altre giovani spose, ci tiene a dare al lusso il senso del suo potere. I preziosi tessuti operati, o ricamati, in oro e argento, compongono sui velluti e i rasi del fondo imprese sforzesche: dai Crivelli, la sua veste di teletta d'oro è ricamata con «compassi et foglie», dai Pusterla un nuovo abito in raso rosso cremisi è tutto coperto di «compassi doro dove concadeno molti scopini» (compassi e scopini sono le divise preferite di Ludovico, che ne ornava volentieri anche le sue vesti).

 

L'anno dopo, il Prosperi descrive a Isabella, bramosa di conoscere ogni dettaglio sulla magnificenza di questa corte con cui sente di non poter competere, una nuova toilette che Beatrice vuole inaugurare per il carnevale: velluto cremisi e teletta d'oro su cui dispone una griglia («una zelosia di mandoli») d'argento.

 

Lontana dalla grande storia che riesce solo a sfiorare, Beatrice sa commuoverci ancora con le sue piccole storie di guardaroba: il bell'abito con i «mandoli» d'argento è quello che verrà indicato al Solari per il monumento funebre.

Lì, la giovane duchessa è ritratta nel sontuoso stile vestimentario che le fu proprio e che il rigore del marmo riesce appena a irrigidire: il vestito con le griglie d'argento, che già il Prosperi definiva «di grandissima gratia», le manine avvolte nella pelliccia, le scarpe con l'alta suola di sughero - anche questo un influsso spagnolo.

Beatrice e Isabella d'Este ritratte negli affreschi di Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, a Palazzo Ludovico il Moro a Ferrara.Le novità sono molte, e probabilmente alcune si possono proprio far risalire a Beatrice, «novarum vestium inventrix». Prima di tutto, i lunghi capelli arricciati e sciolti sulle spalle, che proprio l'Angeli notava nel 1493 nella chiesa delle Grazie «lo pello lungo como li capelli se uxano», innovazione scarsamente documentata che forse Isabella riprenderà dopo la morte di Beatrice per una brevissima stagione di moda. E poi, la nuova struttura dell'abito, che ha perso la gravità delle pieghe quattrocentesche e si definisce nel busto stretto sulla gonna allargata. Moda nuovissima negli anni Novanta, derivata dalla Spagna, cui Beatrice doveva essere stata legata, anche perché ne troviamo un'altra testimonianza nella Pala di Brera. L'avervi aderito rientrava tra i molti accorgimenti per coniugare abbigliamenti fastosi con l'estetica della donna piccola e forse troppo rotonda; la «faldia» che teneva allargato il fondo della veste, il busto serrato alla vita, non potevano che giovarle.

 

E le «liste» di colore che decorano il fondo di teletta d'oro nell'abito della Pala rispondevano a una tendenza della moda che proprio allora si affacciava, ma non è improbabile che proprio la duchessa di Milano avesse contribuito a diffonderla, tanto questa rigatura verticale doveva favorire lo slancio della sua figura pienotta.

In nessun corredo principesco sono indicati, sul finire del Quattrocento, tanti abiti interamente coperti da motivi composti da semplici linee, quanti ne ricorrono nelle descrizioni delle comparse pubbliche di Beatrice: come quello di raso nero «con li radij da capo a piede de brochato d'oro» con cui l'aveva viste cavalcare il Costabili, ambasciatore estense a Milano: una coincidenza o, piuttosto, un modo per inseguire un'inesistente snellezza, a rischio anche per le frequenti gravidanze? A onta di ciò, fu amazzone abilissima e ardimentosa, tanto da suscitare continuamente la sbigottita ammirazione di Ludovico. E anche per cavalcare, come si è visto, abiti sontuosi a non finire.

G.A. Boltraffio, Isabella d'Aragona Sforza (?), Milano, Biblioteca Ambrosiana.Ma la sua apparizione più bella deve essere stata quella del maggio 1493, quando muove da Ferrara a Venezia, incaricata dallo sposo nientemeno che di una missione diplomatica: rinverdire nei veneziani l'entusiasmo per un'alleanza contro Napoli. Lei, sempre in cremisi ricamato d'oro, con la «scuffia di perle grossissime» in testa, come quella con cui fu ritratta nella Pala di Brera.  Il tutto si accordava con i finimenti del cavallo nello stesso velluto, ricamato con l'impresa di Mercurio, che Ludovico aveva creato solo per loro due, completate dal motto «coniungor». Anche lei la sfoggerà, su una veste di panno morello, durante il soggiorno veneziano, in cui il successo dei suoi abbigliamenti fu superiore a quello della missione diplomatica.

 

C'erano poi i capricci e gli scherzi, spesso basati sul travestimento e sull'ambiguità vestimentaria. Come quando lei e le sue dame di corte, di ritorno da una gita alla Certosa di Pavia, si fecero incontro a Ludovico «tutte vestite alla turchesca». Uno scherzo che lo deliziò, tanto da riferirlo nei dettagli alla cognata Isabella, quasi orgoglioso perché l'idea era stata tutta di Beatrice, che aveva lavorato un'intera notte anche lei «como una vecchietta» per la confezione dei travestimenti.

E qui Ludovico riferiva di una battuta tagliente, sibilata verso Isabella d'Aragona - l'amica-nemica, moglie del duca legittimo - meravigliata a tanta costanza: «et lei gli disse che quando se haveva da fare una cosa o da schirzo o da dovere se voleva attendere ad farla cum studio et diligentia acciò che la fusse ben facta».
Grande lezione "di governo", che getta una luce ben più seria su questo continuo rutilare di ori e di sete, inteso come dovere verso il proprio rango, che da tutto quel luccichio riceveva prestigio e autorevolezza. Si può quasi dire che Beatrice fosse diventata adulta attraverso la rappresentazione vestimentaria: un gioco-dovere che le aveva sempre permesso di essere all'altezza del suo ruolo.

E quando il suo corpo fu composto nella chiesa delle Grazie, accanto al terzo bambino, nato morto, lo splendore di quella corte che aveva animato della sua voglia di vivere e di apparire sembrò scomparire con lei. Avvenimenti forse più drammatici della sua morte l'avrebbero spazzata via, ma con la sua scomparsa «la corte si mutò da lieto Paradiso in cupo Inferno».