La salama da sugo? direte voi. Con tutto quello che c'è di bello da vedere a Ferrara! Ma che razza di scopo per un viaggio! Scusate, ma non sono d'accordo. Chi sostiene che va in un posto per vedere il Palazzo dei Diamanti, o la villa Schifanoia, o la tomba dell'Ariosto, o la quercia del Tasso, mente. Siamo onesti, non sono obiettivi seri. Si va in un posto per fare ben altro, Dio mio. Per sedurre una donna, per fare un affare, per comperare o vendere una casa, per un funerale, per parlare con uno sconosciuto.
Poi, quando si è lì, si vedono magari anche i Mesi di Schifanoia o la tomba dell'Ariosto e, naturalmente, è sempre un bel vedere. Ma quelli che dicono: faccio un viaggio per farmi una cultura, santo cielo, a me fanno venire l'orticaria.
Invece, andare in un posto per mangiare una cosa, quella sì, la considero una cosa seria.
Avevo mangiato la salama un'altra volta a Ferrara, e ne conservavo un ricordo strano: un ristorante rosa, delle tovaglie bianche, una padrona pienotta, e sul piatto una gran nuvola di vapore. Dev'essere un ricordo dettato dal complesso di colpa: difatti poi stetti male, ne avevo mangiata troppa. La seconda volta che ho avuto a che fare con la salama da sugo è stato a Mantova, in un ristorante un po' buio. Ma di quella esperienza non ricordo complessivamente nulla. Forse è colpa del depaysement.
Memore comunque di quelle due cattive esperienze, stavolta, partendo per Ferrara, mi ero preparato con scrupolose letture. In realtà, cominciai a sbagliare fin dal principio. E fu così che entrai in un incubo. Per esempio, dissi a me stesso che per giustificare pienamente il viaggio era necessaria una deviazione a Forlì, dove mi attendevano certe carte da firmare. A Forlì, mi dissero di prendere, se avevo fretta, l'Adriatica: a quest'ora, mi spiegarono, la troverà deserta. Mai consiglio fu più inopportuno.
L'Adriatica risultò deserta solo per i primi chilometri, dopo di che cominciarono a pararmisi davanti certi enormi autocarri con rimorchio che - sbandando e ondeggiando e dando di coda per la velocità - sembrava dovessero rovesciarsi a ogni curva. Per di più, a rallentare l'andatura, scoppiò a metà percorso un furioso temporale. Un muro d'acqua grigio, compatto da cui improvvisamente emergevano quei bestioni scodinzolanti.
Arrivai, come Dio volle, a Ferrara alla fine del temporale. Ero molto in ritardo. Faceva un freddo canino. Un'umidità micidiale. L'hôtel era bello, ma deserto. Pensai: se stanotte - dopo la salama - starò male, non mi sentirà nessuno, morirò in un letto d'albergo. Non c'era scampo: ero caduto in un umore atrabiliare. Così, per scaramanzia, decisi di tuffarmi nel mondo della ricerca. La salama e il suo prevedibile esito fatale erano - mi informò la mia ospite - in programma per la notte. Meno male: avevo dinanzi a me qualche ora per prendere le mie precauzioni dotte. Non tutto era perduto. I problemi che mi ero posto partendo da Roma erano in sostanza tre: la salama è cibo antico o di tipo moderno? È cibo da duchi (d'Este, naturalmente) o da villani? Vìen da fuori o è nata a Ferrara? Mi sembrava che la soluzione a tutti i quesiti stesse nella risposta a una semplice quarta domanda: la impiegava anche il Messisbugo, lo scaldo di Ercole II d'Este, nei suoi banchetti? Per questo, la prima tappa dell'itinerario era stata fissata a casa di un erudito ferrarese: il professor Chiappini.
La casa del professor Chiappini è un palazzetto cinquecentesco nel centro di Ferrara. Da un gran cassetto, il professore tirò fuori una serie di fogli estesi e fittissimi su cui il Messisbugo, elencando minuziosamente generi mangerecci, quantità e prezzi, si riprometteva di prevedere quale sarebbe stata la spesa per il sostentamento della famiglia ducale, dei cortigiani e dei servitori. Un budget, come si dice oggi. Ma io, irriconoscente, guardavo quei fogli con una certa diffidenza.
In verità, delle doti manageriali di messer Messisbugo non mi importava nulla. Tanto più che segretamente sospettavo che il Messisbugo, come molti amministratori, nel far l'interesse del sue padrone avesse badato bene a ritagliarsi un suo proprio - piccolo o grande - tornaconto. Così, poco educatamente, interruppi il professore: la faceva o non la faceva la cresta, il Messisbugo? Il professore si mise a ridere, scosse un po' il capo come per dire - saggiamente - che in fondo non era quella la cosa più importante, ma finì per ammettere che sì, era vero, un po' di cresta doveva averla fatta anche lui.
L'interruzione mi servì anche per concentrare la conversazione sul mio vero obiettivo: c'era la salama di sugo in quelle lunghe liste di provviste, carni, pesci, pani, vino, spezie? Per conto mio, ne dubitavo.
Occhieggiando da dietro le spalle del professore non vedevo che salami in fette, lengue salate, persutti accompagnati, ciambudelli, salami de più sorte, salsize al tempo, brasavole salate, mortadele zale, gambuzi, carne sala', lardo, ongele. Ma di salama non si parlava. Ma qui e qui e qui, mi rispondeva il professore, vede? Dove si dice: salami da pentola. E se invece, ribattevo io, fossero stati cotechini? O meglio: quei "codighini ferraresi" che il Monti chiedeva in una lettera a un amico per farne dono al Cardinal Soderini?
Il professore negava, io insistevo, si arrivò quasi al punto di leticarci. Non ci fu altro rimedio che far ricorso al testo principale del Messisbugo, i Banchetti ovvero Compositioni di vivande et Apparechio generale. Ma anche lì non si riuscì a trovare una risposta. C'era, è vero, una lunga descrizione sul come fare le "mortadelle di carne" che, prescrivendo di mischiare alla carne di porco e al sale e al pepe «cuori quattro, milze sei, levesini quattro» più «una pennola di figato» e, infine, «uno bicchiero di vino nero puro», poteva anche far pensare all'impasto o investitura tradizionale della salama. Ma la proporzione tra carne e fegato non era così sbilanciata a favor del secondo da dirimere definitivamente la tenzone. E poi non v'era accenno se queste mortadelle si consumassero crude o cotte; né si consigliava di usare come contenitore - segno distintivo della salama - la vescica del maiale, ma genericamente «le budelle o bondole di porco».
E infine non trovava il professore che la salama risultasse troppo poco elegante per uno schizzinoso e un po' pedante maestro di cerimonie come il Messisbugo, preoccupato di elevare le maniere della Corte estense, tirandole fuori dalle tentazioni provinciali? Non aveva forse proprio con questo scopo disseminato i suoi banchetti di piatti irrimediabilmente cosmopoliti come i fiordiligi alla francese, le zuppe zibibo in malvasia, le tortelle alla lombarda, i risi alla ciciliana? Come potevano andare d'accordo tali ricercatezze con l'aspro liquore della salama, cibo più confacente a una ribalda brigata di gentiluomini partiti per una battuta di caccia (alle folaghe o alle contadine, a piacere) che a un convitto di dame e cavalieri? Ero cascato nel peggior vizio dell'intervistatore infedele: polemizzare con l'intervistato, invece di interrogarlo. Stavo proprio per diventare villano.
Vedendomi tanto turbato, l'amica paziente pensò bene, ricordando a tutti che si stava facendo tardi, di prendermi per un braccio e trascinarmi di gran corsa alla seconda tappa del tour: lo studio dell'avvocato Sani, gran ciambellano dell'Accademia Nazionale della Cucina, delegazione di Ferrara.
L'avvocato stava seduto nel suo studio a una bella scrivania ottocentesca. Mi feci coraggio e buttai là l'altra domanda che mi ero preparato. Ferrara era una città di frontiera. A sud le corti di Firenze, di Roma e di Napoli. A nord la Repubblica veneziana, la francesizzante Milano. Più indietro, la Alpi popolate di tedeschi. Non poteva darsi il caso che la salama da sugo fosse stata portata a Ferrara da una masnada di lanzichenecchi scesi dal nord, col loro gusto per le salsicce acide? L'avvocato negò con tutte le sue forze.
Facendosi largo tra pandette e codici tirò giù dagli scaffali una pila di sacri testi culinari e mi documentò, con gran rinforzo di citazioni medievali, umanistiche, barocche e illuministiche, che le fonti della salama potevano essere fatte risalire addirittura a uno Statuto cittadino del 1383. Aveva dunque la rispettabile età di più di seicento anni. A quell'altezza, era evidente, di lanzichenecchi neanche l'ombra.
Di fronte a tanto impeto, non ebbi altro rimedio che ritirarmi con la coda tra le gambe, sconfitto... Tanto più che la sera era ormai calata ed era ora di passare alla pratica e non più solo alla teoria. Ci venne a prendere il marito della mia amica: un uomo gentile che conosceva le pietre della città come le sue tasche. Accompagnandomi per le strade di una Ferrara fiocamente illuminata (così mi sembrò, forse per via del freddo), ogni tanto si fermava davanti a un portone chiuso e mi raccontava che cosa c'era dietro, come se aprisse ogni volta il proprio cuore per mostrarmi i ventricoli pulsare, il sangue scorrere.
Passo passo, raggiungemmo il ristorante presso il quale gli amici avevano predisposto il rito supremo della salama. Anche l'oste, un giovane alto e melanconico, era - a suo modo - un testimone di questi tempi calamitosi. Con fare gentile mi preparò al momento ferale, come si fa con una vittima, un dolce agnello sacrificale.
Quando il vino e gli odori mi ebbero stordito del tutto, venne e posò su un piatto d'argento una specie di cartoccio fumante; delicatamente lo scappucciò, mi porse un cucchiaino d'argento e mi mostrò come dovevo fare: immergerlo piano piano in una pasta viva, animale, fremente, tirarne su piccole porzioni bollenti, depositarle su un soffice letto di purea tiepida...
Dormii tutta la notte di un sonno leggero, popolato di sogni erotici. Mi svegliai la mattina col sole che batteva festante alle finestre. Venivano dalla strada suoni gioiosi, tintinnar di sonagli, il carro stride del passeggier che il suo cammin ripiglia... Trillò il telefono. Ero aspettato a casa dell'amica e di suo marito per il desinare d'addio. Mangiammo parlando poco, con calma. Finita la colazione venne a sedersi a tavola la cuoca, una signora anziana che veniva dalla campagna. Poteva avere più o meno la mia stessa età.
Parlammo un poco dei tempi passati, dei cibi del contado, dei paesi vicini dove artigiani di buona memoria confezionavano le migliori salame da sugo di tutto il ferrarese... Raccontò di suo padre. E di sua madre, morta di parto, lasciandole cinque fratellini piccoli. Che cosa si mangiava in campagna a quell'epoca? io chiesi sottovoce. Sottovoce lei rispose: signore, si faceva la fame... Partii.
Tornai a Roma. Come avrei potuto scrivere della salama da sugo? Ero sempre più persuaso di non saperne nulla. Ripassavo la bibliografia, risfogliavo i testi, ripercorrevo gli scarni appunti. Niente. Andai agli scaffali della mia biblioteca, cercai la voce "salama" nel Dizionario del Battaglia. Ma l'ultimo volume che avevo ricevuto dalla Utet si arrestava a "roba", "robaccia", "robare". Mi sentii perso. Telefonai alla redazione del Dizionario in cerca di soccorso. Mi rispose Barbieri Squarotti in persona. Mi mandò per fax le bozze con la voce "salama". E di colpo mi si aprì un mondo familiare.
La prima fonte del lemma era il Dizionario moderno del Panzini, datato 1905. Seguivano nell'ordine Baldinì, Bacchelli, Bassani. Pensai a un errore. Prima di Panzini 1905 avrebbe dovuto esserci almeno Artusi 1891- O i lessicografi del Battaglia non ritenevano La scienza in cucina una degna fonte di lingua?
Riflettendoci, però, mi convinsi che non avevano tutti i torti: partendo dal Panzini ottenevano di patentare la voce "salama" come un vocabolo moderno, introdotto di recente nell'uso nazionale. E "di recente" voleva dire appunto quindici anni, quanti ne erano trascorsi da che l'Artusi aveva fatto della "salama" non più una bizzarria localistica ma uno dei tanti strumenti musicali che formavano la nuovissima, grande orchestra nazionale.
Pensando al Panzini mi tornò in mente mio padre. Era un romagnolo emigrato a Milano. Si curava il mal di nostalgia riempiendosi gli scaffali della biblioteca di autori della sua terra. Recitava il Pascoli, corrispondeva con Spallicci, collezionava Beltramelli. Di libri di Panzini era pieno uno scaffale. Di lui diceva: peccato che sia diventato fascista. Come di una parente si può dire: peccato che sia diventata puttana. Senza rancore.
Mio padre mi ha insegnato da ragazzino a fare lunghi viaggi in bicicletta. E, pedalando, mi raccontava dei suoi da giovane, alla scoperta della chiesa di Polenta e delle rovine di Spina, appena emerse dalla palude. Lui veniva da sopra Forlì: Meldola. Scendeva in bicicletta su Forlimpopoli, poi prendeva la strada del mare, e via fino a Ravenna, Argenta, Ro, Ferrara... da quelle parti ci dovevano essere, oltre che chiese e palafitte, ragazze. E visto che lo scopo non era solo turistico, ma anche (silenziosamente) erotico, anche la salama da sugo doveva far parte di quegli itinerari. Mio padre è morto. Fra qualche tempo - certo, speriamo tardi - toccherà anche a me. Nell'attesa, una cosa è certa: sono a poco a poco diventato un suo coetaneo.
Tornato da Ferrara, riconoscendomi - grazie a Barbieri Squarotti - finalmente nell'età di mio padre, ho scoperto di aver anche perso ogni timore della salama. Può darsi che sia anche difficile da digerire. Ma digerire con difficoltà è un normale acciacco dell'età, per i maschi anziani. Una certa pesantezza gastrica, poi, induce sonnolenza e dunque, i sogni e i ricordi. Che ricordi? Come scrisse il Pastonchi (un altro autore della biblioteca di mio padre) dopo aver fatto una gran mangiata di salama da sugo: tutta la sera a Bologna e poi in treno, il diavolo mi pungeva come a vent'anni.