Tutta la sua vita sentimentale è stata dominata e sconvolta da un profondo attaccamento a questi quadri, ricordati già nel Cinquecento in certe morbose lettere che un suo antenato scriveva a un amico. Gli stessi quadri fanno da sfondo alle vicende di tutta la vita sentimentale della donna. «Una storia intessuta di tale profondità, di affidamento dell'animo, quasi di una perversione intellettuale, frutto di una lunga trama di glorie vere o false, di bassezze, di orgoglio e di sofferenza, da portare la trama d'uno stupefacente romanzo, che speriamo farà il nostro Bassani».
Credo che Bassani non abbia mai messo sulla carta questo romanzo, anche se il suo tessuto somiglia molto alle storie ferraresi che egli ha descritto con tanta fortuna. Certo, in casa di Longhi, e cioè del maggior critico d'arte del nostro secolo, e alla presenza di interpreti come Carrà, Graziani e Arcangeli, il romanzo prende corpo egualmente, diviene storia e insieme leggenda. Questa vicenda, che giunge fino a noi sulle parole lievi di un giovane, ci appare ancora oggi simbolica ed esemplare. È un luogo poetico e segreto della società ferrarese, è un passo impegnativo di quella leggenda delle collezioni d'arte dell'antica Ferrara che una mostra nella Pinacoteca Nazionale di Palazzo dei Diamanti si presta oggi a rievocare.
La leggenda delle collezioni d'arte di Ferrara
Questa storia possiede un prologo tempestoso, quello che in un melodramma dovrebbe prima costituire la materia dell'ouverture e segnare poi d'una metrica concitazione l'intera narrazione. La quale infatti si spalanca, ad apertura di sipario, sulla città che vede accampato sotto le mura l'esercito di Clemente VIII, giunto sotto l'Eridano dopo una marcia di avvicinamento attraverso l'Italia. Il Pontefice rivendica il Granducato che don Cesare d'Este ha arrogantemente tentato di sottrarre alla Chiesa e ai suoi pretesi diritti. L'ultimo Duca, Alfonso II, è morto infatti da poco, privo di diretti discendenti di sesso maschile.
Quanto alla sorella Lucrezia, la duchessa di Urbino ha già intrapreso segreti rapporti con Pietro Aldobrandini, il Cardinal nipote, incontrandolo a Faenza e uscendo da quei freddi colloqui, in una città guardata a vista dai militari, con la decisione inaudita di lasciare a quel giovane dal volto segnato di pustole l'intera sua eredità. E con essa la sua adesione misteriosa all'estinzione del casato Estense in Ferrara.
L'ingresso di Papa Aldobrandini nella città è volutamente festoso, il "possesso" della comunità salutato - secondo l'uso romano - da architetture simboliche e da decorazioni affidate al pennello dello Scarsellino e di Domenico Monio. Don Cesare, minacciato di scomunica, esce di furia dalle mura di Ferrara e si reca a Modena, secondo un copione concordato da Lucrezia e dal Cardinal nipote.
Clemente VIII entra a sua volta in Castello, ne visita le numerose stanze, dichiara la sua grande soddisfazione. Gira la voce che il Papa vi ritornerà spesso, nelle settimane a venire, e nascostamente, per vedere quei dipinti che formano l'allegoria del Trionfo del Piacere e che adornano il Camerino detto d'Alabastro per le decorazioni di Alfonso Lombardi, nonché l'altro, il Camerino dorato. Pittori come Giovanni Bellini, Tiziano Vecellio, Dosso Dossi, su queste mura hanno consegnato alla rinascenza, e nel suo momento più alto, una sensoriale, pagana e modernissima rappresentazione della bellezza dell'esistenza. Per decenni e decenni, il desiderio della perfezione di quella età, divenuto elegia e contemplazione, alimenterà da quelle tele - tra le quali erano il Festino degli Dei, iniziato da Giovanni Bellini, l'Offerta a Venere, Gli Andrii e infine Bacco e Arianna di Tiziano - il mito più esaltante del barocco.
Il corteo armato di Clemente VIII, che si era mosso da Roma nella primavera, aveva un seguito di giovani prelati e di alti dignitari della Curia vaticana. Tra costoro erano anche Scipione Borghese, che nel 1605 vedrà suo zio Camillo succedere a Clemente sul soglio di Pietro, col nome di Paolo V, e Maffeo Barberini, destinato a divenire Papa nel 1623 e ad assumere nella storia - col nome di Urbano VII - un ruolo dominante nel grande spettacolo della cultura e dell'arte. Si accoderà anche il conte Enzo Bentivoglio, che ancora nel 1608 arricchirà la collezione Borghese di dipinti tra i più famosi di Dosso Dossi, prelevati nella raccolta estense.
Il saccheggio della città estense, che aveva visto comunque trasferirsi a Modena un enorme patrimonio, fu una specie di palestra per collezionisti e per deportatori; e nacquero tra queste mura ormai silenziose tutti quei problemi di difesa ambientale che verranno dibattuti alla fine del Settecento, davanti alla "manipolazione" dell'arte individuata dalla nuova democrazia repubblicana e alla strategia di immagine alimentata dai trionfi napoleonici di Parigi.
La presenza di opere d'arte, di dipinti e sculture, di codici miniati e di oreficerie aveva diffuso nel mondo intero il ritratto più alto di Ferrara e della sua corte squisita, come quello d'una grande espressione dello "stile" del potere. E in effetti fin dai tempi di Leonello, di Sigismondo, di Borso e dello stesso Ercole I, gli Este avevano creato e alimentato una diffusa società legata alla corte, intere famiglie e casati che conducevano educazione e vita accanto alla giornata del principe, e che si nutrivano all'economia stessa di un establishment, cioè d'una categoria assai ampia formata da illuminati nobili, da agiati funzionari, da intellettuali e sapienti legati al carro della Signoria.
La città di Ferrara e l'intera estensione territoriale che conduceva la vita cortese oltre le mura della città, ornate di giardini, nelle diciannove "delizie" e nelle dimore nobili del contado, nelle ville suburbane, avevano consegnato alla pittura il compito d'una così continua, dilatata presenza da istituire di fatto, sia nel versante della figurazione laica e appunto cortegiana, e su quello molto forte dell'espressione spirituale, liturgica e di culto, presente nelle numerose chiese, nei conventi e nelle confraternite, uno spessore figurativo tanto consistente da convocare nella città - con la Pittura - ognuna delle sette Muse.
Il fenomeno ha la dimensione di un fatto sociale, capace di invocare anche altri modelli di indagine storica sulla città e sulla sua secolare signorìa. L'arte ferrarese, con la sua forma fisica, con le sue tipiche tensioni economiche e sociali, esce dal museo e diviene profondo tema strutturale della comunità intera.
In fondo, i fatti della pittura sono già fatti intensamente calati dentro la storia estense, quando Francesco del Cossa, terminata la sua consistente commessa di lavoro nel Salone dei Mesi a Schifanoia, si rivolge a Borso nel marzo 1470 per una più opportuna mercede, affermando insieme il diritto degli artisti veri ad essere considerati portatori di una professionalità - diremmo oggi - e come tali dignitosamente retribuiti.
E' vero che tanto il Cossa che Ercole stesso vivranno buona parte dell'esistenza a Bologna, ma è un fatto, tuttavia, che il numero delle opere d'ogni destinazione, finalità e misura, eseguite dai più moderni e famosi artisti che dipingessero nel settentrione italiano nella seconda metà del Quattrocento, resta comunque molto elevato.
Ferrara, con i suoi palazzi, le chiese e le sacrestie, i monasteri, le sue case, le ville della campagna e i castelli del forese circondati dalle acque impaludate, ci appare come un miracoloso spessore di opere d'arte, un grande contenitore dove inventari ed elenchi di proprietà contano a migliaia - ancora nel secolo scorso - il possesso artistico estense e la sua enorme, sepolta "potenza" artistica.
Nel nostro secolo, questa leggenda dell'arte è rievocata ed espressa in rogiti e testamenti, registri di successione, elenchi di cessione e di vendita all'asta, e insomma nelle infinite carte di un tramonto interminabile. Lo "sfacimento" delle collezioni, come lo chiama Adolfo Venturi, è come uno sciabordìo lento, continuo, che vede altari e tavole allontanarsi verso collezioni e musei, specie stranieri. In teoria, esso si arresta con la prima vera legge italiana di tutela, nel 1909.
II tempo antico e l'arte dei moderni
La conoscenza del tempo storico era assai relativa almeno fino allo storicismo ottocentesco; così, nel Cinquecento devoto al mito della rinascenza e del classicismo, dopo le novità di Giorgione e di Tiziano giovane, e l'adesione di Dosso Dossi, di Girolamo da Carpi e del Garofalo, quella massa di vecchie tavole dipinte dai grandi pittori come appunto Cossa, Ercole e - primo tra tutti - Cosmé Tura, che gravava su ogni luogo della Ferrara superstite, assumeva un aspetto lontano e appena liturgico.
Quella teoria incessante di altaroli e di polittici, per non dire degli affreschi e delle decorazioni, dove tanti maestri anonimi e certi s'erano rifatti o adeguati alla rivoluzione di Leon Battista Alberti e di Donatello, di Roger van der Weiden e di Piero della Francesca, figurazioni agitate da una sapienza e da una vitalità intellettuale instancabili, usciva dalla scena dell'arte ed entrava nel silenzio.
Informati da uno stile acuto e quasi feroce, sostenuti da una eroicità di espressione che faceva della vita un dramma di grandi pensieri e di azioni esemplari, questi dipinti - possiamo immaginarlo - cedevano progressivamente il posto a un'altra visione dell'arte.
Gli anni dell'umanesimo sperimentale, nel corso del quale l'arte ferrarese aveva toccato i vertici della modernità, erano intrisi di quell'antichità che loro stessi avevano sempre rammemorato. Quel secolo insomma che era appena passato, il Quattrocento delle periodizzazioni scolastiche, spostava l'intera sua avventura già dentro i confini dell'"antichità", all'interno di un corpo dallo spessore temporale miracoloso ma afono, se non addirittura muto; di un'esistenza immobile che infine, nella novità fiorente del classicismo dell'"età d'oro" e più tardi della controriforma e infine del barocco, non sollevava più la necessità di proseguire il progresso dell'arte. Ma non accoglieva ancora la necessità di "ritrovare" il tempo smarrito e di recuperarlo nel collezionismo. Questa dimensione sarà solo del secolo romantico. Non dovevano attendere invece le opere d'arte della Rinascenza.
Alla fine del Cinquecento la domanda collezionistica s'è già formata ed ha raggiunto anche la pittura. Ferrara possedeva enormi preziosità, poteva alimentare un mercato d'arte divenuto ormai competitivo.
Questo apparve chiaro ai cercatori d'oro che, al seguito di Clemente VIII, si diedero a spogliare la città e il patrimonio più attraente del classicismo rinascimentale dopo l'ingresso del pontefice tra quelle mura. Pietro Aldobrandini, Scipione Borghese e Maffeo Barberini si addestravano qui per un futuro di glorie collezionistiche, che vedeva anche il possesso montefeltresco e roveresco di Urbino brillare ormai sul loro orizzonte di raffinati, instancabili predatori.
Teoricamente, le opere d'arte restavano a disposizione di don Cesare d'Este, che rintanato nella nuova corte di Modena, intimorito e preoccupato, ne chiedeva notizia ai suoi agenti accreditati nella città occupata. Ma un brutto giorno scomparvero le grandi tele del Camerino d'Alabastro. Poi se ne andarono anche quelle dei Camerini dorati, e lentamente l'intero mondo che era stato di Alfonso I e di Laura Danti, scivolò fuori dalle rosse mura estensi con quella discrezione e insomma quel silenzio che solo il collezionismo di lignaggio sa mantenere.
In realtà, a spogliare quel tempio delle voluttà mitologiche, ci pensò Pietro Aldobrandini. «Così aperti i due usci del Camerino d'alabastra trovammo che vi mancano...le pitture infrascritte tutte in quadri con cornici dorate». Al costernato verbale dell'agente Roncaglia fa seguito la descrizione dei quadri, che sono la Festa degli Dei, iniziato da Giovanni Bellini nel 1514 e terminato da Tiziano nel 1516 (ora a Washington); l'Offerta a Venere, di Tiziano, che è al Prado, come anche Gli Andrii ancora di Tiziano; e infine il Corteo di Bacco e di Arianna (National Gallery di Londra). Seguiva un Baccanale di Dosso.
Non è facile capire come un simile trionfo di nudità e di seduzioni potesse albergare in casa degli Aldobrandini, che infatti non esibirono mai il loro trofeo. Esso divenne noto solo dopo il 1629, quando già i capolavori erano divenuti per eredità possesso degli ispanofili Ludovisi. Più esattamente, fino al momento in cui il duca di Monterey, dignitario di Spagna, e cognato del duca di Olivarez, acquisterà dai Ludovisi e dunque dall'eredità degli Aldobrandini, quel Baccanale e l'Offerta a Venere di Tiziano che forniranno ispirazione allo sviluppo del gusto barocco dopo il 1630.
Il ritorno dei pittori della "antica" Ferrara
Anche la storia avvincente di Ferrara rinascimentale, nella maturità della sua storia cinquecentesca, dominata dalla immensa sensualità della seduzione stilistica veneziana, ma aperta ad ogni esperienza moderna, e alla conoscenza dell'opera stessa di Raffaello, doveva tornare a vivere soltanto nel secolo XIX attraverso le pagine degli storici e anche della stessa critica d'arte. Più che nell'evocazione di Jacob Burckhardt, intitolata alla Civiltà Italiana del Rinascimento, che nel 1860 segnò il ritorno degli studi e dell'attenzione europea sul sogno e sul teatro di quella "età d'oro" già rievocata da Torquato Tasso, la civiltà estense riprese la strada delle Muse grazie all'ispirazione che le giunse da Modena, erede della sua dignità granducale.
Ciò avvenne grazie alle parole di Adolfo Venturi, che può essere considerato il primo scienziato della storia artistica italiana, il quale, muovendosi dalla conoscenza erudita, ha dato metodi moderni alla ricerca. Non è un caso che proprio a Ferrara, oggetto delle sue attente analisi, egli si rivolgesse con tanto fervore rievocativo e di ricostruzione. La spiegazione sta nel fatto che il Venturi doveva restaurare e allestire il Museo Civico di Modena, il quale possedeva numerose opere d'arte provenienti dalla eredità estense, portate fin qui da don Cesare d'Este, ALL'atto stesso della rivendicazione di Clemente VIII nel 1598, come pure più tardi recuperate da Francesco I e da altri Estensi che avevano conservato il dominio modenese.
Purtroppo, tra il 1742 ed il 1745, Francesco III d'Este, oppresso e quasi destituito dalle spese della Guerra di successione austriaca, aveva ceduto una parte massiccia del patrimonio d'arte ad Augusto III di Sassonia, contribuendo in questo modo a creare il nucleo centrale della famosa Gemalde Galerie di Dresda, la stessa che più tardi Gottfried Semper costruirà a ridosso del padiglione dello Zwinger. Ed è questa una ragione che, almeno in parte, fa sì che dalla costola di Ferrara, dai suoi palazzi, come anche dai patrimoni della casa d'Este di Modena e di Reggio, sia nata un'altra galleria famosa nel mondo.
Per Adolfo Venturi si trattava di narrare questa vicenda insieme ad altre, e nello stesso tempo di assegnare un metodo all'allestimento moderno del Museo Civico di Modena. E un metodo sicuro consiste nel non tradire la realtà e impostare l'esposizione alla luce di "come sono andate le cose". L'impresa di Venturi aveva luogo nel 1882, quando già il ruolo del museo, in Europa, aveva assunto quell'importanza culturale e economico-turistica che oggi tutti vi riconosciamo. L'intero Ottocento è letteralmente dominato dall'idea di museo, strumento di organizzazione della cultura, della ricerca storica, ma anche dell'immagine del potere.
Dopo i primi risultati settecenteschi, volti per lo più all'educazione, e nel corso di quel lungo cantiere sperimentale di idee e di imprese che fu il Grande Louvre di Napoleone - tra il 1793 ed il 1815 - era divenuto il laboratorio della storia dell'arte. Una delle scoperte maggiori che prese corpo tra le mura del Louvre e che si propagò presto ad altri luoghi, specie dopo il 1808, fu che l'arte degli "antichi" e addirittura quella dei cosiddetti "primitivi" (cioè i pittori del Duecento e del Trecento), era un'arte altrettanto degna di considerazione che non quella della Rinascenza: e più di quella dell'età barocca, la quale aveva perso nel gusto degli amatori e dei collezionisti una gran parte del suo peso estetico e figurativo.
Intorno al 1840 o poco oltre, l'arte del Quattrocento ferrarese prese ad interessare progressivamente i grandi musei europei in via di formazione e specialmente quello che solo da poco s'era mosso sulla via dell'acquisto di capolavori italiani, la National Gallery di Londra. Tra le mura ferraresi e in mezzo ai quadri e alle tavole dipinte di cui palazzi e chiese, monasteri e sacrestie erano ricolme, presero a muoversi esperti stranieri e cioè i connoisseurs: questo è il nome che si da nella professione ai "conoscitori", cioè ai dilettanti di prestigio e anche a studiosi di particolare esperienza diretta, che restituiscono nome e cognome alle opere d'arte, le quali ci appaiono spesso come figlie di artisti innominati.
Il più attento fu in questi anni Otto Muendler, un bavarese che si muoveva agli ordini di lord Eastlake, il primo direttore della National Gallery di Londra. Poi, entrarono in scena anche gli italiani, come Giovanni Morelli, al quale le teorie della storia dell'arte devono l'impostazione di un metodo cosiddetto "scientifico" per il riconoscimento e l'attribuzione delle opere d'arte prive di paternità. Con lui, prese a girare per le strade di Ferrara un collezionista inglese, sir Henry Layard, nonché Giovan Battista Cavalcaselle, repubblicano e amico di Mazzini, un patriota al quale il nostro paese deve moltissimo per la conquista d'una moderna conoscenza storica del patrimonio artistico e anche per la sua difesa in decenni così difficili come quelli d'una unità nazionale ancora priva di leggi di tutela artistica che non fossero quelle ereditate dai cosiddetti cessati governi.
Con le rivoluzioni del gusto, e in certo modo allacciata ad esso in un regime di reciprocità, si muove anche l'economia del mercato artistico e si impostano nuovi costumi culturali. L'antiquariato è il braccio commerciale del collezionismo, e spesso è un'attività assai sapiente (la critica d'arte, infatti, non nasce solo nei musei o nei luoghi di cultura); altre volte, invece, prevale in lui un modello distruttivo e rapace di déracinement - e cioè di sradicamento - e di distruzione dell'intatta misura artistica che si era preservata nell'ambiente originario. Collezionismo e pulsione filologica rivelano tensioni capaci di procedere sempre più intensamente, nell'Ottocento, verso la conoscenza moderna delle opere d'arte.
Questo comporta un'ovvia penetrazione di esperti e di conservatori di musei, di mercanti e di dilettanti, nelle case ferraresi più segrete e gelose, ricche d'opere d'arte e di raccolte che, dal Seicento in poi, si sono costituite o protratte nel più riservato silenzio. Ma qualche proprietà ha già deciso di trattare un'onorevole e comunque progressiva resa.
Specie dopo la lenta riemersione - durata un cinquantennio - da sotto gli intonaci del Palazzo di Schifanoia e del suo Salone dei Mesi, e dopo la divulgazione scientifica operata nel 1886 dallo storico Fritz Harck, la decorazione ad affresco programmata da Pellegrino Prisciani - astrologo del duca Borso - e concepita da Cosmé Tura con gli interventi principali del Cossa e del giovane Ercole (1469), e di altre minori botteghe quattrocentesche, il tema degli "antichi" ha completato il suo periplo della memoria storica e ritorna ad affacciarsi sull'orizzonte più radioso dell'arte. Li aveva visti, mal ridotti, Girolamo Baruffaldi, ma prima del 1710; e ne aveva scritto con interesse. Ma è evidente che una novità come la loro aveva necessità di tempi adatti per un apprezzamento incisivo. Lo stesso Venturi, in una serie di saggi tra il 1884 ed il 1890, darà letterale costruzione al modello critico che, nella cultura italiana, sovrasta per anni l'immagine di Ferrara.
Dal Trattato di Vienna (1815) in avanti, insieme alla divulgazione critica dei caratteri peculiari dell'espressione pittorica, cammina parallela la diffusione fisica del collezionismo e delle sue opere principali o più ammirate, nel mondo dei musei e delle raccolte private. Ci sono collezioni, come quella dei conti Costabili, che raggiungono entità quantitative di centinaia e centinaia di numeri di inventario. La borghesia che aveva tratto dalle aste napoleoniche l'agio e insieme la disinvoltura d'una nuova ricchezza, libera dalle ipoteche morali dell'osservanza liturgica, mostra di saper subentrare con duttile sollecitudine alle antiche casate della nobiltà, estense o nera che siano.
Qui ritorna fortissimo il ragionamento che vede nello "stile del potere" e nella singolare intellettualità dell'establishment cortigiano rinascimentale, la matrice di una ricchezza pittorica insolita e ripartita, disseminata in ogni luogo di Ferrara, qualche volta dispersa e tuttavia attentamente inventariata in sede testamentaria e notarile, elencata dai mercanti, più tardi annotata dagli studiosi e dai connoisseurs che prendono a frequentare strade e botteghe, e che si spingono ormai ad erigere sulle pagine delle Vite di Girolamo Baruffaldi, come pure degli storici locali, dal Barotti e dal Laderchi al Cittadella, un itinerario biografico ed un possibile, primo ordito di narrazione critica.
Le grandi collezioni ferraresi
La leggenda del collezionismo ferrarese riemerge dal silenzio secolare, la sua oscurità ritrova spiegazione nello sviluppo stesso d'una storia che si viene illuminando giorno dopo giorno.
L'arte del primo Cinquecento, l'età di Alfonso I d'Este, quella che non ha preso la via di Modena e della corte di don Cesare d'Este, finisce sotto i ferri di una dissezione collezionistica e patrimoniale condotta direttamente da alcune grandi personalità del variopinto corteo di Clemente VIII Aldobrandini. Risorgono invece a metà Ottocento quelle tavole "gotiche" e lontane che ora predono forza anche nella spinta spiritualistica dei nazareni e dei preraffaelliti. La forza che riabilita e sospinge la scoperta moderna dei "primitivi", è la stessa impronta etica degli "antichi". La storia tuttavia cammina insieme al grande caos delle merci.
Il Cicognara, uno storico della cultura artistica, narra di aver visto uscire dalle porte di Ferrara carriaggi interi carichi di dipinti e di anticaglie. La lettura dei frequenti cataloghi a stampa che propagandano e diffondono i valori della pittura ferrarese tra Quattro e Cinquecento, pubblicazioni come sono oggi i repertori delle aste internazionali, segna in qualche modo il polso stesso del ritorno cosmopolita, l'allargamento del gusto a tutta intera la grande "officina ferrarese".
La più antica tra le raccolte ferraresi era forse quella di Roberto Canonici, danneggiata da un incendio del palazzo avito nel 1638 e che, nonostante le offerte di Francesco I, non raggiunse mai la Reggia di Modena. Si trattava di 132 dipinti, tra i quali primeggiavano i grandi veneti, da Tiziano a Veronese e a Tintoretto. La vendita ebbe luogo nel 1902 e con essa la dissoluzione.
Alcune opere sono state identificate, e tra esse la Circoncisione del Garofalo a Capodimonte di Napoli, e l'altra del Louvre; il Cristo morto del Carpaccio nel Museo di Berlino, e altri dipinti attribuiti al Tura, al Pisanello e a Lorenzo Costa. Un'altra collezione che sostò a Ferrara nei primi decenni del Settecento fu quella straordinaria del cardinal Tommaso Ruffo. Il repertorio documentava la pittura italiana da Giorgione e Raffaello fino ai Carracci e a Rubens. Vi si conservava anche il Ritratto di Juan de Pareja di Diego Velasquez, e vi regnavano i bolognesi dell'ultima generazione barocca, come il Crespi, e della prima generazione neoclassica, come Donato Cresti. La raccolta finì a Roma col suo proprietario. Altre collezioni secentesche e settecentesche furono quella di Girolamo Crispi, arcivescovo di Ravenna, dei Sacchetti, dei Riminaldi e infine di Cesare Cittadella.
La transizione tra i due secoli è segnata, come s'è detto, dalla collezione Costabili Contarini, il cui nome ricorre tuttora nei cataloghi dei grandi musei europei, specie della National Gallery di Londra e del Kaiser Friedrich Museum di Berlino. I nomi di due collezionisti e conoscitori - sir Henry Layard e lord Eastlake - percorrono, insieme a quelli di Giovanni Morelli e di Otto Muendler, nonché dello stesso Cavalcaselle, il secolo ferrarese, nel momento difficile che sta tra il governo preunitario della Chiesa e la nuova unità nazionale italiana. Le loro apparizioni frequenti in Ferrara si incrociano con la presenza indispensabile dell'ormai vecchio Ubaldo Sgherbi, mediatore e venditore, nonché collezionista a sua volta, personaggio comunque centrale - pur dal pulpito inafferrabile dell'economia mercantile - della stessa resurrezione artistica del Quattrocento ferrarese.
Dal Tura a Baldassarre Estense, dal mitico Galasso e da Gelasio al Pisanello, all'Ortolano, dal Dosso a Girolamo da Carpi, i nomi più famosi si enucleano, si aggregano e nuovamente si disperdono nei cataloghi a stampa che vengono divulgati e che contano anche un estensore a suo modo autorevole come Gaetano Giordani, il conservatore della Pinacoteca di Bologna (1871).
C'è una pagina di Adolfo Venturi a proposito della raccolta Costabili e della collezione di sir Austin Henry Layard, che ha inizio nel 1866, che vale la pena di ripercorrere per un attimo almeno: «Il Morelli, sino dal 1858, aveva fatto una stima di quella raccolta oggi dispersa ai quattro venti... ma questa stima era stata fatta troppo presto ... con semplici criteri di amatori. È un "quadro da galleria" scriveva il Morelli a proposito d'un quadro di Lorenzo Costa, è una "perla d'autore" diceva dell'Adorazione del bambino dello stesso». Poi il Venturi continuava: «Tra la folla de' maestri che popolavano la galleria Costabili erano stimati sopra tutto un quadro dell'Ortolano, alcuni del Costa, di Ercole, del Garofalo, del Mazzolino e del Dosso.
Nel Quattrocento era stata fatta grazia alla Primavera di Cosmé Tura e a un Cristo attribuito a Bono ferrarese, i quali entrarono nella raccolta Layard. Diciotto quadri IN tutto avevano meritato la stima di Giovanni Morelli nel 1858! E il prezzo assegnato era bassissimo, ma già nel '66 lo stimatore, ricordando la vendita della raccolta Pourtalés a Parigi, non si peritava di duplicarlo». Ed ecco la descrizione della partenza delle opere da Ferrara: «In una prima cassa era una pala d'altare del Costa, due quadri a tempera di Ercole Grandi... nella seconda, San Giovanni di Dosso Dossi, nella terza il Ritratto di Andrea Saracco dello stesso autore, il Ritratto d'Alfonso II d'Este dello stesso, la Pietà d'Ercole Grandi e la Primavera di Cosmé Tura, nella quarta l'Annunciazione del Garofalo, Cristo alla colonna di Bono ferrarese, la Sacra Famiglia e l'Adorazione del Mazzolino... nella sesta il ritratto di due coniugi attribuito al Garofalo». Sir Layard, acquistato il palazzo Cappello sul Canal Grande a Venezia, vi trasferì nel 1875 la raccolta, che poi alla sua morte raggiunse l'Inghilterra (1912).
Altre collezioni, come la Barbicinti, iniziata intorno al 1843, furono liquidate lentamente e più meditatamente, come dimostrano le due tavole del Cossa, già parte dell'altare Griffoni in San Petronio a Bologna, con i due Santi, Pietro e Giovanni Battista, passate prima al pittore e collezionista Enea Vendeghini, indi al collezionista Giuseppe Cavalieri e cedute infine alla Pinacoteca di Brera di Milano. Così anche per il Cristo morto del Tura oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Crocifisso ancora del Tura che si trova a Brera. Altri due capolavori ceduti al Vendeghini hanno fortunatamente raggiunto la Pinacoteca di Ferrara nel 1975: capolavori di mano di Ercole, come il San Petronio, anch'esso già nell'altare Griffoni di Bologna, e la bellissima Madonna col Bambino e due vasi di fiori.
La dissoluzione della straordinaria raccolta Santini è avvenuta nel 1902, quando gli eredi cedettero tutto all'antiquario Tavazzi, in assenza d'una legge di tutela che proteggesse meglio l'interesse pubblico, e cioè quella più larga virtù che l'opera d'arte possiede sempre dentro di sé, e che ha l'aspetto di un vero e proprio valore aggiunto. Si trattava di 166 pezzi, e ne furono recuperati soltanto cinque, poco dopo, distribuiti alle gallerie nazionali di Modena, di Bologna e di Brera a Milano. Curiosamente, nulla toccò a Ferrara.
Si dovrebbe ancora parlare della collezione di Giuseppe Cavalieri, forte, insieme a raccolte di libri, ceramiche e oggetti d'ogni natura, anche di 208 quadri (1914); di quella di Ettore Testa; dell'altra più antica dei Varano; ma non si può fare una descrizione così minuziosa se non occupando pagine e pagine.
Un progressivo recupero dei valori storici estensi
E' necessario però sostare un momento almeno sull'argomento delle collezioni che, in parte almeno, sono state recuperate negli ultimi decenni alla proprietà e all'esposizione pubblica. Infatti, è proprio sulle opere provenienti da queste collezioni, acquistate recentemente dalla Cassa di Risparmio di Ferrara e dallo Stato, che si basa questa stessa mostra. Sforzi molto significativi si sono indirizzati infatti da anni su alcune collezioni rimaste a Ferrara.
La prima volta è stata inquadrata la collezione Massari, messa insieme per acquisto dal duca Galeazzo nel 1900 e prima di lui aggregata da Giuseppe Saroli (80 dipinti nel 1873). Le opere che ne sono venute, dal formidabile San Giovanni Evangelista del fiorentino Maestro di Figline, un artista coevo a Giotto, a Girolamo da Carpi, a Giovanni da Modena, sono significativamente esposte nella Pinacoteca Nazionale. S'è accennato della raccolta Vendeghini, poi Baldi, essa pure in Pinacoteca, ben nota anche per il frammento d'una tavola dipinta con la Morte della Vergine del Mantegna che sta al Museo del Prado Più recente di tutti, il caso dell'acquisizione, operata dallo Stato e dalla Cassa di Risparmio, di ben 51 opere provenienti dalla collezione Sacrati-Strozzi, la famiglia mantovana, trasferiti a Firenze ma di nitida provenienza ferrarese.
Qui è soprattutto la presenza delle due Muse, Erato e Urania, provenienti dallo Studiolo di Belfiore e opera di un allievo di Cosmé Tura, a segnare il livello ideale per un recupero che è stato una tappa fondamentale sulla strada d'una sognata, possibile ricostruzione almeno sperimentale del patrimonio storico e artistico dell'antica città di Ferrara.
Il deposito nella Pinacoteca Nazionale di Palazzo dei Diamanti esalta naturalmente la consistenza ed il valore della stessa collezione pubblica che fu anche lei creata nel 1836 sia con opere provenienti da chiese e da proprietà pubbliche, che da importanti collezioni private. La collaborazione della Cassa di Risparmio è da decenni fondamentale.
Il secolo XIX si chiude con le poche pagine che un grande critico d'arte statunitense, Bernhard Berenson, dedica alla pittura ferrarese del Quattrocento e del Cinquecento nel suo libro che si intitola ai Pittori Italiani del Rinascimento e che esce a Londra e a New York tra il 1894 ed il 1897. Il titolo del volume che comprende anche Ferrara è North Italian Painters of the Renaissance e fu pubblicato nel 1897. Si tratta di pagine molto belle e significative per l'interpretazione che il Berenson dà per la prima volta ai grandi maestri ferraresi; è giusto dire che in poche righe vi si stabilisce il carattere stilistico prevalente di artisti come Tura, Cossa ed Ercole.
Ascoltiamo un momento solo: «Niente come lo stile di questo predecessore - Cosmé Tura - contrasta alla nobile grazia raffaellesca o all'estatica sensualità del Correggio. Le figure di Tura sono fatte di selce, superbe e immobili come faraoni; un'energia rattenuta le attorce come tronchi d'ulivo rugosi e nodosi... In tutto questo è coerenza perfetta. Quelle creature minerali non avrebbero potuto abitare un mondo che non fosse intagliato nel cristallo... Tura vuoi definire la materia, con una crudezza quasi insana».
Quanto invece ad Ercole, il giovane Berenson scriveva: «Nelle opere [di Ercole] è una foga appassionata, una frenesìa sovrumana, cui si cede come ad una nobile violenza, felici di partecipare ad una vita ad alto potenziale». Ma questo piacere è intessuto di disumana insensibilità, come quello «che ci danno certe saghe islandesi, e meglio ancora, le estreme, spietate lasse nibelungiche».
E' stato detto che molto giova a queste immagini di grande letteratura critica la splendida traduzione italiana che ne diede Emilio Cecchi nel 1936, quella stessa dalla quale togliamo queste brevi citazioni. Il traduttore di Berenson avrebbe dovuto essere, intorno al 1915, lo stesso Roberto Longhi che poi nel 1934, annotando la mostra del Rinascimento Ferrarese organizzata dal Barbantini l'anno prima, ne trasse un libro presto famoso, l'Officina Ferrarese.
Dopo qualche tempo, un altro scrittore raffinato si cimentò con l'ormai grande immagine dei ferraresi Cosmé Tura, Francesco del Cossa, Ercole de'Roberti, cavandone un libro per la Collana dei Valori Plastici, di Mario Broglio, che era anche una sfida e un paragone sia con le pagine di Bernhard Berenson che con quelle di Longhi.
Il volume uscì in un momento a dir poco tragico, il giugno del 1941, e chiuse così la serie dei grandi interventi sulla Scuola di Ferrara. Nel 1933, Palazzo dei Diamanti aveva ospitato infatti una grande mostra dedicata al Rinascimento Ferrarese; e quell'occasione, che consentì di dare un primo restauro al Palazzo e alla Pinacoteca, doveva segnare anche in Italia il definitivo ritorno alla notorietà della scuola di Ferrara. La quale aveva già avuto tuttavia una scientifica celebrazione nel 1894 a Londra, nella sede del Burlington Fine Art Club.
La prefazione del catalogo era di Venturi e il contenuto della esposizione riguardava dipinti, compresi tra il 1440 ed il 1540, che «erano già ornamento delle chiese, dei palazzi, delle case della regione emiliana». L'Officina Ferrarese di Roberto Longhi segna anche il suo arrivo all'Università di Bologna e i primi passi d'una scuola critica di cui, oltre ad Arcangeli, Graziani e Briganti, faranno parte anche Bassani, Giovannelli, Bertolucci e altri ancora.
Da allora a oggi le persone e i nomi sono quasi tutti cambiati, ma il lavoro di costante aggiornamento filologico prosegue insieme ad un progressivo recupero di conoscenza che investe insieme le circostanze materiali, sociali ed economiche, della grande diaspora dell'arte ferrarese nel mondo.
Anche la mostra dedicata appunto alla ricostruzione della leggenda delle grandi collezioni d'arte di Ferrara, che è di fatto un'illuminazione del sublime modello creativo che tra Quattro e Cinquecento prese forma tra le mura estensi, vuole collocarsi dentro il vano segnato da quel lavoro ininterrotto.