La stessa industria si identifica nella cultura, in tutte le sue molteplici manifestazioni, fino a esserne spesso espressione e - allo stesso tempo - un promotore attivo: cultura in senso generale, non soltanto all'interno, ma sempre più anche al di fuori dei cancelli delle fabbriche, dei laboratori, degli uffici.
Questo spiega perché l'attenzione della Confindustria verso la cultura e verso le principali istituzioni culturali - come la scuola e l'università - è andata crescendo a partire dal "rapporto Pirelli" degli anni Settanta, e poi con il nuovo statuto entrato in vigore nel 1991. Una attenzione culminata nell'attivazione in Confindustria di una specifica Area operativa su questo tema, con l'obiettivo prioritario di spostare il livello dell'attenzione per l'istruzione e la cultura, nei suoi diversi gradi, dal ristretto cenacolo degli addetti ai lavori al ceto dirigente del Paese nel suo complesso.
Attore dei processi culturali gli imprenditori lo sono da sempre, e se da un lato sono legittimati a fare cultura, dall'altro si sentono sempre più impegnati a investire in cultura.
Che cosa è mai, in fondo, lo sforzo che impegna l'impresa e l'imprenditore alla continua innovazione se non un vitale interesse nei confronti del sapere, della cultura applicata che diventa tecnologia, delle istituzioni di ricerca, del nostro patrimonio di esperienze e di conoscenze intellettuali e culturali?
La risposta a questa domanda sta a fondamento dell'attenzione con cui l'industria italiana vive la cultura e ne condivide gli obiettivi; obiettivi per il cui conseguimento - soprattutto nel campo della diffusione e della conservazione del patrimonio culturale del Paese - gli uomini dell'industria hanno saputo idealmente congiungere in un unico percorso strategico il mecenatismo di tradizione rinascimentale e le moderne tecniche della sponsorizzazione.
Editoria libraria, pittura, scultura, architettura, teatro, concerti, promozione di premi letterari - a cominciare dal Premio Estense e dal Campiello - sono alcuni dei settori in cui l'industria è ampiamente presente, impegnando non soltanto risorse finanziarie, ma anche capacità progettuale e di proposta, di metodo, di soluzioni tecniche e manageriali.
Il problema è, semmai, quello di ampliare tale presenza, di offrire all'universo delle aziende le condizioni normative e procedurali perché tutte le forze economiche possano "fare cultura". Mi riferisco soprattutto al contributo che i privati - e implicitamente le imprese - possono dare al recupero, alla conservazione e alla migliore fruizione del patrimonio storico, culturale e artistico del Paese.
Credo che i tempi siano maturi per seguire gli esempi che ci provengono da altri Paesi, ove la sinergia tra pubblico e privato è ormai una leva essenziale della politica culturale.
Ciò significa che l'operatore industriale, nel momento in cui intendesse concorrere alla salvaguardia di beni che sono patrimonio di tutti, deve essere incentivato ad assumersi una responsabilità diretta nella gestione dei beni di interesse collettivo, e non relegato - come avviene oggi - a un ruolo secondario in operazioni di carattere marginale e collaterale.
Da tre anni in Italia è vigente la "legge Ronchey", che consente alle imprese private di gestire alcuni servizi nei musei statali. Purtroppo solo in un caso - quello della Galleria d'Arte Moderna di Roma - la legge Ronchey è in via di applicazione. Occorre fare di più, superando una mentalità secondo la quale solo lo Stato avrebbe il diritto di gestire i beni culturali.
In realtà, le risorse culturali - di cui il nostro Paese è ricco più di ogni altro - hanno bisogno di essere valorizzate e gestite con metodi imprenditoriali.
Dunque, alla funzione di tutela e controllo del patrimonio - che è e deve restare di esclusiva pertinenza dello Stato - va affiancata l'esperienza gestionale dei privati.
In questo senso, ove venga opportunamente potenziato l'assetto legislativo che oggi regola il rapporto fra privato e beni culturali, la vocazione e l'esperienza delle imprese industriali potrà rivelarsi determinante.