Anche a costo di farsi giudicare petulante da qualcuno e da qualcun altro di subire l'umiliazione di una risposta negativa o quella, ancor peggiore, del silenzio. Era troppo vivo il desiderio - anzi, il bisogno - di alzare lo sguardo oltre la siepe che dell'ultimo orizzonte il guardo esclude e cercare nell'altro da sé, oltre che nel profondo della propria anima, il senso ultimo delle cose.
Non poteva resistere all'intima esigenza di tuffarsi nel fluire ininterrotto della vita, partecipandone senza risparmio, fino alla vertigine, allo sfinimento e, da ultimo, a consumare se stesso e i suoi nervi. Ecco, dunque, come si spiegano le mille curiosità degli anni della giovinezza ferrarese di de Pisis: non come capricci eruditi di un giovane di provincia dal gusto un po' decadente, ma come i primi moti - talora ingenui, se si vuole - di quella avventurosa esplorazione del mondo di natura e di cultura che, da allora, de Pisis ha proseguito ininterrottamente fino al termine della sua vita.
Quegli anni, quelle esperienze e gli esiti che produssero, appartengono dunque a pieno titolo alla formazione di de Pisis e della sua cultura. Fu così, per esempio, per l'incontro con la «superficie colorata del mondo», con la «varietà infinita dei suoi fenomeni», registrata con «golosità inappagabile e fanciullesca» (Mengaldo), propria della poesia di un suo grande concittadino, Corrado Govoni. E fu altrettanto per quella nozione di "anima del poeta" che de Pisis maturò fino da allora, frutto di una contaminazione tra la concezione govoniana dell'anima come «lastra impressionabile, pronta a scomporre l'oggetto in una serie di sensazioni empiriche e a riorganizzarlo in sovrimpressioni analogiche» (Bonfiglioli) e la concezione pascoliana dell'anima descritta ne Il fanciullino: intatta, capace di un contatto immediato con le cose, di uno stupore spontaneo davanti alla continua rivelazione del mondo, del suo mistero che palpita in ogni aspetto della vita.
Tutto ciò - è vero - non si tradusse nell'immediato in pittura, così come - del resto - l'incontro e l'amicizia con i padri dell'"arte metafisica" - De Chirico in primo luogo, ma anche Savinio e Carrà - avvenuto nella seconda metà degli anni Dieci.
E non si tradusse in pittura - o meglio, in grande pittura - neppure negli anni romani, durante i quali l'attività letteraria e poetica rimase prioritaria per de Pisis e la decisione di applicarsi con impegno e continuità alla pittura maturò soltanto verso lo scadere di quel periodo riguardo al quale - e in particolare alle tele dipinte allora - de Pisis stesso, pur difendendole, scriveva: «nessuno più di me ne sente l'estrema imperfezione, davanti a un ideale di bellezza».
Malgrado ciò - malgrado cioè che l'approccio definitivo di de Pisis alla grande pittura sia avvenuto a Parigi nella seconda metà degli anni Venti - è ormai chiaro che fu negli anni ferraresi e romani che cominciò a mettere a punto quella bussola che ne orientò il cammino per tutta la vita. E lo fece soprattutto grazie alle sue fatiche poetiche e letterarie che, in seguito, seppe assorbire in pittura non come un turbamento, ma come uno stimolo originale e felice. Solo a partire di qui si comprende lo scarto che separa la sua pittura precedente da quella successiva alla metà degli anni Venti: uno scarto troppo brusco per credere che alle sue spalle ci fosse solo la pittura del periodo romano, influenzata da Spadini, dai macchiaioli, dalla pittura del Seicento, e non anche lo straordinario serbatoio di riflessioni, di sentimenti, di soggetti, di immagini e di colori che de Pisis scrittore - e non solo scrittore - aveva alimentato e al quale il pittore, una volta divenuto tale, attinse a piene mani.
Ma perché divenisse pittore, fu decisivo l'incontro con Parigi: gran teatro dell'arte contemporanea; protagonista, nel secolo precedente, della rivoluzione che aveva cambiato il corso della pittura moderna; metropoli immensa e misteriosa, capace di offrirsi al giovane artista ferrarese quale luogo ideale per un rapporto con la realtà libero, complesso, sensibile.
A fronte dei Matisse, degli Utrillo, dei Bonnard, dei Marquet, oltre che della grande arte dell'Ottocento - da Delacroix a Manet, agli impressionisti - gli ideali maestri del periodo romano dovettero apparire subito inadeguati al giovane de Pisis. Fu allora che gli tornò utile la lezione metafisica, che gli valse a trattenerlo da un'adesione troppo spinta al vero. Fu come un diaframma che gli impedì di cadere in un rapporto subalterno con il soggetto, avvolgendolo in un alone di magia e di mistero. Nasce qui la bella serie di tele metafisiche della seconda metà degli anni Venti. Poi, via via, di quel diaframma non ci fu più bisogno.
Cresce de Pisis, cresce la sua capacità di reinventare sulla tela la vita di ogni oggetto - paesaggio, figura o natura morta che sia -, mantenendo senza più bisogno di filtri un perfetto equilibrio tra la realtà delle cose e l'emozione che gli procurano.
E matura il suo stile, la sua capacità di delineare istantaneamente il soggetto sulla tela con pennellate lievi, vibranti, luminose, fragili in apparenza, ma dure in realtà come il filo di ferro.
Nasce la sua celebre stenografia pittorica che gli consente di trascrivere l'emozione che gli procura una veduta parigina all'imbrunire; l'ultimo fremito di vita e di bellezza di un mazzo di fiori; il rapimento provocato dalla visione di un «corpo in posa, coricato su una ottomana di seta gialla stinta...» (de Pisis); la furia di descrivere, attraverso una giungla di segni, la fitta vegetazione e l'atmosfera uggiosa di una piazza londinese; lo stupore e la malinconia che provoca il barocco romano quando le sue forme, nel contrasto con la luce del crepuscolo, sembrano gonfiarsi fino a scoppiare; il senso di felicità e di pace di piazza San Marco in una mattinata di sole, tra un brulichio di gente vociante, mentre in cielo le rondini con i loro scarti improvvisi disegnano figure indecifrabili.
Parigi, Londra, Milano, Venezia: il luogo non fa differenza. De Pisis, il maggior vedutista del secolo, piazza il cavalletto ovunque e fatalmente, nelle giornate di grazia, dipinge capolavori: «non più un occhio, il suo, ma una spugna di sensazioni» (Arcangeli).
Niente a che vedere, insomma, con l'incrollabile ottimismo degli impressionisti, ma semmai con l'ultimo Monet che, nello stagno di Giverny, rispecchia la propria coscienza.
Felicità e infelicità, gioia di vivere e paura della morte: è fra questi opposti che si alternano le visioni di de Pisis. E se sono le prime a prevalere fino a oltre la metà degli anni Quaranta, nel tempo estremo della sua vita e della sua arte le parti si invertono. Le mille luci della sua tavolozza tendono a spegnersi a una a una, come quelle della città con l'incedere della notte, fino a lasciare il posto, oltre la metà del secolo, a crudeli visioni monocrome, in bianco o in nero che siano.
E anche la sua febbrile stenografia pittorica si prosciuga via via, lasciando spazio a una sintassi figurativa scarna, scabra, ridotta all'essenziale; a una sorta di alfabeto Morse, drammaticamente pausato, nel quale i silenzi, i brani di tela non coperta dal colore, contano quanto le parole, le pennellate sempre più fini, sempre più scheletriche. Ciò nonostante, la sua mano ormai inferma continua a produrre capolavori: ritratti, fiori, nature morte, paesaggi, fino a quell'ultimo, straordinario dipinto che è la Natura morta con la penna del 1953, un'opera tale da reggere il confronto con quanto di più nuovo e di più grande andava accadendo in pittura nel mondo, agli inizi degli anni Cinquanta.
Nel novembre 1923, in occasione della pubblicazione de La città dalle cento meraviglie, de Pisis inviò un articolo a un destinatario rimasto sconosciuto che avrebbe dovuto firmarlo e pubblicarlo su La Gazzetta Ferrarese. Quell'articolo si concludeva così: «Io mi auguro che proprio dalla sua città parta per questa Italia grande e rinnovata la voce che valga a porre in luce uno dei nostri migliori scrittori; ma son certo che Filippo de Pisis ci penserà da sé, con le sue opere».
Oggi, nel centenario della sua nascita, la sua fama di artista, se non quella di scrittore, consente di dire che de Pisis ha avuto ragione e ci ha pensato da sé, con le sue opere, a mettersi in luce. Ciò non toglie che la sua città, Ferrara, gli debba quello che da lei si aspettava allora e ha ricevuto soltanto in parte.
Una ragione in più, questa, perché il Comune e l'Amministrazione Provinciale di Ferrara, riuniti in Ferrara Arte, con il prezioso contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara, oltre che di Coop Estense, nel prossimo autunno-inverno, nel Museo d'Arte Moderna e Contemporanea che nell'occasione gli verrà intitolato, allestiscano l'unico genere di mostra che finora non gli è stata ancora dedicata: una scelta selezionatissima di una novantina di tele e di una trentina di disegni, tutti capolavori riconosciuti, che raccontino al grande pubblico uno dei più straordinari itinerari della pittura del Novecento.
E ciò mentre le Civiche Galleria d'Arte Antica, la Biblioteca Comunale Ariostea e il Museo di Storia Naturale rievocheranno, nelle loro sedi, gli anni ferraresi dell'artista e le sue preziose fatiche giovanili.
Andrea Buzzoni
De Pisis nella città dalle cento meraviglie
Nel 1934 in gita ad Assisi, la città che molti anni prima gli aveva permesso una sintesi ormai avviata sulla sicura consapevolezza del suo destino di pittore tra wildismo (il decadentismo rivisitato secondo i modelli dello scrittore inglese), lirica partecipazione alla natura secondo l'esempio dell'amatissimo Pascoli e ripresa del misticismo cattolico, mai ripudiato e rivitalizzato dall'incontro con il poeta-teologo Louis La Cardonnel, Filippo de Pisis invia una cartolina di saluti, testimonia Sandro Zanotto, all'amica ferrarese Nina Vendeghini.
Questa cartolina è firmata anche da Morandi, Giuseppe Raimondi, Bassani, Longhi, Arcangeli, vale a dire dai numi tutelari di un ritorno estense, della grande pittura estense e dell'officina ferrarese che in quegli anni prendeva vita e che, accanto al celebre testo di Longhi, poteva annoverare anche una officina ferrarese del Novecento, quella a cui de Pisis portò, tra gli spazi metafisici evocati nelle stupefatte atmosfere di De Chirico o nei cieli-soffitto di Carrà o nella geometrica assurdità del pierfrancescano Morandi, il fuoco lirico del mito di una Ferrara città delle cento meraviglie.
Che poi la destinataria della cartolina possa essere stata la signorina V., custode vestale di una delle più grandi e perfette collezioni di ferraresi, evocata nei colloqui che si svolgevano sulle colline fiorentine, a casa Longhi, tra alcuni dei firmatari e il narratore dell'episodio, Bassani, (come scriveva sul numero 3 di questa stessa rivista Andrea Emiliani) potrebbe risultare uno dei tanti orditi di quello straordinario romanzo di Ferrara che non solo Bassani ha scritto.
Nessuno, finora, ha notato che il marchesino pittore non ha mai dipinto Ferrara, o meglio non ha mai fatto di Ferrara un soggetto pittorico, ma - invece - ne ha fatto l'oggetto della sua vocazione narrativa, di quell'altro specchio della coscienza che è la scrittura: non la "stenografia pittorica" di cui parla Montale, ovvero la cifra stilistica del suo straordinario universo di pittore (Una botta di stocco nel zig-zag / del beccaccino / e si librano piume su uno scrimolo...), ma la consapevolezza di essere nato scrittore e poeta.
Una scrittura che tutto deve a una vorace e intelligente coscienza e consapevolezza del fenomeno letterario, non solo nelle sue mai ripudiate radici dassiciste (il suo Leopardi, il suo Pascoli, ma anche autori insospettatamente "moderni" nella tradizione come il Gasparo Gozzi evocato in un libro fondamentale come Mercoledì 14 novembre 1917) quanto nelle difficili, intricate, spesso confuse radici delle avanguardie di cui non è solo un protagonista, ma talvolta anche un teorico e un critico.
Sul rapporto di de Pisis con la sua città, con "la città pentagona", è stato scritto molto, forse anche con troppa disinvolta leggerezza, sia nel presentare i documenti di un amore mal corrisposto, sia nel difficile esercizio di pubblicazione dell'enorme materiale inedito, spesso rispondente a un'occasionale necessità o a esigenze quasi sempre legate a confermare la supremazia della pittura sulla primordiale attrazione alle lettere e sul conseguente influsso che Ferrara avrebbe avuto, come del resto è provato, sull'attività pittorica.
Certo, ha ragione ancora una volta il grande Montale, suo coetaneo e amico di lunga data, a ricordare in una "lettura" apparsa sul Corriere nel 1954 che la poesia di de Pisis, come del resto tutta la sua vocazione letteraria, «non si può considerare come un semplice suo violon d'Ingres». E che questa convinzione sia stata la convinzione di de Pisis lo provano tante pagine di autopresentazione, di tentativi di autobiografia, che rimandano sempre all'unico vero tema di tutto lo sterminato materiale pubblicato, o inedito che è una continua - e sempre interrotta - esigenza di narrare se stesso a se stesso, di fare della propria vita un'opera d'arte; (e non dimentichiamo mai che l'insegnamento dannunziano viene mimetizzato, colto semmai, nel dannunzianesimo dell'atteggiamento e del gesto assieme a ciò che a un sensibile intellettuale di una città di provincia poteva giungere da Ruskin o da Pater, i padri del decadentismo europeo).
Di questa radice letteraria, di questa capacità di conoscere il mondo attraverso il filtro letterario, de Pisis era estremamente consapevole. In anni non sospetti, quando ormai gloria, ricchezza, pienezza di vita e la scelta della pittura gli hanno forse fatto dimenticare le lontane radici ferraresi e letterarie, la convinzione di un'espressione negata, di un'esperienza interrotta ritornano come rimpianto e, coraggiosamente, ancora come una scelta sempre attuale.
Sulla Fiera Letteraria del 1946, in un abbozzo di autobiografia, poteva scrivere: «Prima di morire vorrei scrivere due o tre bei libri (ne ò sognati e vissuti - il che ben più vale - diecimila) e due o tre bei quadri (ò dipinto forse tremila cartoni, e quali cartoni, assicelle e tele), però, per buona fortuna, la mia opera di pittore, inconfondibile e purissima, può essere contenuta in dieci quadri ben scelti». E ancora nel 1951, quasi a sottolineare la supremazia della poesia sulle arti sorelle: «Spesso mi è venuto da dire che non amo che i quadri che non ò dipinto. Amo, viceversa, lasciatemelo dire, alcune mie liriche pressoché inedite e che son sicuro troveranno un giorno il loro critico e il loro esegeta».
Poeta-pittore, dunque, o poeta a cui mancano le parole (quelle autentiche) o pittore che ha saputo trovare quelle parole? La difficoltà nello sciogliere il nodo intricato del rapporto poesia-arte per de Pisis è ulteriormente complicato da ciò che le stagioni ferraresi hanno saputo infondere in una visione della vita che, almeno fino al suo viaggio parigino, passa sempre ed è filtrata dallo schermo letterario. Nella mitografia del personaggio costruito su schemi riflessi anche nel modo di vestire o di vivere o di abitare (il dandysmo di tanti suoi travestimenti: Oscar Wilde, Dostoievskji, d'Annunzio, carrettiere romano o monaco buddista; le sue camere metafisiche o melo-drammatiche a palazzo Calcagnini a Ferrara, le gabbie dorate romane o parigine, fino ai fasti veneziani del palazzo di San Bastian), tutto concorre alla creazione di una vita inimitabile di cui la letteratura è nello stesso tempo il mezzo e la giustificazione.
Perfino la sua attenzione al mondo dei diseredati, degli umili, risente della radice pascoliana di una "bontà" che inevitabilmente si veste dei colori decadenti di un'attenzione specifica per la visività, piuttosto che per la partecipazione al dolore del mondo: non dolore, ma tristezza.
La suprema lezione della pittura depisisiana, che va centrata nell'attimo fuggente in cui la bellezza cede il campo alla morte, al disfacimento, alla corruzione, sta proprio nel riconoscere la qualità insostituibile della bellezza per cui la bellezza è anche il dolore del mondo. Questa straordinaria qualità che la pittura esprime nella nota iridata di una felicità sospesa, ipotecata, ha come primo momento creativo un atteggiamento letterario, perché nella poesia e nella letteratura de Pisis conosce il proprio essere, la propria identificazione multiforme e continuamente interrotta.
Il signor Luigi B. dell'omonimo romanzo, il Felipe di Vert-vert, il marchesino pittore del diario parigino, alcuni tra i tanti specchi in cui de Pisis si riflette e si costruisce hanno la loro origine e la loro funzione nei travestimenti ferraresi, nel personaggio-autore. Luigi Filippo Tibertelli cacciatore di farfalle, raccoglitore di erbari, ricercatore di parole, geniale affabulatore della realtà di provincia, profondo conoscitore dell'inquietudine artistica e culturale che porterà alle avanguardie, riversa la sua visione del mondo e la sua comprensione del presente nei libri fondamentali del periodo ferrarese.
Più che l'esercizio scolastico del Canti di Croata (1916), prefato da Corrado Govoni e tributo senza riserve al Pascoli e al pascolismo, o a Emporio, le prose liriche uscite nel 1916 che ribadiscono negli elenchi di matrice govoniana l'attenzione edonistica e culturale assieme alle cose, agli oggetti di cui si contempla la bellezza e la "poeticità", saranno i testi influenzati dalla metafisica a rivelare in de Pisis lo scrittore pronto e disposto alla pittura, grazie alla capacità di cogliere e di instaurare i rapporti segreti entro le cose.
Ormai, come recita un libro di Calvesi a cui tutti siamo debitori, la metafisica è schiarita; ma ancora il ruolo, sicuramente letterario, che de Pisis ha saputo e voluto rivestire e interpretare all'interno del piccolo gruppo approdato nella città metafisica per eccellenza - De Chirico con il fratello Savinio, Carrà e, più tardi, Morandi - appare ancora in gran parte sconosciuto; né le pagine straordinarie di Briganti sui metafisici nel saggio della mostra veneziana del 1979 sulla pittura di quel periodo, così legate all'esperienza ferrarese (la poetica dechirichiana che rimanda al nulla "l'enigma che fa coincidere l'ignoto con il vuoto di senso" e quella depisisiana, secondo l'intuizione dell'Arcangeli, richiamata al gioco del non-senso Dada ma anche, fondamentalmente lirica) ci fanno con sicurezza avvertire quanto de Pisis abbia contribuito alla formulazione e all'esegesi di quel movimento così complesso e così affascinante.
Certo, basta a farci riflettere e forse a evocare un clima e una stagione, certe affermazioni - forse vere - del pittore ferrarese allorché orgogliosamente affermava che per lungo tempo furono appesi alle pareti della sua stanza "metafisica" i capolavori dell'arte dechirichiana.
Il brano, notevole per le qualità letterarie che contiene, è anche assai prossimo (1924) alla irripetibile temperie della metafisica: "IN certe camere che guardavano sopra un taciturno e verde giardino chiuso da alte pareti, camere ch'io avevo fatto rimbiancare, ermetiche, un po' spettrali, furono appese, ancora ignote al mondo, lungi da occhi profani, le più belle pitture del periodo metafisico, Le Muse inquietanti, Ettore e Andromaca, I Ritornanti, e forse mai vissero come per i miei occhi IN certe desolate eppure armoniose sere d'inverno».
I sensi della metafisica, al di là dei suoi risultati artistici, che del resto de Pisis sapeva benissimo essere così differenti da pittore a pittore, appaiono già compresi e letterariamente risolti nell'uso lirico di quei termini che sono alla base di quella ricerca e di quella sperimentazione: il mistero, lo spiazzamento delle cose di ogni giorno, folgorate IN un tempo mitico ("ermetiche"), la qualità elitaria dell'esperienza, la sacralità che il quadro ispirava, l'ambiente, gli officianti dì un rito che si consumava nell'ambiente rarefatto delle camere del giovane scrittore.
Che si sia potuto parlare di aura metafisica per la grande scuola ferrarese del Rinascimento, dopo o in concomitanza con l'esperienza degli anni 1917-1919 (e Longhi, pur autore di una celebre stroncatura dell'opera metafisica di De Chirico, è amico e fautore delle esperienze di Carrà e, più tardi, estimatore della pittura depisisiana) è pur sempre un fatto importante non solo per Ferrara, ma per la consapevolezza critica di stare vivendo una grande stagione della letteratura e dell'arte.
Allora è giusto che accanto a Hermaphrodito di Savinio, al libro sulla pittura metafisica di Carrà, si debba parlare di una produzione letteraria come quella del giovane de Pisis, insostituibile non solo per capire la matrice culturale e lirica del pittore, ma anche la sua sostanziale tenuta come letterato e critico. Interventi come Pittura moderna del 1918 o De Chirico del 1919 sono importantissimi per capire ed evocare quell'aura - più che scuola - metafisica di cui fu partecipe e testimone.
Un lettore non sprovveduto troverà notevoli momenti di scrittura lirica, secondo i più avvertiti modelli fiorentini e romani nelle Prose pubblicate a Ferrara nel 1920 e dedicate alla memoria di Giovanni Boine; troverà nel Signor Luigi B., dello stesso anno, il primo tentativo di costruirsi un'autobiografia, secondo le ispirazioni e le aspirazioni della metafisica, ma rimarrà conquistato dalla Città dalle cento meraviglie, edita da Bragaglia nel 1921, il suo tributo a una città, Ferrara, vissuta e sentita come la radice non solo esistenziale, ma artistica e letteraria, della sua giovane avventura umana.
Se Ferrara non avrà il privilegio di divenire un'icona pittorica, sarà nella complessa vicenda di de Pisis il simbolo negato, ma sempre presente, di un esemplare destino d'artista.
Gianni Venturi