Leggere Ferrara

Scritto da  Alessandra Chiappini

Benedetto Gennari junior, Ritratto del marchese Cornelio Bentivoglio, Ferrara, collezione Cavicchi.Si rinnova l'impegno editoriale della Fondazione e della Cassa di Risparmio di Ferrara, associato a nuove iniziative di grande valore culturale.

La Fondazione della Cassa di Risparmio di Ferrara e la Soprintendenza  dei Beni Artistici e Storici dell'Emilia Romagna hanno istituito il "Fondo sul collezionismo ferrarese", con l'obiettivo di studiare il fenomeno del collezionismo nella città estense e indagare sulla destinazione dei dipinti che costituivano le raccolte ferraresi del passato.
Fra le iniziative in discussione, una collana di testi che comprenda fonti e cataloghi di collezioni, a partire da quelle di epoca estense,  come il catalogo ragionato della collezione Costabili, a cui si era dedicato il compianto Emanuele Mattaliano nei suoi ultimi anni, o gli inediti inventari delle raccolte Barbi-Cinti, Sacrati-Strozzi, Santini, Saroli-Lombardi e Vendeghini. Prima iniziativa del Fondo è la pubblicazione di un volumetto, uscito contemporaneamente al catalogo della mostra sul collezionismo: Quadri da stimarsi...


Si tratta di uno spoglio sistematico degli atti rogati da ottanta notai ferraresi nel XVIII secolo. Conservati presso l'Archivio di Stato, i documenti in questione sono inventari di eredità, spesso analiticamente descritte (stanza per stanza): nei casi più significativi, essi sono riportati in forma completa, mentre per altri si è optato per il regesto degli stessi. La compilazione di questo "repertorio" ha riguardato anche manoscritti conservati presso l'Archivio Storico Diocesano e la Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara: alla fine si sono potute conteggiare ben duecento collezioni d'arte, numero cospicuo ed emblematico.

Intendiamoci, non tutte sono da considerarsi quadrerie organizzate con spirito collezionistico: spesso si tratta infatti di semplici elementi d'arredo, inventariati alla stregua di mobili o schioppi, di scarso valore e in numero esiguo (si va dalle sei alle quarantanove menzioni). In questo caso, le "eredità" artistiche sono valutate pochissimo e i pezzi non riportano mai i nomi degli autori. Ma, aumentando il numero, aumenta anche la loro considerazione dal punto di vista critico e gli "stimatori", che coadiuvano il notaio nello stendere gli inventari, attribuendo a ogni pezzo un valore (in scudi, paoli e baiocchi) devono essere specialisti della materia e così vengono richiesti pittori, restauratori, incisori.


Si tratta di artisti di ampia fama; e, anzi, questa loro inedita carriera di stimatori permette d'arricchirne il profilo bio-critico. Per esempio, l'autore della celeberrima Pianta di Ferrara del 1747, Andrea Bolzoni, assiste quattro anni dopo il pittore Francesco Parolini nell'inventariare l'eredità del conte Modoni, composta anche da molte serie di miniature. Il Parolini aveva da poco stimato (1746) la più cospicua raccolta della città, lasciata dall'arcivescovo Girolamo Crispi, che annoverava ben 536 titoli: in quell'occasione fu a sua volta coadiuvato da un altro artista, il pittore Giuseppe Antonio Ghedini.
Questi risulta il più fine intenditore fra quanti compaiono nell'odierno libro (oltre che essere considerato dalla critica il migliore artista del Settecento ferrarese). Ciò è da attribuire forse anche alla sua attività di restauratore: le capacità di connoisseur erano quindi consolidate dalla pratica artistica, dagli interventi diretti su quelle pitture antiche che si trovò spesso a periziare, anche nelle sue vesti di docente presso l'Università di Ferrara o, per meglio dire, dell'Accademia di Disegno ad essa annessa.

 


Copertina di ''Quadri da stimarsiGhedini, così, talora si trova a formulare intelligenti attribuzione delle opere antiche, ma anche a rilevare, a proposito di un quadro attribuito a Caravaggio nella collezione Nappi, che esso era stato ritoccato dal Cozza: e alla pesantezza dell'intervento era forse da attribuire il valore relativamente basso (10 scudi) da lui dato al dipinto. Anche Giovan Battista Cozza, interessante pittore sacro (ma altresì restauratore delle celeberrime ante d'organo di Cosmé Tura in Duomo) compare nel libro nelle inedite vesti di perito (per un'eredità lasciata dal conte Giovanbattista Tassoni nel 1727), ma è spesso presente anche come autore collezionato.

Questo intersecarsi di soggetto-oggetto riguarda vari altri artisti del Settecento ferrarese: da Giacomo Parolini (padre di Francesco) all'ottimo paesista Giuseppe Zola (onnipresente nelle collezioni ferraresi, ma nel contempo stimatore dell'eredità Simonati), da Giuseppe Avanzi a Girolamo Gregori, da Maurelio Scannavini a Francesco Ferrari, da Ludovico Campalastri ad Alberto Mucchiati.

Ma è forse uno "specialista" del restauro, totalmente sconosciuto come pittore d'invenzione, a svolgere meglio il compito di perito: mi riferisco a quel Giuseppe Bazoli, restauratore del Garofalo che, nell'inventariare la collezione Del Monte (1734) giunge alla sottigliezza di attribuire un San Girolamo al Tintoretto (ma Domenico) e a riconoscere in vari quadri copie - e non originali - di Dosso, Guercino e Reni, evitando cialtronesche (e un po' disoneste) affermazioni, a cui altri più prestigiosi colleghi non sempre seppero sottrarsi.

In altri casi, essi peccarono di ignavia e basti solo osservare, in tal senso, quanto scialbamente rileva il pittore Francesco Pellegrini nell'inventariare l'eredità del marchese Guido Bentivoglio nel 1767: egli quasi mai identifica gli autori dei quadri, benché questi fossero ampiamente documentati dalla storiografia artistica e siano stati commissionati direttamente dagli antenati dell'estinto. Si pensi ai ritratti di Benedetto Gennari junior, come quella possente immagine del gottoso marchese Cornelio Bentivoglio - recentemente acquistata dal musicologo ferrarese Adriano Cavicchi presso gli eredi Bentivoglio a Venezia (ossia i Nani-Mocenigo) - o alle due versioni della Carità, commissionate al Guercino nel 1637 dallo stesso Cornelio.

Pellegrini poi non indica che l'autore delle «venti carte rappresentanti la vita di Bertoldo» fosse G. M. Crespi, né che i quattro grandi gobelin fossero stati disegnati dal grande Charles Le Brun. Ma l'utilità di aver pubblicato questi inventari non risiede solo nel fatto di aver ulteriormente lumeggiato la biografia degli artisti del Settecento ferrarese, bensì nell'avere soprattutto permesso di aggiungere importanti tasselli alla ricostruzione delle vicende di opere d'arte passate da luoghi pubblici a raccolte private o attraverso più di una di esse: scopo che si prefigge l'importante mostra La Leggenda del Collezionismo.

E così, alcuni dei quadri "stimati" nel Settecento, nel secolo successivo passarono alle importanti collezioni Costabili, Massari e Cavalieri: nei nostri inventari si ritrova, per far solo un esempio, la bella Orazione di Gesù nell'orto dell'Ortolano nella collezione Leccioli (valutata ben 60 scudi), che poi giunse nella Costabili, approdando infine nel 1874 nelle sale della Pinacoteca.

Circa l'ampiezza delle collezioni d'età barocca, sono da registrare felicissime sorprese in senso numerico; assieme al picco della raccolta Crispi, sono da citare perlomeno la Leccioli e la Bentivoglio (oltre 200 pezzi), la Avogli-Trotti (oltre trecento, anche se non tutti erano quadri), la Riminaldi (circa 400, suddivisi tra il palazzo di città e le ville di campagna, a Boara e Castelmassa). Questi dati confermano che il collezionismo d'arte non nacque a Ferrara solo dopo le soppressioni napoleoniche, ma che era ben vivo nel secolo precedente: certo, i raccoglitori del tempo aborrivano i sublimi esempi del Quattrocento, giudicati secchi ed eccessivamente "primitivi", ma acquisivano, comunque, i tardi pittori dell'officina ferrarese, a cominciare dallo Scarsellino. Oltre tutto, i nomi degli antichi pittori venivano spesso storpiati da periti e notai, tanto che il ricorrente Benvenuti si è stati incerti se interpretarlo come Benvenuto Garofalo o come un Benvenuti vero e proprio (considerando, per di più, che tale era la casata dell'Ortolano).

 


Giovan Battista Benvenuti, detto l'Ortolano, Orazione di Gesù nell'orto, Ferrara, Pinacoteca Nazionale.Al di là di queste incertezze e delle attribuzioni più eclatanti (Michelangelo, per esempio) sulle quali si deve fare la tara, è comunque innegabile la vivacità del collezionismo settecentesco. I nobili e i borghesi cittadini ricercavano nature morte, scene mitologiche, ritratti, boscherecce, marine, battaglie e "bestiami", privilegiando pittori emiliani, ma non disdegnando i veneti, i fiamminghi o i romani, intrecciando relazioni culturali e mercantili sinora mai indagate. Si pensi al caso di Alfonso Varano, grande poeta, autore delle neo-dantesche Visioni, nonché di alcune tragedie.
La sua collezione, stavolta stimata con cura dal Pellegrini, nel 1788 annoverava opere coeve che nascevano da stimolanti incontri intellettuali.


Si pensi al ritratto eseguito al poeta dallo spagnolo Vincenzo Requeno, restauratore di pitture murali e autore dei Saggi del ristabilimento dell'antica arte de' Greci e de' Romani, o ai quattro quadri sacri del pesarese Gian Andrea Lazzarini, che pubblicò una nota Dissertazione sopra l'arte della pittura. Le opere nella collezione dello scrittore ferrarese documentano quindi conversazioni di squisita accademia, considerazioni su letteratura e trattati sistematici (a base di composizione, disegno, colorito, espressione), curiosità illuministiche e notazioni sull'aspetto più squisitamente tecnico dell'operare artistico.

Il libro - prefato dal soprintendente Andrea Emiliani e completato da un indice dei nomi - può fornire quindi vari spunti critici, a cominciare dal "risveglio" della Ferrara settecentesca, un'inquieta società in bilico tra evoluzione e retaggio del passato. L'inedito versante collezionistico, oltre tutto, contribuisce a sgretolare ulteriormente lo stereotipo di una città chiusa in se stessa, gretta e taccagna, provinciale e miseranda. (Lucio Scardino)


Copertina di ''Ercole de' Roberti''. Andrea Faoro
Quadri da stimarsi... Documenti per una storia del collezionismo d'arte a Ferrara nel Settecento
introduzione di Andrea Emiliani
Ferrara, Liberty House per Fondazione CaRiFe, 1996

La figura di Ercole de' Roberti è, della triade pittorica ferrarese, quella che più faticosamente è stata depurata dalle incrostazioni fuorvianti depositate da una tradizione che aveva voluto riconoscere in Cosmé Tura e in Francesco del Cossa i personaggi principali di una scuola "ferrarese" autonoma, capace di alti raggiungimenti. Senza seguire - come benissimo fa Monica Molteni nel capitolo che rivisita i temi e i modi dei giudizi e delle ricostruzioni - le varie vicende, basti ricordare che ancora la mostra del 1933 continuava a dividere in due personaggi, Roberti e Grandi, il pittore. Anche recenti monografie e studi si sono azzardati in ipotesi spesso non dimostrate né dimostrabili, che in luogo di fare chiarezza hanno creato confusione e scompiglio.

Il senso della presenza e delle proposte figurative di Ercole, all'interno di un contesto culturale certamente non neutro ma segnato dalle forti intenzioni di personaggi che vanno da Prisciano a Tura, è stato - come meglio non si poteva - problematicamente detto da Lionello Puppi nell'introduzione al volume. Lo studioso storicizza l'affermarsi di Ercole impegnato con gli altri ferraresi a «tradurre in una rinnovata dimensione linguistica tutta "ferrarese", le suggestioni formali scaturite dalle molteplici presenze esterne, e a calarvi i fermenti di una complessa situazione culturale che poco spazio lasciava alla effusione di rassicuranti e pacate certezze di classicismo»; sottolinea l'originalità degli apporti del Roberti «che non è, si badi, arida e vacua calligrafia, e sia pur di altissima classe artigianale, per tutto quello che di sofferenza che il "ripiegamento" implica, e per l'inesauribile carica umana dell'artista; e che non è, allora, rinuncia e sconfitta».

All'interno del quadro critico solidamente tratteggiato da Puppi, il lavoro della Molteni si muove raggiungendo importanti e significativi risultati, a iniziare dalla innovativa proposta di un Ercole comprimario nel grande cantiere di Schifanoia. La decorazione della Sala dei Mesi di quel palazzo è l'unica testimonianza - ahimè lacunosa e frammentaria - che ci resta di quello che era l'imponente e sistematico apparato che si trovava nelle delizie urbane ed extraurbane. Sino a oggi, la presenza di Ercole era considerata minore e laterale; ci si deve ora confrontare con la motivata ricostruzione della Molteni, che apre un fecondo spazio al dibattito e alla verifica.

 


Ercole de' Roberti, Ginevra Bentivoglio, Washington DC, National Gallery of Art.Muta, in conseguenza, anche la considerazione del rapporto con Francesco del Cossa, dal quale il pittore più non dipende, anche se «la frequentazione della bottega di Bologna condusse Ercole ad addolcire i toni aspramente turiani degli esordi, conferendo alle sue figure un più naturalistico risentimento plastico e accentuando l'attenzione per i problemi della resa prospettica e della coordinazione spaziale degli episodi del racconti». Ritornato a Ferrara, nella pala lateranense Ercole si mostrerà, insieme, "creato" da Tura e Cossa, ma «inaugura un nuovo linguaggio e introduce in città il modulo rinascimentale delia pala unificata, elaborandone una versione indipendente e anticipatrice».

Molti sono gli episodi sui quali, originalmente, si ferma l'analisi della Molteni: basti ricordare la decorazione della Cappella Garganelli nella cattedrale bolognese, della quale rimane solo un frammento con il volto della Maddalena piangente, ora custodito nella Pinacoteca di Bologna.
Nel 1599, il crollo dei pilastri della navata centrale della chiesa è l'inizio delle distruzioni che coinvolgono gli affreschi del Roberti, sino alla loro totale scomparsa. Vasari, cha aveva potuto vederli, ne fa una descrizione entusiasta; Pietro Lamo riporta il giudizio di Michelangelo che, guardandoli, avrebbe esclamato «è una meza Roma de bontà».

La fama e la considerazione di tale eccezionale opera è documentata dalle molte copie che ne consentono una ricostruzione strutturale; perduta per sempre - sia consentito esprimere impotente dolore per quanto accaduto - la straordinaria qualità formale dei dipinti, resta la possibilità di riconoscere l'uso, da parte di Ercole, delle «conquiste più avanzate del Rinascimento» in termini di costruzione sia spaziale, sia narrativa.

L'autrice si occupa anche della ridefinizione del "corpus" grafico e rimette ordine nel catalogo dei dipinti - giustamente espungendone molti - e lo arricchisce una appendice di documenti. Alcune osservazioni si possono fare per quanto riguarda la bibliografia, che in alcuni casi preferisce, inspiegabilmente, edizioni notoriamente poco affidabili a quelle più comunemente utilizzate da storici e ricercatori.

Il volume, che ai molti altri pregi unisce quello della ricchezza e della leggibilità della documentazione iconografica, si pone come non eludibile strumento di lavoro non solo per chi vorrà di nuovo occuparsi del Roberti, ma per tutti coloro che in futuro si occuperanno della pittura ferrarese della seconda metà del XV secolo. (Ranieri Varese)


Ercole de'Roberti, Madonna con il bambino e i santi, Milano, Pinacoteca di Brera.Monica Molteni

Ercole de' Roberti
con prefazione di Lionello Puppi
Milano, Amilcare Pizzi per CaRiFe, 1995.

Se un miniatore annovera tra i propri committenti personalità esigenti e raffinate come Leonello, Borso ed Ercole I d'Este, Ludovico Gonzaga, Federico da Montefeltro, Leonardo Sanudo, i della Rovere, oltre a potenti istituti religiosi quali la Certosa e la Cattedrale di Ferrara, non può non significare che l'artista in questione interpreta con grande efficacia la sensibilità estetica e il gusto pittorico laico e religioso imperanti nel centro e nel nord dell'Italia rinascimentale. Il fatto, poi, che egli trovi spazio e riscontro encomiastico anche nei distici degli umanisti contemporanei è sanzione del particolare prestigio da lui goduto anche presso gli intellettuali, situazione di certo non proprio ordinaria.

I panni di tale fortunato miniatore sono vestiti da Guglielmo Giraldi, ferrarese, la cui attività è documentata dal 1445 al 1490. Egli si forma e agisce in quello straordinario crogiolo di modelli e forme miniaturistiche al quale forgiano i propri strumenti, fra gli altri, artisti quali Matteo de Pasti, Marco dell'Avogaro, Taddeo Crivelli, Franco da Mantova, Matteo da Milano, Tommaso da Modena, e che produce, quale carta di identità connotante e capolavoro indiscusso, la Bibbia di Borso d'Este.

 


Copertina di ''Guglielmo Giraldi miniatore estense''Proprio a Guglielmo Giraldi è dedicato il secondo dei volumi monografici relativi alla miniatura estense nell'ambito del programma frutto della collaborazione tra l'Istituto di Studi Rinascimentali e la Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara.
Non va dimenticato come a tale importante impresa si sia di recente affiancata la meritevole riproposizione in edizione anastatica della citata Bibbia appartenuta a Borso d'Este e attualmente conservata presso la Biblioteca Estense di Modena. E va pure ricordato che l'attenzione di cui ora finalmente gode tale importante tema è suscitata e tenuta viva con intelligente determinazione da Ranieri Varese e Giordana Mariani Canova, coordinatori dell'Archivio per la Storia della Miniatura, presso l'Istituto di Studi Rinascimentali, che ha trovato in Franco Cosimo Panini un editore attento, sensibile e tecnicamente ineccepibile.

Figlio di un sarto detto "Magro" - e come "del Magro" Guglielmo veniva spesso definito - il Giraldi padroneggia, per così dire cromosomicamente, i segreti della concreta tradizione culturale artigiana, facendo tesoro della quale abilmente sa evolversi verso i modi di un'arte colta, intelligente e raffinata, in cui abilità tecnica e profonda conoscenza dei temi da restituire miniaturisticamente costituiscono gli ingredienti della sua originalità interpretativa. Le frequentazioni con committenze così varie, laiche e religiose, creano poi le premesse e le condizioni della sua peculiare libertà intellettuale e operativa rispetto ai modelli miniatori più diffusi.


Guglielmo Giraldi, La nascita di Ercole, in Plauto, Comoedie, Madrid, Biblioteca Nacional.Tutto questo affina anche la sua intraprendenza, che si esprime nel progressivo sviluppo dell'attività della sua bottega e nell'incremento del numero degli aiutanti, nonché nell'evoluzione prettamente commerciale della sua imprenditorialità: negli ultimi anni di vita egli è anche cartularius, cioè commerciante di libri.
Attento lettore di Piero della Francesca, il Giraldi unisce abilità e attenzione nell'interpretare la pagina scritta attraverso il proprio percorso di immagini, sempre connotato anche da una leggibilità autonoma, eppure niente affatto contraddittoria rispetto al testo.

Nelle architetture prospettiche delle sue vedute - rese ben apprezzabili nel volume in questione grazie ad abili ingrandimenti dei particolari - nella rappresentazione delle scene di semplici attività quotidiane - evidentemente avvertite come molto prossime alla sua esperienza di vita, più ancora che in quelle raffiguranti situazioni e ambienti aulici -, nella dolcezza mistica e nell'inventiva dei motivi fantastici e grotteschi di cui fregia i capilettera, si apprezza la sua straordinaria versatilità, la sua attenzione ai modelli ferraresi, ma anche la peculiarità del suo contributo all'evoluzione dell'arte rinascimentale.


Guglielmo Giraldi, Antifonario, Ferrara, Museo Civico d'Arte Antica.Di lui rimane un ricco patrimonio miniatorio, diffuso in tutta Europa, dal Virgilio della Bibliothèque Nationale de Paris, al Plauto della Biblioteca Nacional de Madrid, ai manoscritti scritturali e liturgici per la Certosa di Ferrara, oggi divisi tra i Civici Musei d'Arte Antica di Ferrara e la Biblioteca Estense di Modena, a quelli per la cattedrale ferrarese, ai prestigiosi codici - umanistici e religiosi - conservati a Modena, allo splendido Dante della Biblioteca Apostolica Vaticana, al Plinio della Nazionale di Torino, al Lattanzio della Marciana di Venezia, allo Strabone della Bibliothèque Municipale di Albi, che contiene una delle non frequentissime raffigurazioni dell'umanista Guarino Veronese, cui la cultura del nostro Rinascimento tanto è debitrice e al quale lo lega, ricambiato, un senso di profonda stima.

Ha, ricambiato, un senso di profonda stima, l'importante tappa del percorso miniatorio ferrarese, dunque, che il collaudato sodalizio tra Giordana Mariani Canova e Federica Toniolo ha segnato, fornendo una ulteriore preziosa fonte di studio e di godimento estetico, in attesa di una nuova monograia tematica, che attendiamo in tempi prossimi. (Alessandra Chiappini)


Madonna col Bambino e i santi Giuseppe e Francesco.Giordana Mariani Canova

Guglielmo Giraldi miniatore estense
con catalogo delle opere a cura di Federica Toniolo
Modena, Panini Editore per Fondazione CaRiFe, 1995

Sono trascorsi più di trentanni da quando, nel 1965, la Cassa di Risparmio di Ferrara pubblicò l'ultima monografia in lingua italiana su Dosso Dossi: il Dosso e Battista ferraresi di Amalia Mezzetti. Da allora, sono stati ritrovato alcuni dipinti di straordinaria bellezza, tra i quali emerge la Allegoria della Fortuna recentemente acquistata dal Getty Museum di Los Angeles; purtroppo, comunque, la ricerca archivistica non è stata altrettanto fortunata e, nonostante gli sforzi, in questo periodo non è stato ritrovato alcun documento in grado di gettare una nuova luce sull'annosa questione della cronologia di Dosso o su quella, altrettanto dibattuta, degli esordi di Battista.

Il più importante tra i documenti riguardanti Dosso pubblicati negli ultimi anni si riferisce al Santi Sebastiano, Giovanni Battista e Girolamo nel Duomo di Modena (si veda C. Giovannini, su Prospettiva, ottobre 1992), una delle pochissime opere di questo artista databili con certezza (1522).

Per questa ragione, nella sua nuova, bellissima monografia in due volumi, Alessandro Ballarin fonda le proprie analisi dello sviluppo stilistico di Dosso non su fatti di recente scoperta, ma su un riesame particolarmente attento di fatti già noti, dedicando un'attenzione speciale alla cultura iconografica alla quale il pittore faceva riferimento. Una delle tesi centrali del libro è che Dosso non sia stato soltanto, tra quelli della sua generazione, uno dei maggiori pittori attivi nella valle Padana, ma anche il più preparato a rispondere al frenetico ritmo di cambiamento artistico che caratterizzava i centri maggiori, come Venezia, Firenze e Roma.

Per questa ragione Ballarin, assai più approfonditamente di quanto abbiano fatto gli storici che prima di lui si sono dedicati a Dosso, si preoccupa di definire quali siano state le opere dei maggiori artisti "stranieri" - come Michelangelo, Raffaello, Tiziano e Fra' Bartolomeo - alle quali Dosso è stato esposto e, precisamente, quando.

 


Dosso Dossi, Allegoria della fortuna, Malibu, Paul Getty Museum. Su questa base, l'autore è in grado di formulare una convincente distinzione stilistica e cronologica, per esempio, tra le tre pale d'altare della prima maturità di Dosso, che venivano tradizionalmente considerate coeve (intorno al 1522), ma che Ballarin colloca a distanza di due o tre anni l'una dall'altra, in risposta a cambiamenti di stimoli esterni. L'analisi della prima della serie,  la pala dell'altare di Codigoro che oggi è possibile ammirare alla Galleria degli Uffizi di Firenze, lo porta a concludere che, oltre alla unanimemente accettata visita a Roma del 1520, Dosso debbe essersi recato nella città capitolina anche in epoca precedente, intorno agli inizi del 1517.

Dallo studio delle opere attribuite al periodo compreso tra il 1517 e il 1522, Ballarin giunge alla conclusione che non c'è più spazio, nell'opera di Dosso, per i due pannelli di predella conservati a Palazzo dei Diamanti (la Natività e l'Adorazione dei Magi), databili su base deduttiva intorno al 1519; in conseguenza, le attribuisce a un ignoto atrista della cerchia di Dosso. Sebbene questa attribuzione implichi una ulteriore riduzione del già esiguo numero di opere di Dosso rimaste a Ferrara, si deve purtroppo ammettere che la conclusione di Ballarin è esatta.
Al contrario, non vedo, personalmente, alcuna buona ragione per concordare con la sua attribuzione della Agonia nell'orto recentemente acquisita dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara dalla collezione Sacrati Strozzi e inclusa nella mostra La Leggenda del Collezionismo, a Battista invece che a Dosso. Allo stesso modo, ritengo che la mancanza di un ritratto a tutto tondo della personalità di Battista possa essere considerata come uno dei - peraltro pochi - difetti del libro.

Quest'opera rappresenta un contributo importantissimo non solo allo studio di Dosso, ma anche a quello della pittura ferrarese del primo Cinquecento in generale. Un capitolo su Boccaccio Boccaccino dipinge la scena degli sviluppi della pittura ferrarese nel primo decennio del XVI secolo e, nel rispetto dello spirito dell'intrapresa, lo sviluppo stilistico di Dosso viene allacciato e confrontato con quello dei suoi contemporanei ferraresi, Garofalo e Ortolano. Il testo di Ballarin è utilmente supportato da un magnifico impianto iconografico che comprende più di duecento immagini a colori e mille in bianco e nero, tutte di ottima qualità. (Peter Humfrey)

Alessandro Ballarin
Dosso Dossi. La pittura a Ferrara negli anni del ducato di Alfonso I (2 tomi)
Padova, Arti Grafiche Bertoncello per CaRiFe, 1994-95