Il ritratto del territorio ferrarese che Gregorio XIII ammirava, insieme a tutte le altre terre d'Italia, mostra un luogo in gran parte paludoso e che sarebbe diventato fertile grazie proprio a quelle opere che il nuovo "proprietario" avrebbe proseguito e ulteriormente sviluppato. Il secondo "ritratto" è quello che Giovanni Battista Aleotti dedica a Clemente VIII, nel 1603. Sono passati cinque anni dalla devoluzione al papa di una parte - la parte più prestigiosa - dello stato estense, e manca un anno alla fine dei lavori per il fatidico taglio del Po a Porto Viro (che i veneziani stanno ultimando). Il "Polesine di Ferrara" sta subendo la sua ultima, sconvolgente metamorfosi.
Anche in questa corografia, il Bosco Eliceo non oltrepassa il Po di Primaro. La Sacca di Goro è in gran parte occupata dalle acque, il porto dell'Abate è nel mare. Due fatti straordinari - il passaggio imminente di proprietà e il cambiamento in atto del corso del Po - condizionano queste immagini. L'assenza del Bosco è forse voluta. Il Bosco, con il Castello della Mesola e il recinto (grande come il perimetro delle Mura di Ferrara) resteranno agli Este fino a metà Settecento.
Non è necessario sottolineare troppo al pontefice questa presenza, ormai è un luogo marginale a tutto e a tutti. È un peccaminoso ex luogo di delizia i cui fasti stanno diventando un vago (lontano) ricordo. La sua dettagliata descrizione potrebbe apparire inopportuna, all'uno come all'altro pontefice. Nel seicentesco Atlante del ferrarese di Alberto Penna, protetto dalle dune, si nota il "bosco detto la Giliola". Non è una carta perfetta, così come non lo saranno quelle settecentesche, specie le prime, quando il Po esondava allagando e modificando giorno dopo giorno il territorio. Il Bosco è all'interno di una terra in movimento. I confini tra la terra e l'acqua mutano continuamente. I canali s'intersecano o sprofondano; le valli si allungano o si allargano e sembrano moltiplicarsi. Difficile, in questo marasma, fissare nella cartografia dei confini precisi.
Il Bosco, tuttavia, incomincia proprio in queste carte settecentesche a essere una presenza. Un punto fermo.
E' noto: una mappa genera un'altra mappa. È sempre stato così, fino a quelle in cui le riprese computerizzate si sono fatte dal satellite. In queste ultime è difficile distinguere il Bosco: i colori non corrispondono al vero e ciò che appariva "grande", tanto da differenziarlo da tutti gli altri, è diventato, nelle cartografie attuali, quasi irriconoscibile. Il Boscone ora sembra la sinopia di se stesso. È solo una questione cartografica?
L'occhio (post romantico e/o umbertino) di Antonio Beltramelli così lo descrive nel 1905: «II taglio della Falce è una grande e tranquilla roda in cui l'acqua è appena increspata dal vento come in un lago; si distende per estensione vastissima ed è coronata a nord dal Bosco della Mesola. Ancora un traghetto, quello della Falce, ed ecco, la meraviglia dell'antica selva si apre ad un tratto nel suo incantesimo dolce e indimenticabile». Beltramelli ha letto l'Ariosto e il Tasso. Cerca le radici del Gran Bosco.
Lo considera un prolungamento della Pineta di Ravenna, lo paragona alla "selva oscura": «... a volte ci si perde in sì spessa trama di rami e di fogliame che il cielo scompare ai nostri occhi, nascosto da impenetrabili domi di verdure... Specchi di mare e antichi silenzi di alberi centenari, ecco la selva della Mesola».
Coglie infine il suo fascino: «le acque innamorate rispecchiano i loro immobili compagni del silenzio». L'acqua e l'albero hanno dato e continuano a dare vita al Bosco.
Il Bosco vive ancora, ma non appassiona più. Dopo Bassani, neppure i letterati lo guardano. Non ascoltano più il suo silenzio o, meglio, la sua voce. Oggi - e non tanto nelle foto o nelle carte computerizzate, quanto dall'esterno - l'immagine del Bosco appare appannata. Solo all'interno - e non da qualsiasi parte - si avverte ancora la sacralità del luogo.
Non c'è dubbio: è difficile, oggi, descrivere il Bosco, provare emozioni, restarne incantati. Quasi impossibile incontrare la fata Morgana. Ci sono ancora i cervi, si vedono volare gli aironi... ma il bosco non è più com'era ancora alla metà di questo secolo. Lo "spazio" non è più quello. E non solo perché il tempo è cambiato. Lo spazio non è più quello di prima perché manca l'acqua. Un poeta, Josif Brodskji, ha spiegato il significato dell'acqua: «L'acqua,» ha scritto a proposito di Venezia, « è uguale al tempo». L'acqua offre alla bellezza il suo doppio.
Toccando l'acqua, il Bosco si raddoppiava, lo spazio si dilatava. Quando c'era l'acqua in Valle Falce il Boscone sembrava una dolce fortezza verde. Quasi un'anomalia. Visti dal mare, i grandi pini facevano impressione, nascevano dall'acqua.
Le recenti bonifiche e gli argini cementizi messi proprio a confine del mare hanno eliminato la sua specificità. Inutili strade hanno diminuito la sua grandezza verso nord: la magnificenza del Bosco era imposta dall'acqua. Senz'acqua, dicono gli esperti, il Bosco soffre.
Non è necessario essere catastrofisti per preoccuparsi del futuro del Delta. L'antica selva che per tanto tempo ha costituito un punto fermo nel paesaggio deltizio rischia di diventare un carto-fotografico o letterario ricordo. Il "tenimento" della Mesola, celebre per le bellezze del Bosco, delle valli, del mare e per le "soddisfazioni della caccia e della pesca", era la più frequentata delizia di Alfonso II. Resterà agli Este fino al 1758, quando passò alla real casa d'Austria che lo vendette a Pio VI. Con la fine del dipartimento della Repubblica Cisalpina ritornò di proprietà pontificia, che lo cedette all'Istituto Bancario di Santo Spirito. Fu venduto nel 1919 alla Società per la Bonifica dei Terreni Ferraresi. Passato all'Azienda di Stato per le Foreste Demaniali nel 1952, venne trasfigurato con la bonifica di valle Falce alla fine degli anni Sessanta.
Dei 1500 ettari che occupava, ne sono rimasti poco più di 900. Il Bosco della Mesola non è un simbolo, un luogo della fantasia. E' monumento di storia naturale. E' una presenza insostituibile in un paesaggio (che era) senza confronti. Oggi bisogna imporre la sua sopravvivenza, come l'acqua, in passato, aveva imposto la sua bellezza. Si dice dalle parti di Comacchio che un cane vive 9 anni. La filastrocca continua affermando che un cavallo dura 3 cani, ossia 27 anni. Un uomo, 3 cavalli: 81 anni. Un corvo, 3 uomini: 243 anni. Un cervo dura tre corvi: 729 anni. Per il Bosco nessuno si è mai chiesto quanto potesse durare.
Il Bosco era considerato sacro, cioè eterno. Ma, nel nostro secolo, quanto dura un bosco secolare? La fine del nostro secolo è molto vicina. Quando venne inaugurato il Castello, il Tasso paragonò questo luogo al Paradiso. Fra la "pigneta" di Ravenna e il Gran Bosco della Mesola - vicino alla foce del Po di Primaro - c'era il Bosco Eliceo o Elisio, toponimo di un altro paradiso: quello pagano. Tutte le carte prima citate lo riportano. Nelle carte di questo secolo non ce n'è più traccia.
Non è necessario essere catastrofisti per preoccuparsi. Non possiamo dimenticare che il nostro tempo ha cancellato il tempo e lo spazio del Bosco. Prosciugando l'acqua delle valli abbiamo trasformato il silenzio in ultrasuono. Non riusciamo a percepirlo. Crediamo ancora che sia la voce dell'acqua e degli alberi, così come crediamo che il Bosco sia ancora lì, come sempre. Invece, per vederlo e per conoscerlo, dobbiamo cercarlo nella cartografia storica. Eppure, volendo, il nostro tempo, che è anche il tempo della scienza e della tecnica, potrebbe restituirci il Gran Bosco. Per realizzare il restauro ambientale non è necessario andare sulla Luna o dentro il pulviscolo di Plutone.