Con questi interventi, disegnati per la prima volta negli anni Settanta e progressivamente affinati con diverse riforme, l'Unione Europea assume una visione di integrazione e coesione in cui il territorio diviene elemento necessario e privilegiato dell'azione comune.
La Comunità ha affrontato questi temi secondo un approccio pragmatico, che si è sviluppato nel tempo: dalla gestione di aree limitate di crisi industriale, verso lo sviluppo di vaste aree sia interne all'Unione, sia di paesi terzi che considerano l'Europa come proprio riferimento nel nuovo ordine economico mondiale.
Sia in termini di reddito, sia di disoccupazione, di infrastrutture, di servizi, l'Europa risulta infatti ancora oggi segnata da notevoli disparità locali. Tali disparità sono elevate se misurate a livello nazionale, ma risultano gigantesche confrontando diverse regioni. In termini di prodotto interno lordo pro capite (espresso in potere d'acquisto), nei primi anni Novanta, e non tenendo conto dell'unificazione con la ex Germania Est, la disparità tra nazioni era tra il 54 della Grecia e il 112 della Germania, fatta 100 la media europea; ma il divario si allargava se si confrontavano la regione di Amburgo e la Macedonia.
La mappa è altrettanto complessa se si guarda alla disoccupazione: la media europea è attorno all'11%, con un campo di oscillazione che spazia tra l'8,6% della Germania e il 24% della Spagna, ma raggiunge ampiezza eccezionale se si confrontano i dati relativi ai giovani, inferiori all'8% in molte regioni tedesche e superiori al 50% in tutti i paesi meridionali. Analogamente, le differenze nelle dotazioni infrastrutturali evidenziano la presenza di una vasta area ad alto sviluppo e di una serie di periferie sempre più marginalizzate. L'esperienza dimostra che non esistono automatismi di riequilibrio territoriale che conducano a una equa distribuzione della ricchezza, così come non esistono politiche di incentivazione che possano compensare svantaggi localizzativi dovuti alla carenza di infrastrutture.
Per questo la Comunità ha preferito adottare il termine "politiche strutturali" in sostituzione di "politiche regionali", significando che le azioni sono volte non alla compensazione di svantaggi localizzativi, ma alla rimozione delle cause strutturali della relativa arretratezza di molte regioni europee.
Dal punto di vista del metodo, comunque, politiche di convergenza reali implicano che le azioni abbiano l'obiettivo di creare il maggior numero di posti di lavoro stabili nel tempo, qualificati e in grado di catalizzare ulteriore sviluppo dell'area. Per questo vi è una grande attenzione al miglioramento delle condizioni ambientali, così da permettere una trasformazione delle condizioni di base dello sviluppo; dunque una grande attenzione alla possibilità di far crescere e prosperare gruppi di piccole e medie imprese.
In questo senso, tali politiche necessitano della partecipazione e cooperazione di tutte le istituzioni coinvolte, dalle imprese ai governi centrali e regionali, dalla municipalità alle parti sociali, alle strutture educative, all'Università.
Questo, tuttavia, è l'aspetto più difficile perché spesso il ritardo economico è il risultato di frammentazione e conflittualità nella comunità locale, cosicché il vero obiettivo da raggiungere è indurre tutti i soggetti responsabili a trovare obiettivi comuni. L'entrata nella Comunità dei cinque Lander tedeschi orientali ha alterato notevolmente la distribuzione dei fondi, abbassando notevolmente le soglie di riferimento delle aree in ritardo strutturale.
La dimensione dell'area è comunque significativa per delineare la natura stessa degli interventi: l'Obiettivo 1 considera aree definite a livello regionale, l'Obiettivo 2 aree a livello comunale, considerando di dover agire su situazioni specifiche di ristrutturazione industriale.
La riforma del 1988 e la revisione del 1993 hanno definito cinque principi per l'attuazione delle azioni comunitarie e l'utilizzo dei fondi strutturali:
1. concentrazione, cioè si deve ricorrere a fonti diversificate per ottenere un volume complessivo di finanziamenti in grado di indurre significativi cambiamenti strutturali;
2. programmazione, ovvero necessità di introdurre procedure di specificazione non solo dei progetti, ma anche delle relative modalità di gestione;
3. compartecipazione, ovvero coinvolgimento a diversi livelli di tutti i soggetti che hanno responsabilità di governo o di rappresentanza nell'area di intervento;
4. addizionabilità, cioè partecipazione degli Stati nazionali al finanziamento, in misura non inferiore a quella comunitaria;
5. sorveglianza e valutazione, cioè introduzione di strumenti atti ad analizzare le situazioni, valutarle ex ante ed ex post, ridistribuendo le funzioni verso il basso e rispecificando le relazioni tra le diverse autorità pubbliche.
Questa impostazione ha molti pregi ma presenta anche molti rischi: se, da un lato, le politiche strutturali hanno di fatto ridisegnato le funzioni amministrative, dando ai Comuni una funzione di analisi per la politica economica del proprio territorio, specificando l'obbligo della cooperazione tra le diverse autorità e ridefinendo i compiti per una programmazione nazionale, da tempo caduta in disuso, dall'altra hanno generato una burocrazia dedita alle funzioni di gestione delle azioni di sviluppo, con tutti gli aspetti negativi che questo comporta.
Come utilizzare questa opportunità offerta a Ferrara? Secondo l'impostazione comunitaria, la politica di sviluppo è innanzitutto un atto di programmazione delle risorse che permette di concentrare in uno sforzo comune - sostenuto da fondi diversi secondo modalità verificabili e valutabili - le diverse amministrazioni pubbliche (Comune, Provincia e Regione) e le forze sociali. Vi è quindi, innanzitutto, un metodo che qualifica l'azione collettiva. E poi ci sono i contenuti. L'Unione Europea mette a disposizione risorse per le imprese e il territorio, ma queste non possono essere distribuite a pioggia; possono essere concesse solo se funzionali all'esperimento di un progetto ben delineato volto a far compiere all'area un salto di qualità nell'organizzazione economica.
Nel nostro caso specifico, bisogna ricordare che esiste innanzitutto la necessità di consolidare un tessuto industriale fragile, composto di imprese piccole, recenti e largamente legate a rapporti di subfornitura. Questa linea richiede che le imprese possano consolidarsi nella qualità, quindi bisogna favorire processi di aggregazione, ma anche di qualificazione. Quindi, un problema di credito per gli investimenti, ma la necessità di spingere verso una "messa a livello" dell'intera struttura industriale delle imprese di subfornitura del ferrarese, creando le condizioni affinchè possano operare con livelli di qualità certificabili.
La creazione di una borsa della subfornitura è quindi un insieme di interventi coordinati che dovrebbe tendere ad ampliare il mercato per le nostre imprese locali, aiutandole anche a riposizionarsi in comparti a maggiore qualificazione.
Egualmente, la varietà di imprese meccaniche, chimiche, tessili, agroindustriali debbono potersi riposizionare disponendo di un accesso più diretto all'innovazione di prodotto e di processo: il Consorzio con l'Università deve poter offrire alcuni esempi significativi di trasferimento tecnologico verso le imprese minori, ma nel contempo rendere evidenti due aspetti finora non sufficientemente chiariti.
Il primo riguarda le imprese stesse: a Ferrara, in seguito ai processi di ristrutturazione che hanno toccato le imprese maggiori, sono presenti massicciamente imprese multinazionali, che potrebbero fungere da motore di innovazione e di sviluppo, da controparte significativa per accelerare le capacità innovative dell'intero sistema industriale locale. Il secondo riguarda l'Università, nell'ambito della quale esistono presìdi di ricerca e accumuli di tecnologia che possono dare origine a nuova industria nei settori a tecnologia avanzata. Questi due aspetti possono permettere di definire ipotesi di crescita non solo limitati al consolidamento dell'industria attuale, ma anche spinte verso la creazione di attività in nuovi settori.
La costituzione di un club delle imprese high tech, che coinvolga l'Università e il Consorzio Ferrara Ricerche può rappresentare il luogo di un consenso necessario per sostenere sperimentazioni in questo senso. Tutto questo richiede però un investimento il risorse umane e una conoscenza delle nostre effettive capacità.
L'avvio delle nuova Facoltà di Economia può essere di sostegno in questa fase, così come la recente creazione di un Istituto internazionale per le politiche di sviluppo che, insieme all'Università di Birmingham - anch'essa operante in un'area a Obiettivo 2 e con grande esperienza in interventi nelle aree industriali - sta avviando la compilazione di una mappa delle competenze esistenti dentro l'Università, per poi eventualmente estendere tale analisi alle imprese e alle amministrazioni. Tale istituto, inoltre, potrebbe partecipare alla definizione di progetti formativi per disegnare profili di imprenditori privati, ma anche, e soprattutto, pubblici in grado di gestire complessi progetti di innovazione. »