Uno di questi monumenti, ma non fra i più noti, è l'Oratorio di Santa Maria Annunziata, sito in via Borgo di Sotto. Ospitava, sino alle soppressioni napoleoniche, la Confraternita della Buona Morte la quale dava, in antico, il nome alla strada della Morte. I confratelli avevano come compito principale e precipuo quello di assistere i condannati.
In un vicolo laterale venivano bruciati, il giorno di San Giovanni, i lacci che erano stati usati per le esecuzioni. «La prospettiva dello stradellino contiguo con lo scheletro della morte la quale strigne una falce, et un horologio, è di Francesco Ferrari» (Brisighella). L'immagine è scomparsa, ma non il monito. Sarebbe facile e non privo di motivazioni proporre il parallelismo tra la narrazione evangelica nella quale alla Vergine Maria viene annunziato il divino concepimento e la nascita di un figlio che porterà la salvezza all'umanità cancellando l'antica colpa di Eva, e la morte alla quale si preparavano i condannati che, tramite il pentimento, poteva essere occasione di nuova ed eterna vita. Ma esula dal nostro compito e preferiamo evitare meandri incerti e un poco ambigui; tentiamo invece di ricostruire la storia dell'edificio e di riconoscerne le opere.
«Fu prima oratorio superiormente fabbricato da Nicolò Zipponari, cittadino ferrarese l'anno 1370, ma per comodo de' fedeli fu dappoi nell'anno 1613 ridotto in una vaga chiesa a pian terreno, ornata di nobili altari» (Brisighella). Un recente restauro (1950) ha ripristinato l'originaria aula unica sopraelevata, consentendo così una più corretta visione degli affreschi del XVI secolo. L'aspetto attuale nasce dagli interventi dell'architetto ferrarese Giovan Battista Aleotti e - nel 1728 - dei fratelli Vincenzo e Angelo Santini. In conseguenza di tali interventi si sposta il portale marmoreo e si modifica l'ingresso; all'interno, dieci grandi riquadri con le Storie della croce sostituiscono, nella seconda metà del XVI secolo, la precedente decorazione quattrocentesca, della quale restano testimonianze archivistiche che è bene citare.
Nel 1486 sono registrati pagamenti a Gabriele Bonaccioli, «per le sue dipinture» e a Costantino di Gerardo da Vicenza, «per dipinzere tavole». Il 22 aprile 1487 vengono dati «12 soldi marchesani a Domenico Conchella per pagare uno quadro de legno da farli depinzere la immazine de Nostra Dona de li iustiziati», nello stesso anno ancora al Bonaccioli per una tavola con la Vergine, e a Ettore Bonacossi, «per havere depincto le carte e le teste da morto per li dopieri del Corpo di Christo».
Nel 1490, Ettore Bonacossi viene pagato per avere dipinto il gonfalone della confraternita. Nel 1492, Bernardino Fiorini "depintore" riceve un compenso «per fare il cielo sopra la nostra cruxeta, zoè per depinzerlo». Si aggiungono compensi al Giraldi e ad altri per miniare codici (Franceschini). I dati emersi, cospicui ma sicuramente non completi, ci fanno immaginare una situazione del tutto diversa da quella che oggi conosciamo. Quando si attua, nel Cinquecento, il rinnovamento della chiesa, non viene toccato l'altare. È questo un caso fortunato, perché dietro il manufatto ligneo si è conservato - superstite riapparso nel 1835 - un alto frammento dei più antichi affreschi, il quale non coincide con alcuno dei citati documenti.
L'importanza della Resurrezione di Cristo è apparsa immediata a chi si è occupato della pittura ferrarese, da Adolfo Venturi - il quale per primo ne ha indicato la qualità - a Carlo Ludovico Ragghianti, il quale ha saputo dimostrare l'autografia di questo ancora anonimo maestro sia negli affreschi della Cappella di Vignola, sia nell'ex-voto dei cavalieri Coane, ora a Parigi al Musée des Arts Décoratifs: «La sua opera s'inserisce nella civiltà ferrarese con un'autorità che non ha bisogno, credo, d'essere sostenuta, per l'evidente altezza dei risultati d'arte, e modifica ulteriormente il quadro delle valenze e delle relazioni di cultura tra i centri maggiori dell'Emilia, Parma, Modena, Bologna e Ferrara, e tra questi e quella parte del "lombardo paese" che comprende la Verona scaligera, la Mantova gonzaghesca, ma anche per i primi decenni del secolo XV la Padova carrarese e dal 1405 veneziana».
Mutati i tempi, salvaguardando una iconografica corrispondenza con le finalità della confraternita, a metà del Cinquecento fu affidata a un gruppo di pittori ferraresi, «rappresentanti di una affaticata coiné post-garofalesca, postcarpiana, e inguaribilmente arcaizzante» (Arcangeli), l'esecuzione di un organico progetto di sostituzione della precedente e ormai non più attuale decorazione. Il tema è quello della Croce, presentata agli assistiti come simbolo della salvezza eterna raggiunta attraverso la sofferenza; la maggior parte degli studiosi ha voluto indicare un legame con la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, ma non ci pare necessario risalire al testo medievale. Diffusissimi erano infatti i volgarizzamenti e i centoni che narravano la Storia della Vera Croce. Probabilmente da uno di questi la confraternita avrà tratto ispirazione per assegnare i soggetti ai pittori.
Le dieci rappresentazioni vanno così divise: Sebastiano Filippi, Cristo e i seguaci della Croce; Cesare Filippi, Battesimo di Costantino; Bottega dei Filippi, Il contatto della Croce resuscita un morto; Bottega dei Filippi, Invenzione della Vera Croce; Bottega dei Filippi, Deposizione della Croce; Nicolò Roselli, Resurrezione; Giovan Francesco Surchi, detto il Dielai, Dalla bocca di Adamo morente nasce l'albero della Croce; Giovan Francesco Surchi, La regina di Saba adora l'albero della Croce; Nicolò Roselli, L'albero della Croce viene disseppellito; Camillo Filippi, L'imperatore Costantino adora la Croce che gli ha procurato la vittoria su Massenzio. Le quadrature prospettiche che collegano fra loro gli affreschi, databili al Settecento, sono opera di Francesco Scala. Sul piano formale, il segno unitario è dato dalla Bottega dei Filippi, che ha in Sebastiano - detto il Bastianino - il suo più significativo esponente.
È una cultura di transizione che testimonia il declinare del potere estense, al quale si sostituisce, politicamente e intellettualmente, la civiltà della Controriforma. Colpita dalle soppressioni francesi e unitarie, trasferita la confraternita presso San Cristoforo della Certosa, poteva parere che si fosse definito sia il giudizio sia l'assetto.
Per fortuna non è così. Esistono oggi le ragioni per una doppia riscoperta dell'Oratorio della Buona Morte, o dell'Annunziata. La prima: rivedere con diversa sensibilità e attenzione un progetto e una testimonianza che sono, alla pari di altri più famosi, rappresentativi della civiltà ferrarese, la quale si caratterizza - in quasi tutte le sue manifestazioni - non per il grande e irripetibile capolavoro, per l'enfasi gridata con la quale si escludono i contesti, ma invece per la continuità e l'omogeneità di presenze che non scadono mai nella banalità e nella ripetitività e tengono alto e armonico il tessuto cittadino.
L'Oratorio è poco noto anche ai ferraresi ed è solo lateralmente toccato dal flusso dei turisti che si dirige verso Palazzo Schifanoia: è un errore perché in questa degna sala noi cittadini possiamo ritrovare quel senso di partecipazione non angusta che muoveva i nostri antenati al conforto e al sostegno, alla preghiera e alla meditazione sulla fragilità umana. I forestieri possono, attraverso quelle conservate testimonianze, apprezzare una civiltà e una storia e, forse, riconoscerne le ragioni che ci fanno sentire ferraresi, e orgogliosi di essere eredi di una grande tradizione.
La seconda: possiamo sperare che l'avvio di nuovi restauri e indagini conoscitive permetta di recuperare alla città e agli studi traccia di quanto esistito, forse non ancora irrimediabilmente perduto. Sarebbe l'occasione per accrescere la conoscenza di un periodo ancora ricco di lacune e per dimostrarci eredi di una civiltà nella quale continuiamo a volerci identificare. »