Ferrara nell'immaginario dei poeti

Scritto da  Roberto Pazzi

L'immaginario poetico dell'Ariosto interpretato da Gustave Doré.Nella fantasia visionaria di un poeta, Ferrara può trovarsi in mezzo alle montagne.

Mi capitò una sera di qualche anno fa di sobbalzare sulla poltrona leggendo una lirica di Osip Mandelstam, il grande poeta russo morto in un lager di Stalin; leggevo infatti «O avara Ferrara, perché non dai al mondo più spesso un poeta come l'Ariosto!»
Cominciavo a capire quanto vasta eco godesse la nostra città grazie alla poesia dell'Ariosto quando, qualche tempo dopo, m'imbattevo in una ulteriore conferma leggendo i versi di Borges Ariosto e gli Arabi: «Nessuno può scrivere un libro. Un libro / perché esista davvero, è necessaria l'aurora col tramonto, secoli, armi, un vasto mare che unisce e divide. / Così pensava Ariosto, che al piacere / lento si dette, nell'ozio di sole / di neri pini e lucenti marmi, / di tornare a sognare il già sognato.»


Il cerchio si allargava e apparivano le vie di Ferrara nell'immaginario di un poeta cieco argentino, evocando luoghi e spazi dove si consumano le abitudini di centotrentamila anime ignare d'esser vissute ogniqualvolta una mente umana si concentri su quei versi di Mandelstam e di Borges. Perché un luogo, se assume la dignità di topos letterario, si guadagna una duplice vita - si pensi a Recanati, topos della noia e dell'abitudine nell'immaginario di mezzo mondo -: una prima volta nella carne di chi ci vive e consuma le sue giornate «del vivere ch'è un correre alla morte»; una seconda volta nella carta, grazie alla fantasia di colui che lavora instancabile a costruire case, mura, fortezze, colline, fiumi, contrade e piazze in quel posto che mai ha visitato, ma soltanto abitato dalla mente.

Di questa doppia Ferrara, di tale attitudine a correre l'avventura di un'altra vita dentro la prima - e quanto più duratura e meno deludente questa seconda, solo a misura dei nostri sogni, delle nostre proiezioni... - avevo e ho un'esperienza diretta e, a suo modo, "maravigliosa": nel 1989 mi trovavo a Helsinki, a un congresso di scrittori, riuniti per protestare per la condanna a morte di Salman Rushdie pronunciata dal governo islamico iraniano.
Conversando col poeta australiano Alan Wearne, mi capita di raccontare da dove vengo e subito vedo il mio interlocutore animarsi, come se già conoscesse bene la mia città, e dirmi che due suoi amici poeti, in Australia, avevano appena pubblicato ad Adelaide un romanzo in versi dal titolo The Ferrara Poems, ambientato nella città che mai avevano veduto, ma che entro qualche mese si proponevano di visitare.

Ritornato a Ferrara, dopo qualche settimana ricevo il libro dall'Australia, opera di Ken Bolton e John Jenkins (The Ferrara Poems, The Experimental Art Foundation, Adelaide, 1989). Con comprensibile curiosità, mi tuffo nella lettura dei capitoli di quest'opera in versi, caratterizzata da strofe in distici slegate da rima. Quale non è la mia sorpresa quando, nelle prime pagine, leggo: «They were at ease / and Karl chose / not to notice, / remarking instead on the Alitalia flight/ over the distant conifers, /growing on the low hills that surrounded Ferrara /...». Il passo, tradotto in italiano, significa: «Erano a proprio agio / e Karl scelse di non osservare / ricordando invece quello che aveva visto dal volo / Alitalia sopra le distanti conifere / che crescevano sulle basse colline che circondano Ferrara / ...».

La vicenda si dipana in una visita di giovani turisti australiani che fanno amicizia con una ragazza dal nome indubitabilmente ferrarese - Carla Merighi - nell'evocazione dei luoghi mitici come il Castello Estense e il Palazzo Schifanoia, ma ricostruendo la pentagona città "dalle cento meraviglie" su montagne e collinette che ne fanno una nuova Ferrara, per la delizia di chi, nella resa della piattezza della pianura, sognava la promozione della città a un'altitudine che ne mutasse radicalmente l'anima agraria.


L'immaginario poetico dell'Ariosto interpretato da Gustave Doré.I ferraresi montanari, insomma, promossi a una quota che nemmeno l'Ariosto e il Tasso avevano saputo immaginare... Il romanzo in versi ha la strana e suggestiva caratteristica di evocare a tratti luoghi e abitudini che possono far sperare in un'ispirazione visionaria dei due autori, come quando si parla di vie dall'acciottolato sconnesso cui si muove una Vespa, di una piazza con una grande fontana vicino al Castello, di un Bar Suisse - la mente corre alla Fis, al bar dal nome dell'antica ditta produttrice di panpepato che un tempo sorgeva davanti alla torre dell'orologio sul corso Martiri della Libertà.
Soprattutto negli ultimi versi c'è un chiaro riferimento a Ferrara e alle sue più radicate abitudini: «We've booked bicycles for a few hours / we can cycle around town. / We must be careful not to fall off.» (Ho prenotato delle biciclette per qualche ora; / potremo girare la città in bicicletta / facendo attenzione a non cadere). Fa un singolare effetto sentirsi ricreati da una mente affabulatrice nascosta agli antipodi; restringe il mondo e lo unifica, lo fa sentire «figurato in breve carte», materia meravigliosa d'invenzione e reinvenzione complementare a quella del grande viaggiatore sedentario che era proprio Ludovico Ariosto, anche se il nostro poeta non viene mai nominato in The Ferrara Poems.

Si profila così, anche nel nostro secolo così poco poetico, così preso dalla necessità di vedere - anzi, televedere - e non di sognare, un'intatta vocazione di Ferrara a proporsi come topos della fantasia dei poeti, quasi che la forza misteriosa che sprigiona dal suo nome continui a vibrare nel mondo diviso dalle lingue della biblica maledizione di Babele, unificato e affratellato dalla visionaria forza della poesia.