Un monastero restituito alla città

Scritto da  Chiara Guarneri

Il convento di Sant'Antonio in Polesine.La storia del Convento di Sant'Antonio in Polesine rivisitata grazie agli scavi archeologici.

Il convento di Sant'Antonio in Polesine, che ospita tuttora un piccolo nucleo di monache benedettine, costituisce uno dei complessi monastici più antichi di Ferrara e l'unico a continuità di vita dal medioevo a oggi. Nel 1910, l'Amministrazione comunale, essendo venuto meno il numero di monache prescritto dalla legge, acquistò una parte del complesso, affidandolo in uso e custodia alle stesse; il secondo claustro, più lontano dal convento, fu invece adattato a caserma.

 

Se la zona abitata dalle monache è stata oggetto di diversi restauri, in virtù soprattutto della presenza di affreschi di scuola giottesco-riminese del primo Trecento, il secondo claustro continuò a essere adibito a usi impropri (fonderia, deposito) fino agli inizi degli anni Novanta, quando la Sovrintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici di Ravenna iniziò i lavori di recupero di questa parte del complesso.

Gli affreschi di scuola giottesco riminese del convento di Sant'Antonio in Polesine.In occasione di quei restauri, la Sovrintendenza Archeologica dell'Emilia Romagna ha intrapreso una serie di indagini che hanno permesso di leggere l'evoluzione di questa parte del convento dalla fondazione ai giorni nostri. Il toponimo "Polesine" ricorda come il monastero occupasse un'isola posta in un punto di defluenza dei due rami principali del Po altomedievale: il Po di Volano e il Po di Primaro. Ancora nel XIV secolo, il perimetro dell'isola era ben delineato, come si può desumere dalla pianta di Fra' Paolino Minorita nella quale, a sud del nucleo urbano, delimitato dalla cinta muraria, appare l'isola di Sant'Antonio.


Un'altra immagine degli affreschi.Il canale che divideva il monastero dalla città non doveva comunque essere troppo profondo se, nel 1324, si tentò di riscavarlo. Ma i lavori non furono particolarmente utili: già circa sessan'anni dopo, ai tempi di Nicolò III, questo canale era diventato una strada che fu chiamata "della Ghiaia", termine che permane tuttora nella topografia cittadina. Nel 1451, Borso d'Este completò l'opera e il Polesine di Sant'Antonio fu annesso definitivamente alla città, cingendo di mura il suo lato meridionale.

Le monache benedettine, guidate da Beatrice d'Este, entrarono in possesso dell'isola nel 1257, acquistandola per la cifra di 1000 ferrarini vecchi dai frati agostiniani che vi risiedevano; subito iniziarono i lavori di riadattamento del complesso, che proseguirono per vari anni, anche oltre la morte di Beatrice, avvenuta nel 1262.


Nel 1287 i lavori erano probabilmente ancora in corso, come si potrebbe dedurre da una norma degli Statuti che prevedeva la cifra di 100 ferrarini all'anno per dieci anni «pro constructione et adaptatione dicti loci sancti Anthonii de Pollicino.»

 

Gli affreschi del coro del convento di Sant'Antonio in Polesine.L'area interessata dalle indagini archeologiche - l'ex secondo claustro, posto ad occidente della chiesa - era evidentemente marginale al nucleo originario del convento. Le indagini archeologiche hanno infatti portato in luce in questa zona un ampio canale artificiale che, nel dodicesimo secolo, tagliava con un andamento da nord verso sud i consistenti depositi di limo e sabbia che costituivano l'isola sul Po.
Solo in un secondo tempo, agli inizi del XIV secolo, il canale fu colmato e il terreno, che non si presentava ancora ben consolidato, fu compattato con scarichi di macerie; su questi venne impiantato un grande edificio a pianta rettangolare, con un'area centrale probabilmente occupata da un chiostro.Dopo questa prima fase, che segnò l'ampliamento del monastero, le indagini archeologiche hanno documentato una serie di lavori di costruzione e ristrutturazione, testimoniati anche da un documento del novembre 1467, che interessarono parte dell'area occupata dalla precedente struttura trecentesca.

 

La Sala capitolare del convento di Sant'Antonio in Polesine.Il nuovo edificio costruito in questa fase, che attualmente costituisce il lato meridionale del secondo claustro, ampliò significativamente il complesso.
La restante parte della struttura precedente subì un cambiamento nella destinazione d'uso e fu adibito ad attività artigianali: lo confermano le abbondanti tracce di cenere e scorie, nonché frammenti di crogiuoli rinvenuti durante lo scavo. A questa fase pare attribuibile l'utilizzo di uno stradello, compattato frequentemente con calce e pezzame, sul quale sono venute in luce numerose impronte di carriaggi.


Attorno a questa struttura dovevano esistere, al tempo, zone adibite a orti, che apparivano delimitate verso occidente da un possente muro di recinzione. Il convento, al quale la fondazione estense attribuisce un particolare rilievo nella storia della città, ebbe un'enorme importanza durante il Rinascimento, ospitando, tra i vari personaggi illustri, i pontefici Giovanni XXII, nel 1414, e Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini, nel 1459.

Sant'Antonio veniva spesso utilizzato come soggetto decorativo per ceramiche di uso quotidiano.Nel 1438 vi soggiornò Eugenio IV, in occasione del Concilio ecumenico. Secondo una descrizione tratta dagli atti di quest'ultimo, il monastero disponeva di vasti ambienti ove ospitare visitatori illustri: «monasterio Monalium pulcherrimum et satis amplum habens palatia, et triclinia, ad multorum Principium hospitium». Il monastero si configurava, infatti, sin dai tempi della sua fondazione, come il luogo ove prendevano i voti le fanciulle più nobili della città: fra le sessanta monache ospitate nel monastero nel 1466 «ex urbius nobilibus» vi era anche Margherita, sorella di Borso d'Este.

 

Una conferma della ricchezza e dell'importanza del convento è data dalla tipologia dei materiali rinvenuti durante gli scavi: la qualità di molti degli oggetti è tale da richiamare maggiormente un contesto sociale di alto livello che una comunità religiosa.

Accanto alle caratteristiche ceramiche graffite di tipo conventuale, decorate con simboli religiosi di vario tipo, troviamo infatti numerosissimi oggetti di notevole pregio, tra cui ceramiche di importazione spagnola e vetri di produzione veneziana.

 

Una coppa, o alzata, in vetro azzurro, decorata a costolature.In particolare, lo scavo di un vano sotterraneo di scarico in muratura ha restituito più di un centinaio di oggetti in ottimo stato di conservazione, in ampia maggioranza ceramiche graffite policrome, databili alla seconda metà del XV secolo. Si tratta di coppe, piatti, scodelle, alzate e brocche che compongono in  taluni casi veri e propri servizi completi da tavola.
Le decorazioni comprendono soggetti di ispirazione monastica, come croci e figure di Sant'Antonio, eponimo del convento; accanto a questi temi, usuali in un monastero, troviamo anche in grande abbondanza soggetti non specificamente religiosi come figure di animali, stemmi, motivi geometrici, profili di donna e alcune imprese estensi, come il diamante, appartenente a Ercole I. Molti di questi soggetti recano graffito, al di sotto del piede, il nome della monaca a cui appartenevano.

 

Uno dei servizi da tavola personali rinvenuti.Numerose sono le bottiglie e i bicchieri dalla forma troncoconica, decorati a stampo con gocce, losanghe e linee parallele. Accanto a questi oggetti - di uso quotidiano - spicca una coppa o alzata, in vetro azzurro, decorata a costolature. L'oggetto, di elegante fattura e probabilmente realizzato su commissione, trova confronto con altri simili, conservati al Museo del vetro di Murano e al Victoria and Albert Museum di Londra.
Prodotta da fabbriche muranesi, la coppa era stata realizzata con una tecnica complessa che prevedeva dapprima la soffiatura a mano libera e, in un secondo tempo, entro lo stampo.

Il rinvenimento di resti di pasto, attualmente in corso di studio, all'interno di questo vano di scarico permetterà inoltre di far luce sull'alimentazione seguita dalle monache in questo periodo. A partire dalla metà del XVI secolo, la porzione occidentale dell'area cortilizia fu usata come zona di scarico per rifiuti. Per un cinquantennio circa vengono aperte numerose buche che, a volte, finiscono per intersecarsi, colmate con resti di pasto, ceramica e materiali edili.

Da queste provengono prevalentemente ceramiche graffite finite in monocromia o nei colori blu-verde e giallo, decorate con sigle, simboli e figure dì monache, spesso inserite in corone di motivi floreali o geometrici. Queste ceramiche, dette "conventuali", erano prodotte esclusivamente per le grandi comunità religiose e venivano a comporre veri e propri servizi personali articolati in brocca, piatto, scodella e ciotola.

 

Un calamaio plasmato in figura di donna, in stile compendiario: oggetto assai insolito in un convento.Nei riempimenti delle buche databili alla metà del XVI secolo assume maggior rilievo la presenza di maioliche in stile "compendiario", in smalto bianco con decori finissimi in azzurro, giallo e marrone. I soggetti sono per la maggior parte putti entro cornici floreali, ma anche oggetti inconsueti come calamai plasmati a figura di donna. Questo tipo di ceramiche era estremamente di moda attorno alla metà del XVI secolo, al punto tale che anche i grandi signori - fra cui Barbara d'Austria, moglie di Alfonso II - ordinarono ai ceramisti faentini interi servizi, chiamati "credenze", decorati con il proprio stemma.

Tra i vetri di eccezionale bellezza e valore storico vi è un calice con stelo e coppa decorati a stampo in vetro opaco bianco, detto lattino, con striature dai colori blu, rosso e dorato; quest'ultimo è dato da un vetro a pagliuzze dorate chiamato "avventurina", nome che gli deriva dalla casualità della sua scoperta. I ricettari muranesi che illustrano le composizioni dei diversi vetri ne datano la scoperta agli inizi del XVI secolo: il rinvenimento di Sant'Antonio permette ora di retrodatare questa scoperta di circa un cinquantennio.

Tra i vetri di eccezionale valore storico, questo calice, con stelo e coppa decorati a stampo in vetro opaco bianco, detto lattino, con striature dai colori blu, rosso e dorato.Dai risultati esposti emerge con chiarezza come la ricerca archeologica abbia permesso di aprire uno spaccato di circa tre secoli sulla vita che si svolgeva all'interno del convento. In tal modo ci ha permesso di determinare fasi edilizie che non avevano lasciato segni nell'alzato, ma erano ben leggibili tramite lo scavo; ci ha anche consentito di ricostruire il livello di vita del monastero - vita certamente molto agiata, vista la preziosità dei materiali rinvenuti - e ha restituito alla nostra memoria i nomi delle monache, le loro stoviglie e i loro oggetti personali. L'archeologia si conferma quindi anche come prezioso strumento di conoscenza della storia e dello sviluppo urbano, argomenti lasciati fino a poco tempo addietro solamente nelle mani di urbanisti, storici e architetti.