Ricorda, quella lapide, come tra quelle mura sia vissuta per oltre un secolo la famiglia Tumiati, "onorando la Città e la Patria", dice la scritta incisa sul marmo, "nelle arti, nel diritto, nell'impegno civile". Il riconoscimento, voluto dal Comune, ha l'intento di rendere omaggio ai quattro fratelli Tumiati della generazione precedente la mia - Domenico, Gualtiero, Leopoldo e Corrado - che dall'inizio del secolo fino agli anni Sessanta raggiunsero ampia fama in campo nazionale per i risultati raggiunti nei rispettivi settori; e, accanto a loro, a mio fratello Francesco, medaglia d'oro, caduto a ventitré anni per la libertà.
E' toccato e toccherà ad altri analizzare e valutare le opere dei quattro fratelli nati nel secolo scorso, stabilire quanto delle loro opere abbia avuto un valore e quanto resti ancora valido oggi; a me, come figlio e nipote, importa soprattutto ricordare le loro figure umane, le voci, le abitudini, le passioni che tanto colpivano noi, bambini e adolescenti quando, da Venezia, da Firenze, da Roma, dove li avevano portati le loro attività, facevano capo alla vecchia casa di via Palestro.
Il primo dei quattro fratelli Tumiati, Domenico (1874-1943), fu giustamente definito "l'ultimo dei poeti cavallereschi".
La sua poesia era armonica e sonora, le sue "ballate" cantavano regine medievali e personaggi come Guerrin Meschino; i suoi Melologhi, poemetti in versi con musiche di un altro illustre ferrarese, il maestro Vittore Veneziani, messi in scena e recitati nel 1903 dal fratello Gualtiero nel cortile del Castello, illuminato da torce a vento, con sfarzo di costumi rinascimentali, alla presenza di Gabriele D'Annunzio, costituirono un evento, non soltanto per Ferrara.
Ma la sua fama gli venne soprattutto dai drammi storici, che esaltavano le gesta dei grandi del Risorgimento - Mazzini, Garibaldi, Cavour - nell'interpretazione dei maggiori attori dell'epoca come Ermete Zacconi e Annibale Ninchi. Immerso IN questo mondo storico e quasi fiabesco, Domenico Tumiati, lasciata Ferrara, trascorse la maggior parte della sua vita a Firenze IN aristocratico isolamento, lontano dai circoli letterari, IN legame quasi esclusivo con la moglie, la marchesa vicentina Margherita Roi, nipote di Antonio Fogazzaro.
Alla rotonda sonorità della sua poesia faceva incredibile riscontro l'asciuttezza quasi diafana della sua figura. Alto, magro, il viso lungo e scarno segnato dai baffi, lo zio Domenico aveva gesti composti e misurati, non sopportava i rumori, parlava sottovoce attribuendo gran peso a ogni parola anche nei casi, peraltro rarissimi, in cui affrontava argomenti futili o superficiali. Possedeva un'automobile a guida esterna con autista, di tipo molto vecchio, che non volle mai cambiare perché, diceva, era l'unica che gli permetteva di entrarvi senza togliersi la lobbia. A Ferrara veniva raramente, perlopiù a Natale, mettendo in grande soggezione noi ragazzini, che dovevamo starcene composti e silenziosi per non disturbarlo. Non avendo figli, mal sopportava gli schiamazzi infantili. Anche oggi, nella casa di via Palestro, dall'alto di un quadro a olio, il suo sguardo sembra controllare parenti e visitatori.
È sparita invece nel caos dei bombardamenti la splendida coppa di Murano, azzurra con profili a colori di cavalieri e dame rinascimentali, che aveva ricevuto in regalo da Gabriele D'Annunzio.
Il secondo dei fratelli, Gualtiero (1876-1971), era esattamente l'opposto. Estroverso, impetuoso, irruente, celebre per la sua voce calda e profonda che molto lo favorì nella carriera, dedicò tutta la sua vita al teatro, come attore. Splendido interprete delle tragedie greche, dei drammi di Shakespeare, del Cyrano di Bergerac, calcò i palcoscenici di tutti i maggiori teatri italiani come "capocomico" di varie "compagnie di giro". Quando con la sua troupe capitava a Ferrara, prendeva alloggio all'Albergo Europa e subito si precipitava a casa nostra dove, dopo gli abbracci calorosi, chiedeva a nostra madre due cose: un infuso bollente di cipolle e una stanza a sua completa disposizione. L'infuso, a suo dire, favoriva il ricambio, regolava l'intestino e gli manteneva limpida la famosa voce. Ovunque andasse ne beveva ogni giorno almeno un litro.
La stanza - sempre la stessa, isolata, sul retro - gli serviva per ripetere a pieni polmoni le lunghe tirate di Eschilo e di Shakespeare che avrebbe recitato al Comunale o al Verdi. Noi ragazzini ci accostavamo di soppiatto a quella porta ascoltandolo trepidanti e, a tavola, seguivamo estasiati i racconti che veniva facendo della sua vita avventurosa: successi, insuccessi, rivalità fra colleghi, le alterne vicende della Sala Azzurra, il teatro sperimentale, punto di riferimento dei teatranti degli anni Venti, da lui fondato e gestito a Milano con sua moglie, la pittrice e scenografa inglese Beryl Hight.
Anche più longevo dei fratelli, concluse la sua lunghissima carriera nel 1969 alla Scala di Milano interpretando, a novantatré anni, la parte di Tiresia, l'indovino cieco, nell'Edipo Re, con Anna Proclemer e Giorgio Albertazzi. Con suo figlio Pierluigi, con le mie sorelle Caterina e Roseda e i nostri cugini Andrea e Lucia, assistei trepidando alle varie fasi dello spettacolo. Ce l'avrebbe fatta, lo zio, tra l'altro ormai cieco, ad arrivare fino in fondo? È vero, anche il personaggio Tiresia era cieco e, quindi, l'attore che lo impersonava doveva - come lui - essere guidato da un "pastorello". Ma il fiato? Sarebbe riuscito a superare lo scoglio di una battuta lunghissima d'importanza fondamentale, che avrebbe messo in difficoltà la memoria di un giovane? Ce la fece, salutato alla fine da un grande applauso. Noi, commossi, ci spellammo le mani.
Il terzo fratello, Leopoldo (1879-1965), era nostro padre. Avvocato e professore universitario, fu l'unico dei quattro a rimanere tutta la vita a Ferrara dove, sempre in via Palestro, ereditò e proseguì lo studio del padre. Né distaccato e altezzoso come Domenico, né vitalistico e prorompente come Gualtiero, rappresentava una giusta via di mezzo, se così si può dire di un personaggio che, per dignità di comportamento e sobrietà di parola, aveva pur sempre un aspetto più inglese che italiano, un'intransigenza più protestante che cattolica. Educò infatti tutti noi integrando il decalogo del cattolicesimo con un suo Trilogo laico composto da tre Comandamenti: 1) comportarsi sempre in base ai principi in cui si crede, senza mai piegarsi a compromessi; 2) fare agli altri quello che, in condizioni analoghe, vorreste che gli altri facessero a voi; 3) parva sufficiunt, cioè "il poco è ciò che appaga".
Credeva tanto in questo terzo comandamento che lo aveva fatto disegnare in caratteri gotici sul paralume di pergamena che pendeva sopra la nostra tavola da pranzo. Volontario nella prima guerra mondiale, in prima linea sulle nevi dell'Adamello, amava raccontare a noi bambini, accoccolati sul tappeto ai piedi della sua poltrona, le vicende vissute tra quelle cime, alternandole ai racconti deamicisiani del libro Cuore - "La piccola vedetta lombarda", "II tamburino sardo" - e, d'estate, durante le vacanze, ci conduceva in rituali pellegrinaggi sui «luoghi sacri della Patria»: le trincee del Col di Lana, il Castello del Buonconsiglio a Trento che vide il martirio di Battisti, la Campana dei Caduti a Rovereto.
Per quanto, certo, non fosse nato per la politica attiva, alla fine del primo conflitto mondiale, su proposta del Movimento degli Ex Combattenti, fu eletto alla Camera, dove propugnò idee di chiara ispirazione nazional-liberale.
Con l'avvento del fascismo tornò agli studi giuridici e alla sua professione - tra l'altro fu per lunghissimi anni avvocato del Comune, della Cassa di Risparmio e di altri enti pubblici - dando al vecchio studio di via Palestro un lustro che andava oltre i limiti della provincia. Nello stesso tempo, dedicava altrettante energie all'insegnamento universitario del diritto amministrativo.
Qualcuno dei più anziani, a Ferrara, ricorda ancora la sua chiarezza, la sua proverbiale severità, l'impegno con cui, per un quarto di secolo, dal 1930 al 1954, svolse il ruolo di Preside della Facoltà di Legge.
Ma forse anche maggiore è il numero di coloro che ricordano il rito della sua "passeggiata prima di cena": ogni sera, sempre alla stessa ora - dalle sette e tre quarti alle otto e un quarto - percorreva con passo regolare e dignitoso lo stesso tragitto dalla porta di casa fino alla barriera del dazio in fondo a viale Cavour: una regolarità pari a quella della famosa passeggiata di Immanuel Kant per le vie di Koenigsberg. I ferraresi avrebbero potuto benissimo regolarci gli orologi. L'ultimo dei quattro fratelli, Corrado (1885-1967), era senza dubbio il più moderno e vivace. Ma a questo punto è doveroso ricordare che, tra Leopoldo e lui, c'erano anche due sorelle, Chiara e Clelia, non citate nella lapide, ma dotate anch'esse di virtù non comuni che, nel clima maschilista dell'epoca, non furono adeguatamente riconosciute. Rimaste nubili, Clelia si fece suora, Chiara dedicò la sua vita ai poveri e ai diseredati come assistente sociale del Comune di Roma.
Ma torniamo a Corrado, medico psichiatra e scrittore. La sua modernità credo gli derivasse proprio dagli studi medici e dai contatti quotidiani con i malati di mente, attività che interpretò come una missione, interrotta soltanto per quella non meno ardua di tenente medico sul Carso nella prima guerra mondiale.
Le sue esperienze professionali, maturate via via negli ospedali psichiatrici di Pesaro, Siena e Venezia, lo portarono fin dagli anni Venti a riconoscere, con chiaroveggenza da precursore, la necessità di profondi mutamenti nella terapia della malattia mentale e nella gestione degli ospedali psichiatrici, sempre però sulla base di esigenze concrete, guardandosi bene dallo scivolare in astratte utopie.
Il fondo umanistico che contraddistingueva la sua natura come quella dei fratelli lo spinse a tradurre in termini letterari le sue esperienze con i malati di mente. Ne nacque una raccolta di pagine mirabili per umanità e rigore di stile, I tetti rossi, che gli valse, nel 1931, il Premio Viareggio. Per lui fu una svolta. Il Corriere della Sera gli aprì le porte della terza pagina, riviste prestigiose come Pegaso e Pan lo vollero fra i più stretti collaboratori, alcuni amici fiorentini, fra cui il grande critico Pietro Pancrazi, insistettero perché si dedicasse interamente alla letteratura. Corrado accettò quei consigli, abbandonò la medicina e da Venezia si trasferì con la famiglia a Firenze, dove intensificò l'attività letteraria - articoli, libri, traduzione di classici stranieri - nel clima intenso di un gruppetto di intellettuali che, come lui, erano intransigenti antifascisti, primo fra tutti Piero Calamandrei che poi, alla fine della seconda guerra mondiale, lo volle accanto a sé come vicedirettore della rivista Il Ponte.
Ma Corrado Tumiati, per me, resta soprattutto lo zio che, tornando da un convegno negli Stati Uniti, portò in regalo un meraviglioso punchingball, di quelli veri, di cuoio, da palestra, su cui io e mio fratello Francesco esercitammo i nostri pugni ancora fragili; l'uomo che, più tardi, nella sua biblioteca fiorentina, mi parlava dei libri appena usciti, mi raccomandava questa o quella lettura - ricordo come mi caldeggiò Il deserto dei Tartari di Buzzati - mi illustrava le nuove correnti letterarie.
Dopo i nomi dei quattro fratelli, sulla lapide spicca - distaccato di un rigo, quasi a sottolineare il salto generazionale e l'estremo sacrificio - un quinto nome: quello di mio fratello Francesco (1921-1944), medaglia d'oro, caduto per la libertà. Nella casa di via Palestro, Francesco - Francino, come lo chiamavamo noi - aveva respirato e assorbito fin da bambino i principi di severa moralità della nostra famiglia, senza tuttavia nulla perdere della estrosità, del brio, dell'anticonformismo che gli venivano da nostra madre, Ada Brandi.
Dai Tumiati, e in particolare dallo zio Gualtiero, aveva ereditato l'amore per l'arte e la passione per il teatro, tanto che, dopo essersi distinto in diverse esibizioni minori, a soli diciotto anni fu invitato da Michelangelo Antonioni, allora regista del Teatro Guf di Ferrara, a interpretare la parte del protagonista nella commedia O di uno o di nessuno di Pirandello, che andò in scena alla Sala Pepoli di via Contrari.
Cresciuto nelle organizzazioni giovanili del fascismo, allo scoppio della guerra, appena diciannovenne, raggiunse il fronte libico, come volontario, anzi, da "clandestino" perché mal sopportava l'estenuante attesa dell'imbarco negli squallidi casermoni napoletani. "Non è ammissibile" scriveva in una delle sue tante lettere, "che io non sia là a soffrire come infinite migliaia di compatrioti di ogni ordine e categoria stanno soffrendo". In Libia, sergente di un reparto celere, partecipò alle grandi battaglie dell'inverno 1941 - Bir el Gobi, El Aden, Sidi Rezegh - finché, nell'aprile 1942, colpito da scorbuto, con le gambe coperte di piaghe, fu rimpatriato.
La tragica esperienza della guerra, l'impreparazione delle nostre Forze Armate, le condizioni in cui, al ritorno, trovò le nostre città e le nostre genti, lo indussero a profondi ripensamenti. Più che agli esami di legge che ancora doveva sostenere all'Università di Ferrara, si dedicò all'approfondimento di grandi temi politici e a contatti con alcuni giovani più anziani di lui - fra gli altri, Giorgio Bassani, amico di famiglia - che lo iniziarono all'antifascismo.
Dopo lo sfacelo dell'8 settembre 1943, che lo aveva colto sottotenente carrista a Verona, raggiunse l'Appennino marchigiano dove, insieme a un altro giovanissimo, Aldo Tacchi, futuro presidente del Tribunale di Bologna, prese contatto con i partigiani della Quinta Brigata Garibaldi, dichiarando la sua volontà di lottare contro il fascismo e la sua fede liberal-socialista.
La Brigata era comandata e composta al novanta per cento da comunisti e i due novellini dovettero aspettare alcuni giorni e superare qualche prova prima di essere creduti. Ma alla fine vennero accettati.
Cominciò così un periodo di vita durissima e di aspri scontri a fuoco in cui si distinse, tanto da esser presto nominato Comandante di Distaccamento. Imprese alla Robin Hood per aprire i silos e distribuire grano alla popolazione, tenendo a bada le guardie fasciste; vere e proprie battaglie campali, come quella del 23 marzo 1944 che vide una massa di oltre seicento militari, in prevalenza tedeschi, impegnati nel vano tentativo di accerchiare e distruggere i partigiani arroccati sulla collina di Cantiano; colpi di mano, come quelli della munitissima caserma di Cagli, per impadronirsi di armi e munizioni.
Così, fino al fatale 17 maggio 1944 quando Francesco, dovendo raggiungere con due compagni jugoslavi una cascina dispersa sulle alture dove il Comando partigiano aveva fissato un appuntamento, non potè purtroppo ricevere il contrordine del Comando stesso e, su quelle alture, fu catturato di sorpresa, insieme ai due partigiani jugoslavi, da una pattuglia fascista.
A Cantiano il comandante fascista, dopo aver dato ordine che i due jugoslavi venissero immediatamente passati per le armi, visto che Francesco si era dichiarato ufficiale dell'Esercito, fedele agli ordini del governo legale italiano, si mostrò disposto a salvargli la vita e a limitarsi alla deportazione in Germania a patto che avesse giurato fedeltà alla Repubblica di Salò.
Francesco, che doveva rispondere alla presenza dei due jugoslavi, già condannati, rifiutò. E con loro fu fucilato davanti al cimitero di Cantiano.
Una settimana dopo, il 25 maggio, avrebbe compiuto ventitré anni.