L'arte di Dosso Dossi

Scritto da  Mauro Lucco

Dosso Dossi, Circe e i suoi amanti, circa 1511-12, Washington D.C., National Gallery of Art.Ferrara celebra uno dei suoi più grandi artisti con una mostra monografica di straordinaria completezza, realizzata con il supporto della Fondazione.

Sul mezzogiorno di sabato, 1 aprile 1606, tre persone sostano nel Duomo di Faenza «a far orazione». Qui, un quadro, il primo entrando nella navata destra, attira la loro attenzione. Dopo averlo osservato, uno dei tre, un famoso pittore, il Pomarancio, dice che non sa chi l'abbia dipinto, ma di sapere che è bello; un secondo afferma «A me pare che sia della mano del Dossi alla maniera con la quale è dipinto». Il pittore, punto sul vivo, riguarda; e scopre la firma di Dosso.
La bella scena accadde in uno dei primi giorni di un viaggio che portò il marchese Vincenzo Giustiniani, notevole collezionista, a vagabondare per l'Europa, e fotografa bene l'effetto dei massicci spostamenti di dipinti ferraresi seguiti alla devoluzione di Ferrara.

 


L'autentico saccheggio perpetrato ai danni della città emiliana aveva fatto e faceva affluire sul mercato romano un gran numero di opere di Dosso Dossi; ed ecco allora che un illuminato cultore del bello, come il Giustiniani (che, per inciso, possedette un dipinto del maestro ferrarese, la Madonna col bambino e i Santi Giuseppe e Francesco degli Staatliche Museen di Berlino), poteva riuscire a riconoscerlo, laddove un pittore non sapeva farlo.

 

Dosso Dossi, Ninfa e satiro, circa 1508-9, Firenze, Galleria Palatina.La cosa, tuttavia, ha dei risvolti curiosi. Il Giustiniani era un uomo troppo intelligente per non conoscere le Vite di Giorgio Vasari; e in entrambe le edizioni di quel libro (1550 e 1568) la tavola di Faenza è tra i pochi dipinti del Dosso citati con onore. Tutta farina del sacco del Giustiniani, allora? Pura capacità di distinguere visivamente uno stile o ricordo letterario? Non lo sappiamo.
A Vasari, Dosso e Battista Dossi non piacevano, per ragioni tuttora misteriose. Vasari non esita a dire che «al nome di Dosso ha dato maggior fama la penna di messer Ludovico [Ariosto], che non fecero tutti i pennelli e i colori che consumò in tutta sua vita.» Persino il favore goduto da Dosso alla corte di Alfonso I è per il Vasari quasi più dovuto alla sua affabilità e alle sue doti umane, che a quelle della sua pittura.

E tuttavia traspare con evidenza che, nonostante tutto, "infiniti" erano coloro che davano gran credito alla famosa seconda stanza del Canto XXXIII del Furioso:

e quei che furo ai nostri dì, o sono ora,
Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino,
duo Dossi, e quel che par sculpe e colora
Michel, più che mortale, Angel divino:
Bastiano, Rafael, Tizian, ch'onora
non men Cador che quei Venezia e Urbino [...]

 

 

Dosso Dossi, Buffone, circa 1510, Modena, Galleria Estense.Vasari aveva della pittura, della "maniera moderna", un'idea troppo seriosa per apprezzare la vaghezza, il divertimento, il volo libero della fantasia che sono le caratteristiche essenziali della poetica dossesca; ai suoi occhi, anzi, essi dovettero apparire in qualche modo "immorali"; né era un caso isolato, nella sua preconcetta ostilità verso i due artisti ferraresi.
Mettendo il suo deprezzamento in bocca a un altro toscano, propagandista a Venezia della "maniera", Pietro Aretino, Ludovico Dolce afferma che Ariosto è sempre un ingegno assai acuto, eccetto quando ha compiuto il madornale errore di collocare a fianco di Michelangelo i due Dossi, «indegni», a causa delle loro maniera goffa, «della penna d'un tanto poeta».
Dopo la negativa parentesi di Vasari e Dolce, il trend favorevole riguadagna presto quota: nelle sue note manoscritte all'edizione giuntina del Vasari, oggi alla Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna, Annibale Carracci sbrigativamente scrive che la bellezza delle opere di Dosso è evidente, mentre al confronto quelle del Vasari sono tanto crude e secche da non essere buone che per il fuoco.

 

Dosso Dossi, Viaggiatori nel bosco, circa 1514-15, Besançon, Musée des Beaux-Arts et Archeologie.E, più o meno negli stessi anni, il Lomazzo spenderà ammirate parole per i bellissimi effetti di illuminazione interna e di evanescenza dei paesaggi dipinti dai Dossi. Nel 1657, Scannelli trova la chiave dell'atteggiamento negativo del Vasari in un'irrazionale avversione verso tutti gli artisti che non fossero toscani, o non avessero studiato Michelangelo, o non avessero eseguito disegni entrati poi nella collezione di Vasari stesso. Il massimo sforzo di ricerca, di scavo dei documenti estensi è compiuto, sul finire dell'Ottocento, da Adolfo Venturi, col recupero di alcuni dipinti su tela nascosti sotto falsi nomi, e sarà portato avanti da Berenson. È questa la base della prima seria monografia moderna sull'artista: quella di Henrietta Mendelsohn, che perviene a un corpus affidabile e a una quasi altrettanto affidabile seriazione di esso.

 

Dosso Dossi, Melissa, circa 1515-16, Roma, Galleria Borghese.Ma è con Roberto Longhi che si assiste a una netta rivalutazione dell'artista: Dosso è visto quasi al crocevia di una situazione culturale di creativo rifiuto dell'esperienza classicistica romana che lo accomuna a molti artisti attivi nella pianura padana. Dosso restituisce così ai pittori padani una libertà dalla gabbia del classicismo e, nei suoi ultimi anni, li avvia a un recupero del vero naturale, in un'atmosfera di intrisione meteorologica vagamente untuosa che sembra preludere agli esperimenti dei Campi e poi del Caravaggio. La chiave scardinante di tutto questo sistema critico è venuta nel 1995, col ritrovamento, da parte di Adriano Franceschini, di un documento che collega l'esecuzione del polittico Costabili, criticamente assestato negli anni Venti del Cinquecento, al biennio 1513-1514, con la conseguenza che il gruppo individuato dal Longhi come fase giovanile dell'artista non trova più un logico ubi consistam e deve essere passato ad altre mani.

 

Dosso Dossi, Lamentazione, circa 1517, Londra, National Gallery.Nel 1513-1514, il giorgionismo del San Giorgio del lato destro del polittico risulta inserito nel suo più giusto contesto intellettuale; come non sarebbe se, invece, il polittico si collocasse nel terzo decennio del Cinquecento. Come Giorgione, Dosso mostra qui di essere uso non a schizzare e progettare su carta l'immagine, ma di procedere all'elaborazione sul supporto, provandone le varianti, sopprimendole, mutandole direttamente col colore, affidandosi all'estro del momento, alla nuova idea intervenuta, a quella che sembra la formulazione più felice. Questa pratica è in lui tanto radicata da poter divenire un metro di giudizio sulla sua autografia; ogniqualvolta lo stile di un dipinto dichiara apertamente la sua appartenenza all'artista, si sono ritrovati negli strati sottostanti della pittura dei mutamenti anche decisivi; quando lo stile dà adito a diversi dubbi, mai sono stati rilevati pentimenti.

 


Dosso Dossi, San Gerolamo, circa 1518-19. Vienna, Kunsthistorisches Museum.Dimostra questa sua formazione veneziana anche il fatto che, come è noto, e a differenza di Battista, non esistono, a tutt'oggi, dei disegni sicuri o di indubbia attribuzione a Dosso. Naturalmente, un approccio tanto libero e disinvolto alla figurazione implica un pessimo funzionamento, sui suoi dipinti, della comune pratica critica dell'iconologia: consentendosi la possibilità di fare grandi cambiamenti in corso d'opera, finalizzati solo al migliore funzionamento visuale dell'immagine, i suoi dipinti non permettono mai un riconoscimento pacifico di una fonte letteraria precisa.
Non v'è dubbio che, all'interno della "cultura dell'intrattenimento" della corte estense, per l'ermetismo della figurazione e per il tono felicemente lieve, IN proiezione mitica e priva di qualsiasi preoccupazione morale, le opere di Dosso dovevano essere viste come appartenenti al novissimo genere veneziano delle "poesie", che stava allora avendo eccezionale rigoglio.


Dosso Dossi, Santi Cosma e Damiano, circa 1520-22, Roma, Galleria Borghese. «Pittura è propria poesia, cioè invenzione, la qual fa apparir quel che non è,» scrive Paolo Pino, esortando i pittori a introdurvi «brevità», ad astenersi dal concentrare il mondo IN un'immagine e a non dare, di quell'immagine, un trattamento pittorico troppo minuzioso. A questa norma Dosso si adatta perfettamente. Egli infatti non è mai un illustratore, quanto piuttosto un improvvisatore che, partendo da un canovaccio, contrae e dilata i tempi della storia, ne seleziona i dati, espande un episodio a scapito di un altro, ricama sulle parentesi e tace su snodi importanti; ha a sua disposizione e distribuisce con dovizia sapori e colori diversi, con un'abilità che ha del magico, dello stregonesco.
Anche quando il punto di partenza è un testo letterario preciso, come nel Fregio di Enea, proveniente dal Camerino di Alfonso d'Este, la libertà della messa in scena è totale e la stessa riconoscibilità della storia è affidata solo ad alcuni punti chiave; ciò vale anche per la Circe e i suoi amanti di Washington, che senza la presenza degli animali potrebbe essere scambiata per una Venere.

 

Dosso Dossi, Allegoria della Musica, circa 1522, Firenze, Fondazione Horne.Nella cosiddetta Melissa della Borghese, identificata un tempo anch'essa come Circe, l'impossibilità di decidere sull'identità della donna è incrementata dai risultati di una recente radiografia: la maga sta guardando verso l'alto a sinistra e oggi il suo sguardo si perde nel vuoto. Ma in una prima stesura, Dosso aveva posto da quella parte un soldato in piedi, che guardava verso di lei: una figura poi completamente cancellata, al cui posto appare oggi il pettorale d'una corazza, con a lato un cane e sopra un uccello, e dei tronchi d'albero cui stanno attaccate delle figurine umane vestite di esotici gonnellini, come Inca o indiani del Borneo.
A un confronto, quasi in sequenza cinematografica, tra prima e seconda versione, verrebbe detto che la maga, chiunque essa sia, ha compiuto il sortilegio: è bastato un semplice sguardo e il guerriero è scomparso, come incenerito, o trasformato in cane; ne è rimasta, abbandonata sul terreno, solo la corazza.


Dosso Dossi, Allegoria con Pan, circa 1529-32, Los Angeies, J.P. Getty Museum.Un così chiaro spirito da romanzo d'avventura è ciò che rende la Melissa (o Circe) il parallelo più stretto, in campo figurativo, coi procedimenti letterari dell'Ariosto, nel suo Orlando Furioso. Abbastanza curiosamente, tuttavia, stante tale affinità, la Melissa è, assieme al Duello di Orlando e Rodomonte di Hartford, eseguito dal fratello Battista, l'unico tema veramente ariostesco di tutta la produzione del Dossi. 
Nondimeno, questa attitudine gioiosa, questo clima di favola poetica e narrativa è totalizzante e si può anzi dire l'unico registro espressivo intensamente sentito da Dosso. In qualche modo esso costituisce il mezzo e il fine della sua pittura, a cui tutto deve andare sottomesso. Egli rifugge la rappresentazione dei drammi, preferendo a scene di gruppi le figure singole, o comunque una trattazione dell'episodio in cui la figura sia studiata da sola, quasi senza relazione con le altre; anche nell'acme tragico della sua pittura, il momento del lamento per la perdita definitiva di Dafne dell'Apollo Borghese, il dolore, che potrebbe essere sconvolgente, si muta in lirico, e quasi nell'immagine positiva del potere catartico della musica, e del silenzio che segue alla sua interruzione.

 

Dosso Dossi, Allegoria della Fortuna, circa 1535-38, Los Angeles J.P. Getty Museum.Nel Compianto su Cristo morto della National Gallery di Londra, le tre donne sfogano l'empito del sentimento in gesti di strazio, in quei gesti eccessivi che ormai non erano più considerati decorosi, ma come se ognuna avesse un punto diverso, un dolore diverso e il focus dell'attenzione non fosse, per tutte, la spoglia di Cristo in primo piano. Dosso sembra incapace di coordinare ogni figura a un unico scopo espressivo; ed è proprio questo isolamento, questa insularità dei personaggi ad aver evocato, per il dipinto londinese, un aggancio con la cultura figurativa d'Oltralpe, e la patente di "anticlassicismo".
L'attitudine spontanea alla figura umana isolata sembrerebbe rendere l'arte di Dosso particolarmente idonea per l'allegoria. In realtà, non è così. Questa, infatti, richiede una scrupolosa attenzione ai dettagli significativi e un coerente montaggio di questi; insomma, una fissata cristallizzazione d'immagine che Dosso non aveva alcuna intenzione di ricercare.

I suoi non molti dipinti etichettati come tali o non sono decodificabili per le trasformazioni subite, come la cosiddetta Allegoria con Pan del Getty Museum, o proprio per il disinteresse a porre in essi chiavi di lettura più precise, come il dipinto della Galleria Borghese; o per la ragione esattamente contraria, per la loro quasi disarmante semplicità, come nell'Allegoria della Musica della Fondazione Horne o nell'Allegoria della Fortuna del Getty.

 

Dosso Dossi, Allegoria di Ercole, circa 1536-40, Firenze, Uffizi.Le sue allegorie si giustificano dunque solo all'interno di una dimensione narrativa: quella stessa che giustifica il contrasto tra bello e brutto, tra umanità e ferinità, della Ninfa e Satiro di Palazzo Pitti, o che rende ormai in qualche modo incomprensibile il soggetto reale dei Viaggiatori nel bosco di Besançon.
Iniziata metaforicamente con l'aperta risata del Buffone di Modena, la carriera di Dosso si conclude con la presa in giro, apparentemente feroce, dell'Allegoria di Ercole degli Uffizi, corrispondente all'interesse del duca Ercole per le poetiche del riso e gli aspetti del ridicolo. Nel mezzo, una lunga stagione di divertita ironia, una voglia di ridere e giocare che, come abbiamo detto, passa trasversalmente tutta la pittura del nostro artista, che non manca mai di lanciare segnali di umore e di acutezza.

E' tuttavia quasi incredibile che questa lettura, inaugurata da Barolsky e che a noi sembra tra le più promettenti, stenti ancora a essere accolta, mentre riemergono periodicamente tentazioni interpretative di tale lambiccata seriosità, di iper-contorte simbologie alchemiche che avrebbero fatto sorridere Dosso per primo. Egli consapevolmente utilizza dettagli comici, o un'arguzia sorprendente, inaspettata, per smorzare tensioni, per riportare la narrazione entro alvei di un tono generale più basso, più fantasiosamente felice.

 

Dosso Dossi, San Michele sconfigge Satana, circa 1540, Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister.La topica spettacolare della firma figurata in rebus, una lettera D floscia, attraversata da un osso, nel San Girolamo non fa prendere troppo sul serio il furore mistico della posa del santo, mentre il leone rientra nel suo rifugio con l'andatura lenta e dondolante di un cane vecchio; il fiato pestilenziale che esce dalla bocca del demonio sconfitto nella pala della Pinacoteca estense di Modena, proveniente da Sant'Agostino; la coda infiammata come una miccia, le zampe palmate d'anatra del Lucifero sconfitto da San Michele nella pala della Pinacoteca di Parma; o i Santi Cosma e Damiano della Galleria Borghese che, con la più inedita delle invenzioni, di sapore vagamente escatologico, procedono in nostra presenza all'esame delle urine del paziente; o l'Ercole di Graz, che raccoglie in un sol colpo iperbolico, dentro la sua pelle di leone, qualche migliaio di pigmei che gli danno l'assalto con scale e armi minuscole; non sono, tutti questi, liberi voli di una fantasia naturalmente inclinata all'arguzia divertita e al bello spirito?

Dosso moriva, senza reali eredi artistici, nel 1542. Fin da subito, il fratello Battista aveva tentato di differenziare il proprio stile dal suo, nonostante i molteplici episodi di collaborazione; ed è forse per questo che Vasari, fin dal 1550, aveva scritto che essi «sempre furono nimici l'uno dell'altro, ancora che lavorassero insieme». Ma lo stile peculiare di Dossi era stato troppo personale, elusivo, legato ad abilità virtuosistiche per poter essere assunto e replicato da altri.

 

Duello di Orlando e Rodomonte.Nondimeno, l'importanza storica di Dosso per la pittura dell'Italia del Nord non può essere sottovalutata. Partito da premesse giorgionesche, egli ne aveva, nel secondo decennio del Cinquecento, bruciato e ripensato l'eredità, per suggestione di Tiziano, nella chiave di un'accensione cromatica inaspettata, che permetteva di scardinare per quella via un certo trionfalismo del gusto classico; era venuta poi la stagione di recuperi michelangioleschi, sul finire del secondo decennio, dove più pressante si era fatto il richiamo alla visionarietà emotiva della pittura nordica.

Dall'inizio degli anni Venti, le composizioni si assestano, diradandosi, in figure più grandi e robuste, e la tensione della modernità, rivista attraverso il filtro di Giulio Romano - nel frattempo pervenuto a Mantova - dal 1542 si esplicava attraverso pose più complesse e un lucido congelamento della forma. Continuando anche negli anni Trenta, questa volontà portava a una progressiva rarefazione delle figure e a una recuperata arcaicità di presentazione compositiva, per linee parallele al piano di posa; ma cresceva intanto un'adesione alla verità meteorologica di apparenza delle cose, come nella natura morta dell'Allegoria di Ercole, che avrebbe gettato un ponte sul futuro, attraverso la mediazione di Vincenzo Campi, fino alla "pittura della realtà" lombarda dei secoli successivi.

Dosso ha dunque attraversato, col suo occhio sorridente e la sua festiva mano, stagioni intensissime della cultura figurativa italiana, affidando a ciascuna di esse il suo contributo; ma lasciando soprattutto in eredità alle generazioni future una capacità di intrattenere, di catturare l'attenzione e le emozioni, di stimolare la fantasia più accesa, che rende la sua pittura una delle più affascinanti e intriganti mai apparse nella Valle Padana.

(Testo estratto dal catalogo della mostra)