Vittorio Cini a vent'anni dalla morte

Scritto da  Sergio Romano

Vittorio Cini, nel 1961, con l'ambasciatrice degli Stati Uniti, Clara Booth-Luce.Una figura a cavallo fra politica ed economia nei decenni più difficili del secolo.

[...] L'incontro fra Cini e Volpi ebbe luogo sul terreno dei servizi pubblici: infrastrutture, energia, trasporti. Ambedue cominciarono a lavorare all'inizio del secolo ed ebbero i loro primi successi durante la fase di sviluppo dell'economia prima della Grande Guerra. Questa scelta ebbe un'influenza decisiva sui loro metodi di lavoro e sui loro rapporti con i poteri pubblici.

 

Lavorarono con lo Stato perché avevano bisogno di concessioni, licenze, leggi-quadro, regolamenti, crediti agevolati. In un altro paese, forse, avrebbero potuto mantenere con la politica un rapporto più distaccato e neutrale. In un paese afflitto da un grave ritardo e fortemente bisognoso di modernizzazione, ma ricco di burocrazia, povero di capitali e assillato da forti contrasti politico-sociali, dovettero, sin dall'inizio, occuparsi di politica.

Fino dal primo dopoguerra furono certamente giolittiani e, in misura minore, nittiani. Giolittiani perché Giolitti creò in quegli anni le condizioni politiche e sociali per la straordinaria espansione dell'economia nel primo decennio del secolo; nittiani perché Nitti fu attento ai problemi infrastrutturali dello sviluppo economico e divenne l'interlocutore di chiunque avesse una posizione dominante nei settori dell'energia e dei trasporti.
Le difficoltà cominciarono dopo la fine della guerra, quando la legge elettorale proporzionale, approvata nel 1919, sconvolse gli equilibri politici, introducendo in Parlamento due forze - i socialisti e i popolari - che non vollero collaborare con la vecchia classe dirigente alla ricostruzione del paese.

 

Vittorio Cini con il Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi.Nel momento stesso in cui l'Italia avrebbe potuto cogliere i risultati della vittoria e riprendere la strada dell'espansione economica, Cini, Volpi e l'intera classe economica italiana si trovarono alle prese con una situazione caotica e inafferrabile, continuamente percorsa da umori e conati pseudo-rivoluzionari. Nel movimento fascista videro due aspetti positivi: una reazione nazionale al modo in cui la sinistra aveva screditato la vittoria e i suoi protagonisti; e la possibilità di un "ritorno ALL'ordine".
Come Giolitti e molti altri esponenti della società italiana, Cini e Volpi dovettero sperare che l'alleanza con Mussolini, alle elezioni del 1921, avrebbe "costituzionalizzato" i fascisti e ne avrebbe fatto una forza moderata, capace di tenere a bada la sinistra massimalista e bolscevica. Quando le circostanze e, IN particolare, l'atteggiamento del Partito Popolare decretarono il fallimento della strategia di Giolitti, furono "giolittiani" nell'unico modo possibile a un uomo d'affari nell'Italia degli anni Venti: ALL'interno del regime.

Il loro obiettivo rimase lo stesso: costituzionalizzare il fascismo, costringerlo a spogliarsi della sua componente rivoluzionaria e accettare le leggi dello sviluppo economico. Per raggiungere lo scopo, puntarono su Mussolini, vale a dire sull'uomo che era meglio IN grado di controllare e frenare le componenti radicali e anticapitaliste del movimento. Pagarono, soprattutto Volpi, un alto prezzo IN termini di libertà e dignità: troppe uniformi, troppe camicie nere, troppe cerimonie di regime, ma continuarono a essere ciò che erano stati negli anni precedenti: due fra i maggiori protagonisti di quel processo di modernizzazione che era iniziato alla fine del secolo precedente. [...]

Cini e Volpi avevano interessi comuni, erano legati da una forte amicizia e tennero verso il regime lo stesso atteggiamento. Ma con stile diverso. Erano ambedue diligenti, ironici e smaliziati; ma Volpi amò molto più di Cini la teatralità della vita pubblica ed era quindi più incline ad accettare incarichi politici, come il ministero delle Finanze, la presidenza della Confindustria e, dopo lo scoppio della guerra, la direzione della commissione italo-croata. Cini, invece, preferì dedicarsi alla gestione delle imprese del gruppo.

 

Vittorio Cini con l'attore Peppino De Filippo e Maner Lualdi.Fu questa, probabilmente, la ragione per cui nell'aprile 1935, mentre Volpi era presidente della Confindustria, Cini prese la parola in Senato per difendere l'impresa privata: l'intervento dello Stato all'inizio degli anni Trenta, sostenne, era stato provocato dalla crisi delle banche, non delle aziende. Era ora, quindi, che l'Iri cominciasse a liquidare le aziende malate e a privatizzare quelle sane. Disse: «Vi sono enti, gruppi, persone solidissime disposti, ne sono convinto, a dare il loro concorso al di fuori di qualsiasi interesse diretto per aiutare il ritorno all'economia privata di quelle aziende che gravano sulle braccia dello Stato. E lo Stato, liberato da tutto, potrà meglio assolvere alla sua funzione di supremo regolatore dell'economia, sanando l'attuale conflitto di essere spesso giudice e parte in causa nei provvedimenti che è chiamato a prendere».
Esistevano, in quei mesi, le condizioni per una svolta liberale dell'economia fascista? Se esistevano, come Cini dovette sperare, furono travolte pochi mesi dopo dalla guerra di Etiopia, dalle sanzioni e dal peggioramento della situazione internazionale. [...] Fu questa probabilmente la ragione per cui, nel 1936, anziché programmare la liquidazione dell'Iri, Mussolini pensò addirittura di offrirne la presidenza a Cini. Pochi mesi dopo, comunque, Cini accettò l'incarico di commissario generale dell'Esposizione Universale che avrebbe dovuto svolgersi a Roma; nel 1942. [...]

Nel giugno del 1939, il commissario dell'E42 andò negli Stati Uniti per informarsi sul modo con cui gli americani avevano affrontato e risolto problemi analoghi. Ma il viaggio di informazione era, in realtà, al tempo stesso una missione politica nel corso della quale Cini, per incarico di Mussolini, vide Roosevelt e alcuni fra i maggiori esponenti della vita politica americana per cercare di comprendere quale sarebbe stata la posizione degli Stati Uniti nell'eventualità di un conflitto.

Non sappiamo quali impressioni abbia tratto dai suoi incontri e quali consigli abbia dato a Mussolini al suo ritorno, ma possiamo immaginare con quale animo abbia accolto la notizia dell'ingresso dell'Italia in guerra, un anno dopo. Fu certamente tra coloro che ebbero sin dall'inizio le maggior preoccupazioni per l'esito del conflitto e per le sorti dell'Italia. Per questo, probabilmente, Mussolini cercò di coinvolgerlo nella organizzazione della guerra: per neutralizzare la sua opposizione e per fare uso della sua esperienza.

[...] Mussolini, nel febbraio del 1943, rimpastò completamente il governo e gli affidò il ministero delle omunicazioni. Per evitare la nomina, Cini gli indirizzò due lettere, il 6 e il 7 febbraio, [invocando] motivi di salute e attirando l'attenzione di Mussolini sull'incompatibilità della funzione con alcune sue partecipazioni in società operanti nel settore delle comunicazioni.
[...] de Felice ritiene che il primo segnale dell'indipendenza di Cini fu una lettera-relazione sulla situazione della flotta mercantile, in cui si accenna, sia pure indirettamente, alla «estrema gravità» della situazione. Il secondo fu una riunione con i responsabili dei tre i stati maggiori, il 3 aprile, nel corso del quale avrebbe detto che occorreva trattare con il nemico.

 

 

Vittorio Cini con il cardinale Luciani, futuro papa Giovanni Paolo I.Il terzo venne il 19 giugno quando, in Consiglio dei Ministri, propose un «esame obiettivo della situazione e delle varie ipotesi per fronteggiarla, nessuna esclusa, anche quella di fare la pace.» Il quarto venne con la lettera di dimissioni del 24 giugno, nella quale diceva: «la mia proposta non tendeva ad aprire una discussione sulla pace: tendeva a conoscere se Voi ammettete o meno i vostri collaboratori a quell'esame della politica generale che ritengo premessa indispensabile di ogni responsabilità consapevole». Si dimise perché Mussolini intendeva limitare la collaborazione dei suoi ministri «al solo campo tecnico».
Altro che ignoto burocrate, tirannello di provincia, pavido esecutore delle direttive del capo di governo, come sostenne Togliatti. Quale ministro sovietico avrebbe osato scrivere a Stalin una lettera simile a quella che Cini indirizzò a Mussolini nel giugno del 1943?
[...] Accettò il Ministero delle Comunicazioni nel 1943 nella speranza di evitare che il paese venisse travolto dagli avvenimenti. Non fu mai spettatore distratto, assorbito dai propri interessi economici. Fu un italiano impegnato e partecipe. La disfatta, quindi, fu anche, per certi aspetti, la sconfitta della sua generazione e della sua classe sociale, la perdita della capacità morale che egli aveva investito sulle sorti del suo paese.

Reagì a questa perdita con un nuovo investimento: Venezia, la cultura nazionale e (se ho capito il senso di certe sue scelte e inclinazioni) la ricerca della fede religiosa. Nacque così, fra le altre cose, quello che Vittore Branca, in una lapide collocata diciannove anni fa nel chiostro della Fondazione, ha definito «il suo monumento». A giudicare da questa sua creatura e dall'ammirazione con cui lo ricordiamo, l'investimento ha dato i suoi frutti.

(Estratto dell'intervento al convegno di Venezia, per il ventennale della morte di Vittorio Cini)