Il fatto è che Arcangeli si trovava, in quel momento, nell'acme più vivo della sua convinzione post-romantica di critico d'arte militante, involto nella dissoluzione d'ogni metodo storicistico e piuttosto calato dentro una specie di indipendente, autonoma volontà strutturalistica, dove certe ricorrenti temperie sincroniche si allineavano fuori dal tempo, occupando semmai l'urgere di uno spazio sentimentale. Uno di questi eventi che - avrebbe detto Henry Focillon - formava in lui una famiglia artistica era certo la dissoluzione della forma investita, dissolta dalla luce: e il tema è stato da noi portato alle conseguenze che Arcangeli stesso aveva proposto nel confronto fra Tasso e, appunto, Bastianino (a questo è stata dedicata la mostra Tasso, Tiziano e i pittori del parlar disgiunto nel 1997).
Un altro evento trascinava la forma del sentimento fuori dalle circostanze del tempo materiale, e dalla storia, per congiungere la pittura di Bastianino con la tradizione italiana e padana di Tranquillo Cremona, ben due secoli dopo. Il volume di Arcangeli, oggi irreperibile, rimase per questa e per altre ragioni, senza risposte. Ricordo bene come egli stesso - quasi guardandosi attorno a chiederne ragione - lamentasse l'assenza assoluta d'ogni recensione, la caduta di ogni giudizio, il silenzio attorno a lui e alla sua vita di critico d'arte.
La Fondazione della Cassa di Risparmio di Ferrara ha in cuore di affrontare il restauro e il conseguente recupero alla perfetta visione del catino absidale del Duomo di Ferrara, di quel Giudizio Universale in cui il Bastianino negli anni 1575 o poco oltre attinse ai vertici del titanismo biblico, come aveva detto Longhi, paragonandolo a William Blake, e si immerse in un disperato tentativo di identificazione nella musica, a somiglianza di quanto aveva rivelato Walter Pater. Un eventuale restauro costituirebbe uno dei più straordinari recuperi di affreschi in Italia e potrebbe offrire l'occasione per una attesa ristampa commentata del volume di Francesco Arcangeli.
Andrea Emiliani
Siamo arrivati così al Giudizio Universale del catino absidale, nel Duomo di Ferrara: l'impresa principe del Filippi.
Non posso non accettare, per la datazione dei lavori (nonostante le diverse opinioni del Baruffaldi, e di altri), i termini stabiliti inoppugnabilmente dal Cittadella. Il Bastianino, cioè, si impegnò, con rogito del 12 ottobre 1577, a dar l'affresco in tre anni; e infatti il Libro della Fabbrica del Duomo porta che al maestro fu pagato, nel 1581, il resto dei 300 scudi d'oro, ch'era il prezzo pattuito inizialmente.
È quasi certo che le tre stagioni lavorative, buone per l'affresco, degli anni 1578, 1579, 1580 videro il Filippi affrontare e realizzare l'impresa. Quanto all'incarico, secondo il Baruffaldi non ci fu, in Ferrara, altro concorrente temibile che il Bastarolo; che doveva essersi fatto il nome di pittore capace di reggere a grandi lavori con la Deposizione oggi alla Certosa. Ma fu il pronto intervento di Alfonso II, forse per l'estrema intercessione di Francesco d'Este (che morì il 22 febbraio 1578) in favore del Bastianino, a risolver subito la questione; e la cosa non è certo inverosimile, se, ancora nel 1585-86 troviamo Sebastiano attivo «in la capeletta della Ser.ma (Duchessa di Ferrara [Margherita Gonzaga] in corte ad affrescar soggetti sacri e risarcire quadri pregiatissimi della raccolta ducale».
Comunque il Bastianino ebbe l'incarico, e resse alla grande impresa. Per un debito apprezzamento della sua statura d'artista si ripensi allo svolgimento immenso che lo porta, in vent'anni, a passar dalle grottesche cui s'era applicato da giovane (sia pur con squisitezza di vero pittore) a questo enorme affresco. Non fu soltanto un procedere tecnico, accompagnato da una accresciuta capacità di lavoro; fu il profondarsi in un arduo argomento attraverso le vicende ispirative che abbiam creduto di vedere prender corpo in lui, defitivamente, dopo il 1570. Il successo non mancò interamente, anche se la sua fama non salì alle stelle. Fu, dopo i buoni apprezzamenti del Superbi e del Guarini, lo storico Agostino Faustini ad avanzar la frase audace: «...in cui, concorrendo con Michel Angelo Buonaruota, l'ha superato, se non nel disegno, si almeno, nel colorito, & nel Decoro...»
La frase, ripresa più tardi dal Borsetti, trapassa poi, ciò che più importa, nel Lanzi, che la rinnova criticamente in un passo che vai la pena di riportare: «... opera sì vicina a quella di Michelangiolo, che tutta la scuola fiorentina non ne ha un'altra da porle a fronte. Vi è gran disegno, gran varietà d'immagini, buona disposizione di gruppi, opportuno riposo all'occhio. Pare incredibile che in un tema occupato già dal Bonarruoti abbia il Filippi potuto comparire sì nuovo e sì grande. Vedesi che all'uso de' veri imitatori copiò non le figure del suo esemplare, ma lo spirito e il genio». Assai più aveva avuto a sudarvi il Baruffaldi in cinque pagine piuttosto accanite e affannate. «Una impresa così grande, se riflettiamo al sito, ed alla verità dell'opera, gli fece ben quattro volte mettere, come si suol dire, la mano ne' capelli, temendo d'essersi addossato un carico soverchiamente alle sue spalle gravoso.
Immagino, sì, che l'impegno non sarà sembrato facile al Bastianino, ora che il luogo, il più sacro ed illustre di Ferrara, e il tema, cosi strapotentemente "occupato" dal suo Michelangelo, lo metteva davvero alla massima prova. Probabilmente egli ebbe, tuttavia, tempo di meditarvi tutto l'inverno fra il 1577 e il 1578; sì che l'opera potè essere affrontata dopo maturo concepimento, ed eseguita con lena prolungata e felice, tale da incutere rispetto persino al Gruyer, sempre pronto a vedere, nella pittura ferrarese del secondo Cinquecento (e non solo in Bastianino), decadenza e niente altro che decadenza.
Ai nostri giorni, giovani commentatori hanno inteso il livello dell'impresa: «E lo schema michelangiolesco - il solo che si percepisce dal basso, fino a ieri - si fa da serpentinato orchestrato; un paesaggio del Giudizio»; oppure s'è parlato di «trasparenti masse plastiche senza più peso che trascorrono come ombre pallide, ma col rombo lontano delle inondazioni».
Sì, qualche cosa di fluviale, un abbandonarsi dell'idea compositiva entro il gorgo che si vien formando intorno al Cristo, è in quest'opera: un abbandonarsi che è, naturalmente, un volere (voler seguire il gran semicerchio del catino, come se proprio i corpi, galleggiando su quel cielo azzurro e cenerino come dopo un nubifragio, andassero in armoniosa e immensa deriva verso un vasto lento mulinello di risacca); ma non è il volere imperativo di Michelangelo, che occupa il grande spazio rettangolo, doppiamente centinato in alto, con nascosta armonia, anche, ma anzitutto con prepotenza d'effetto.
Ogni forma che in Michelangelo buca, lacera lo spazio, anzi lo crea a forza con ogni scorcio, ogni divincolo, ogni tuffo, in Bastianino deprime fluida sul cielo la sua rotondità; mossa e variata fin che si vuole, eppure immensamente docile. Penso anzi che genialmente il Filippi abbia intuito quanto poteva essergli consentaneo il motivo, grandiosamente ritmato sotto le centine della Sistina, dei gruppi di angeli portatori dei segni della Passione.
Provate, infatti, a rovesciar la foto del Giudizio michelangiolesco, e, guardando i due gruppi, potrete veder quasi in germe quello che Sebastiano attua per grandiosa "orchestrazione", ampliando l'onda di risonanza di quel nucleo circolale. Il Cristo, allora, non è più il «sasso divinizzato» animato all'azione, ma il grave lento ciottolo rotondo che affonda allargandosi attorno grandi cerchi concentrici. Questa concezione mi pare, insomma, degna di stare a mezza via (e non vedo perché si debba rifiutare l'evidenza, almeno "decorativa", della cosa) fra il Giudizio michelangiolesco e l'infinito, innumere, burrascoso, ma infine concentrico oceano della Gloria del Paradiso del Tintoretto, dipinta una decina d'anni dopo per il Palazzo Ducale in Venezia.
Non si vuoi già supporre qui che il Tintoretto, scendendo a Mantova nel 1580 per installarvi suoi quadri dipinti pei Gonzaga, deviasse per la non lontana Ferrara (dove del resto il Giudizio del Bastianino non era ancora scoperto) né che la fama di Sebastiano fosse così potente da chiamare un maestro affermato come il Robusti; si vuol dire che le imprese del ferrarese si misurano, ormai, a gran colpi di ala. La sua cultura è già tutta compiuta e assorbita così in profondo da farlo competere, ormai, con i modelli più alti.
Vien trionfando in questi suoi anni quel carattere profondamente ferrarese, così acutamente riconosciutogli dal Longhi, di «trasmutare immaginativamente dati d'arte e non di natura». Per quanto ne posso intendere io, non direi che Dosso Dossi abbia mai appuntato così in alto la sua mira: le sue favole gagliarde e ferine, picare e fosforescenti brillano e sorprendon di più, ma non toccan mai questo grado di «decadente, conturbante poesia» ch'è l'estrema confessione d'un sognatore profondo.
A me l'inevitabile paragone Dosso-Ariosto (o anche, Ariosto-Tiziano) appare da tempo seducente ma generico, e da tempo penso che, non secondo la quantità narrativa, ma secondo il metodo e lo spirito interno, sarebbe da riformare in quello con l'«aurea mediocritas» di Raffaello; meno generico mi va parendo sempre più quello Tasso-Bastianino, e tale che il pittore non sfigura al confronto. In temi inferni, anzi, non è che l'inquietante poesia dei demoni, in basso nel suo Giudizio, la ceda al concilio infernale della Gerusalemme. «Chiama gli abitator dell'ombre eterne...»; tutti conoscono i versi, belli ma troppo volutamente sonori, con cui il Tasso affronta quel tema che il Bastianino immagina, questa volta, con più sottile raptus.
Infiniti sarebbero i particolari da produrre, e mostrerebbero come l'ispirazione del maestro non si limiti solo a quel suo valore "decorativo", ma sottenda altamente ogni brano del dramma. A cominciare da un grande particolare al centro, penso che il confronto non sia troppo disdicevole se gli accostiamo l'Annunciazione di Tiziano a S. Salvatore, di cui certo in Venezia ammirò l'ardimento, e la firma raddoppiata (Titianus fecit fecit) di proposito, rinviando a quei frati, che non l'avevano intesa, quella pala dolcissima e disperata; con quelle testine d'angelo, appena sfiorate in sensuosità dai ritratti di Renoir ai figli; con quel bel nunzio, tizzone d'inferno.
Ora, non si pretende che il Bastianino pareggi la gloria di quel modello, terribile, a suo modo, non meno di Michelangelo; ma non si neghi che un analogo travolgimento di corpi, e di pittura, è nelle due opere.
Contiene la pittura, il Filippi, almeno a veder le cose di lontano, entro una sua forma abbastanza conclusa, anche se maestosamente dilatata, ma la sfrena incredibilmente in ogni particolare. È una sprezzatissima accumulazione di corpi, di panni, di tratti, entro sagome fuse eppure urtate.
Ecco, a primo esempio, lo squallido, triste orrore di questo diavolo affaticato a dissotterrare e atterrire reprobi, orecchiuto come i ciuchi dei "caprichos"; davvero, non c'è stata persona intelligente d'arte cui mi sia capitato di mostrar questo particolare, che non abbia fatto il nome di Goya, certo non incongruo per questa fantasia, in cui, già in quegli anni tetri, «el sueño de la razon produce monstruos».
Goya, Füssli, Blake; Bastianino: tutti, la mente a Michelangelo, in quell'eterna assenza di paesaggio; in quel combattere, coinvolgere, variare, accanirsi sull'eterna immagine dell'uomo. Instancabile dovette esser l'attenzione, la durata sentimentale, e la viva presenza, anche psicologica, dell'artista al suo affresco.
Lo popolò, come succede, di volti famigliari; a cominciare, è probabile, dal suo. È il San Sebastiano, polposo ma non esorbitante apolline, bello d'atteggiamento e lievemente assorto, e un po' sdegnoso, di guardatura, ch'è stato riconosciuto come autoritratto dell'artista dal degno professor Gregorio Boari, cui toccò, nel 1850, il restauro del Giudizio, e che ce ne lasciò una descrizione non priva d'interesse.
Credo di non raccontar fole se confermo l'idea del Boari: questo San Sebastiano, anche se lì per lì può parer solo un tipo di generico efebismo angelicato tutt'altro che sorprendente nel Bastianino, in realtà risponde al volto che s'affaccia (più giovane, e naturale), fra la Vergine e il Sacerdote, nella Circoncisione grande di Pinacoteca; ancora, a quello che compare, accanto a un gruppo di teste, credo di famigliari, all'estrema destra in alto nel Giudizio della Certosa; e, infine, nell'angelo del bel quadro con la Vergine, Santa Lucia, San Matteo, che fu alle Monache di S. Lucia ed ora è nella Pinacoteca ferrarese, e che ritengo esattamente contemporaneo al particolare del Giudizio che ora è in questione.
Proprio il confronto con questi gruppi "intenzionali", frequenti nelle pitture dei Filippi, mi convince anche che il Bastianino dipinse, in quella parte del Giudizio, sé e i suoi: madre, padre, fratello. E credo sia simbolico il gesto del giovane atleta di stringere in pugno, con le punte volte in basso, quelle frecce: saranno state, presumo, le malevolenze con cui i nemici lo avevan martirizzato, e che ora forse Sebastiano, beato all'estrema destra del gruppo divino, vorrà dimenticare; ma, intanto, minaccia.
Guardatelo il Bastianino, bello, un po' grasso, sdegnoso, un po' effeminato, meditativo: un vero autoritratto, ideale e reale.
La stessa testa, pressoché identica di età, compare nella pala, ripeto; e anche questo è un segno di contemporaneità. Del resto, trovo che la chiesa delle Monache di Santa Lucia, costruita fin dal 1537, fu tuttavia consacrata dal vescovo Leoni il 15 aprile 1582; e, siccome il quadro del Bastianino era all'altar maggiore, è plausibile che sia stato lavorato nel tempo antecedente. Siamo, dunque, intorno alla data prevista. Del resto, il punto di maturità interiore, oltre che di fattura, è effettivamente similissimo, sia nell'affresco che nell'olio.
È la stessa madida grandiosità, cui si applica, anche meglio che pel Giudizio della Certosa, la bella frase del Barotti sui corpi «come i vetri, in un sol fiato buttati». Nella loro gonfia, potente, pacificata umanità, e nella materia, da cui la luce, anziché batterla, pare trasudare, questi dipinti non differiscono per nulla. Un vero capolavoro di modulato madore è la tunica della Vergine, né dissimile è il livello nello sfondo: colonne gravi, vastità antica nella tenda; e un silenzio dolente nel paesaggio solitario, dove le ruggini tizianesche restano a desolarsi sotto il cielo triste. Si direbbe che il Bastianino fosse, qui, attento a una pausa, a un equilibrio fra sogno e umana credibilità, da incrociare, per un momento, la strada del Veronese.
Per tornare al Giudizio, ecco come appare al Bastianino la resurrezione della carne, in queste beate. In confronto alla vivente tragedia delle lacerazioni che i corpi risorgenti aprono sul cielo livido, in Michelangelo, qui è il letargo di chi non par credere, ancora, alla propria beatitudine. Il sogno a occhi aperti, terribile e tacito, della Paolina, si muta nella triste, profonda elegia d'una carne apparentemente monda, sensualmente inutile, eppure ancora velata dei suoi umori come di un freddo sudario. Anche per queste figure, il richiamo alle apparizioni goiesche non sembra fuor di luogo, sia pur nella sostanziale diversità del sentire.
Mi pare opportuno, comunque, stabilire un'altra parentela strettissima con la maestosa Santa Cecilia, che da S. Maria in Vado passò in Pinacoteca. Certo il Bastianino si sarà ricordato, come si dice spesso, della Santa Cecilia di Raffaello; ma il richiamo è esteriore. Del tutto originale è il senso che promana da questa molle, potente virago, anche se essa è progenie di Michelangelo e Tiziano ad un tempo; e, una volta tanto, anche del Dosso. Ma, in confronto al fascino razzante delle maghe del Dosso; essa è una sorta di Iside sfatta, angosciata nella visione d'uno sfacelo appena trattenuto; con quegli angeli attorno, agitati, logori come velari che si vadan sfrangiando, con quegli strumenti grandi, e la tromba che, col suo freddo fulgore, non potrà chiamare una resurrezione; soltanto un crepuscolo degli dei.
(Il testo riproposto in queste pagine è un estratto del saggio di Francesco Arcangeli Il Bastianino, pubblicato nel 1963, a cura della Cassa di Risparmio di Ferrara, in un volume monografico dedicato al celebre pittore ferrarese, da tempo introvabile)