Avevo seguito le indicazioni e mi ero inoltrato per una strada stretta e alta, un vecchio tratturo sulla palude, ed ero giunto qui, in mezzo all'antico acquitrino che i sapienti idraulici degli estensi avevano regolato: canali, ponti, chiuse, torrioni.
Torre Abate credo sia l'ultima delle opere dell'ingegneria estense; intorno è rimasto poco di tutta quell'acqua che, di tempo in tempo, mutando le situazioni politiche ed economiche, per la gente ha significato di qui ricchezza e miseria. Per secoli, soltanto miseria; e bisognava combattere, combattere e vincere l'acqua. L'uomo è una formica che non ama la propria miseria: costruisce, produce, trasforma la terra e poi violenta l'ambiente per soddisfare il bisogno del momento. Non segue un disegno su cui è scritto "futuro". Ricchezza è il suo credo; subito, il suo imperativo.
Questo avverbio, "subito", non ha avuto senso per la gente di qui; la miseria ha avuto una lunga storia, lunga e sofferta: una miseria imposta da altri, i padroni che vengono da lontano con le armi per far valere la loro forza e depredare, soggiogare, fare di uomini liberi schiavi, con la pretesa che tutto si fa per il progresso, che la violenza, la guerra e il sopruso a volte sono necessari, come Giulio Cesare che soggiogò i Galli per obbligarli a una pace che lui soltanto aveva sconvolto. L'uomo è così. Cesare non andò nel Delta del Po.
Chissà se alcuni dei suoi vecchi militi, insieme ad altri coloni, non siano andati a coltivare la terra a Voghenza. Al Delta, peraltro, i Romani non prestarono alcuna attenzione. I veneziani sì, molti secoli dopo. Il Delta doveva essere loro, così decretarono: tutto l'Adriatico doveva essere e parlare veneziano. Dal mare guardarono avidi a Comacchio ed alle sue ricche paludi, ricche non soltanto d'anguille, ma anche, e soprattutto, di sale.
Con il sale, con le anguille, con il pesce marinato, i comacchiesi partivano a bordo delle loro grandi batane, risalivano il Po, arrivavano fino a Pavia, forse a Milano, e vendevano, anche se la loro presenza colà era quella di gente disinvolta e attenta senza troppi scrupoli ai propri affari.
Gli estensi, quando arrivarono da queste parti, pretesero dai comacchiesi una sudditanza sotto molti aspetti impietosa. Anche se poi considerato un documento falso, il rogito firmato a Mantova nel 1354 dall'imperatore Carlo IV di Boemia è pur sempre significativo della via libera loro concessa nei confronti della popolazione comacchiese.
I veneziani tagliarono il Po a Porto Viro nel 1604 per deviarlo verso il lido ferrarese destinandolo all'interrimento, malamente impressionati dai disegni già formulati dal duca Alfonso II d'Este di edificare a Mesola addirittura una grande città ed un efficientissimo emporio, ma già precedentemente avevano manifestato le loro intenzioni aggressive.
Scrive un cronista veneziano del Cinquecento che il capitano del Po, Marco Antonio Contarini, tornò a Venezia con molte barche cariche di bottino «maxime di anguille salate et altro», dopo aver bruciato duecentocinquanta case di Comacchio. Una dimostrazione di sfrontata brutalità che ancora una volta aggravava la secolare miseria. Al popolo del Delta insomma rimasero solo le anguille, di cui, peraltro, non era padrone.
Le anguille. Per secoli, pare che Comacchio e il Delta non abbiano potuto offrire altro agli eventuali visitatori. Scrittori e giornalisti di viaggi non ne hanno parlato, se non per le anguille. Curzio Malaparte, in Sodoma e Gomorra, immagina che la politica di Comacchio miri «a far di tutta l'Emilia un'immensa laguna e a seminar le anguille fino sotto le mura di Bologna».
Lo strampalato, bizzarro, Vittorio G. Rossi, fra i giornalisti italiani di questo secolo uno dei più grandi (e, per questo, forse, dimenticato), venne in queste terre per sapere come e perché le anguille, per fare l'amore, attraversino un oceano: «Non ho mai sentito di qualcuno che non sia un'anguilla che abbia fatto un viaggio di nozze così lungo»; perciò venne a Comacchio: perché «a Comacchio le anguille è come averle in tasca».
E' molto bello che a qualcuno venga la curiosità di sapere come mai un pesce abbandoni un grande e tranquillo stagno per attraversare l'oceano e andare a fare l'amore nel Mar dei Sargassi, ma non capisco perché a questi scrittori e poeti di Comacchio e del Delta non interessi altro al di fuori delle anguille. Forse perché, come aggiunge Vittorio G. Rossi, «i poeti, anche quelli che cantano le cose eteree, poi non gli fa effetto che un piatto di pastasciutta».
Il frusciante silenzio che domina Torre Abate, la retorica poesia che l'avvolge inducono a questi pensieri solitari, a chiedersi la ragione dell'operosità dell'uomo, della sua proterva volontà di costruire anche là dove non c'è altra necessità che di usare gli occhi, lo sguardo, e perdersi nella grandiosità della natura. Una natura ricca, solenne, pervasa di storie antiche e di favole, di fascinose fantasticherie.
Torre Abate è stata innalzata a due passi dal Boscone della Mesola, nel centro del quale si trova una radura, una specie di ombelico in cui non cresce un albero. Qui cadde una stella, narrano alcune fole. Qui, due giovani amanti consumarono il loro amore proibito e furono uccisi, avvinghiati l'uno all'altro, e il loro sangue, spargendosi torno torno, ha impedito per secoli che crescesse una pianta, un filo d'erba. Preferisco questa ipotesi, l'amore proibito è il sale della storia dell'uomo. E quando non si vuole che una cosa ricresca, ci si sparge su il sale: ne sanno qualcosa i cartaginesi.
Per cantare un amore proibito venne nel Delta anche un grande scrittore e regista, Mario Soldati. Fece un film con Sophia Loren, La donna del fiume, una brutta pellicola neorealista, senza poesia, senza passione, che sfruttava soltanto la selvaggia bellezza dell'attrice e maltrattava persino lo straordinario ambiente, questo paesaggio fuori dal comune, unico. Altro che Camargue.
Guardo l'acqua che si increspa sotto le volte di Torre Abate e fra le canne. Ne sono più che mai convinto: basta guardare. Qui vicino, a Goro, la coltura della vongola ha fatto ricca la gente, ne ha stravolto l'esistenza, come l'oro, un secolo fa, in America, e il petrolio. Torre Abate è rimasta, solitaria custode di altre storie, di altre filosofie.
Man mano che il mare si è ritirato, è diventata il cemento di un'antica memoria. Porto Abà - mi dicono - si chiamava questo posto, quando la torre fu costruita. C'era un porto, dunque, e, forse, un faro. Il faro dell'abate. Quale abate? Nessuno sa rispondere. Un abate venuto qui a pregare dall'Abbazia di Pomposa, alla ricerca di un luogo ancora più idoneo al silenzio e alla meditazione? Nessuno lo sa.
Non cercare risposte, sembra sussurrare il vento di mare, il vento salato. La prima volta che venni qui, era una tersa e fredda primavera, volli scrivere qualche verso: la solitudine e il misterioso sussurro della natura fanno venire queste strane idee. Rilessi il foglietto, poi feci come avevo visto fare nei templi buddisti, in Oriente: si prende una preghierina disegnata su un pezzo di carta (là, scrittura e pittura non si possono scindere, sono lo stesso linguaggio), poi la si mette sul braciere all'ingresso del tempio e si lascia che bruci: se la cenere vola in alto, allora vuoi dire che Dio ha accettato la preghiera; se cade in basso, sono problemi tuoi. Bruciai i miei stupidi e retorici quattro versi. Guardai. Il vento prese le poche ceneri e le portò via, sulle tracce degli uccelli di passo. Vidi che scomparvero verso l'orizzonte. Così è fatta la poesia, mi dissi.