Dopo la Devoluzione

Scritto da  Luciano Chiappini

Una veduta di Comacchio di Giorgio Fossati, incisa dalla comacchiese Maria Fabbri nel 1755, Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea.Il recupero di Ferrara e di Comacchio negli obiettivi della corte e della diplomazia estense, dopo il 1598.

Quando, nel 1598, Cesare d'Este, compresa l'inutilità di ogni resistenza alle intimazioni papali e alle minacce militari, lasciò definitivamente Ferrara per raggiungere Modena, pur riconoscendo, di fatto, la presa di possesso pontificia, ben si guardò dal dichiarare la propria rinuncia formale, tenendo, così, aperto il discorso non solo in merito al diritto di conservare i beni allodiali, cioè privati, propri e della famiglia; ma, soprattutto, alla questione relativa al territorio di Comacchio, secondo il suo parere da ritenersi feudo imperiale, non papale, e, quindi, non soggetto alle rivendicazioni di Roma.

 

Una volta a Modena, gli estensi non cessarono di tenere in piedi la questione; ma, di fatto, per tutto il Seicento la battaglia fu solo cartacea, sostanzialmente condotta a colpi di fioretto a mezzo di scritti e dibattiti fra la corte e la curia romana; oppure, indirettamente, attraverso un velleitario e spesso ingenuo lavorio diplomatico.

Senza dubbio, uno degli obiettivi del duca Francesco I fu proprio quello di creare le premesse per un ritorno a Ferrara e a Comacchio. E, poiché questo suo programma era conosciuto un po' ovunque, la diplomazia italiana ed europea sapeva bene che, per tenersi amici gli estensi, occorreva in qualche modo rispolverare questa vertenza.

Il duca, in occasione della cosiddetta guerra di Castro, si era dato da fare per comporre le divergenze fra Odoardo Farnese e i Barberini, ma si battè, poi, con tenacia per la creazione di quella lega fra Venezia, Toscana e Modena, concepita per assicurare pace all'Italia, ma ben presto confluita nella coalizione dei Farnese contro papa Urbano VIII.


Una mappa di Ferrara nel XVIII secolo, dal Fondo Crispi della Biblioteca Comunale Ariostea.A prescindere da ogni altra considerazione, gli alleati al di là dei propri confini preferivano avere lo Stato Pontificio, piuttosto che un ducato come quello estense, signoreggiato da un signore irrequieto e temibile. Francesco attacca lo Stato della Chiesa, ma Venezia lo frena, anche perché agli uomini della Serenissima poco importava, come andavano sussurrando ironicamente, che Ferrara facesse «gli catarigoli» al duca.

Le memorie allora pubblicate sulle ragioni di casa d'Este intorno a Ferrara, Comacchio, Cento e ad altri luoghi, la risposta della Curia romana e l'immediata controrisposta del duca non sortirono, ovviamente, effetto alcuno; come, in occasione della firma del trattato di pace, a Ferrara, il 31 marzo 1644, risultò puramente formale, se non addirittura derisoria, l'informazione segreta offerta a Francesco della buona volontà da parte della Francia e della Lega di considerare favorevolmente le sue rivendicazioni sui territori lasciati nelle mani della Chiesa da Cesare d'Este.

 

Maldestramente, Francesco era passato dall'accordo con la Spagna a quello con la Francia, ma le sorti della guerra gli furono avverse, costringendolo alla pace del 27 febbraio 1649, che lo impegnò a rilasciare le truppe francesi, a non stringere più alleanze con i nemici della Spagna e ad adoperarsi perché il fratello, cardinale Rinaldo, rinunciasse alla «protezione di Francia». Durante le trattative che seguirono a Madrid, l'incaricato estense, conte Francesco Ottonelli, riportò ancora alla ribalta le mai sopite aspirazioni estensi su Ferrara e Comacchio, ma non ottenne successi di sorta, considerata la scarsa fiducia nutrita dagli spagnoli nei confronti del duca che, con disinvoltura, un anno prima li aveva traditi.

Del resto, il carattere di Francesco I era quello che passò alla storia. Vittorio Siri, suo contemporaneo, autore della poderosa opera Del Mercurio overo della Historia de' concorrenti tempi, lo chiama in causa anche a proposito della piaga ancora dolente della perdita di Ferrara: «fra i ritratti dei principi della sua casa non tollerò giammai pendente dalle muraglie delle sue stanze quello di Cesare per sua pusillanimità, et inertia nella cessione di un sì bel ducato come quello di Ferrara alle terrifiche minacce di un esercito Pontificio, quanto per la numerosità de' soldati considerabile tanto per la sua inesperienza dispregevole, et incapace di mettere in lubrico di perdita non che d'espugnare una Piazza nella qualità di Ferrara, quando bastava solamente la semplice parata di difesa per muovere molti Principi, e quantità di cervelli sfacendati, bravi, malevoli a' Preti per aiutarlo, et in particolare la Repubblica che si saria scossa al romore, et aperto gli occhi chiusi col sonnifero del cardinale Contarini che cedette al Papa l'interesse della sua patria per i propri avanzamenti, e profitti...»

 

Si fa presto a comprendere come questo sia, più che il giudizio avveduto e ponderato di un politico, lo sfogo presuntuoso e approssimativo di un militare.
Ma è agli inizi del Settecento che indagine storica e obiettivi politico dinastici si intrecciano sullo sfondo di avvenimenti che interessano l'Italia e l'intera Europa. Il duca Rinaldo sposa, nel 1695, la principessa Carlotta Felicita, figlia di Gianfederico, duca di Brunswick e Lüneburg, e nipote di Ernesto Augusto Elettore di Hannover, realizzando così, dopo oltre sei secoli, il ricongiungimento dei due antichi rami di casa d'Este discendenti dallo stesso ceppo di Alberto Azzo II.


Ludovico Antonio Muratori.Riesumandone, conservandone e sviluppandone le memorie, egli intende esaltare il rango della propria famiglia, senza tralasciare, peraltro, l'ipotesi di potersene avvalere per eventuali rivendicazioni connesse con gli avvenimenti politici e bellici del momento. Fra il 1702 e il 1707, la guerra di successione spagnola aveva portato all'occupazione di Modena da parte delle truppe francesi, cui, nel 1708, succedettero gli austriaci. Fu proprio con il duca Rinaldo I che il ducato estense puntò senza incertezze nella direzione dell'impero, venendo così a costruire sul piano politico e militare un trampolino di lancio e, contemporaneamente, una base sicura per la politica imperiale in Italia.
Quando l'imperatore Giuseppe I, il 31 maggio 1708, in risposta alle censure spirituali di papa Clemente XI, aveva ordinato al generale Bonneval di entrare in Comacchio e di estendere poi l'occupazione all'intero territorio, sembrarono porsi le premesse per un buon esito delle rivendicazioni estensi.

 

Ma è chiaro che con quell'operazione non si intendeva tanto compiacere i disegni del duca Rinaldo, quanto piuttosto riaffermare i diritti imperiali su Comacchio come su Parma e Piacenza, creando problemi a papa Clemente XI. In altre parole, l'imperatore aveva tutto l'interesse a coltivare le mire estensi per moltiplicare dubbi e difficoltà alla corte romana, ma niente di più, mentre Modena, naturalmente, sperava in più gravi rotture fra Vienna e Roma.

A questo punto si inserisce attivamente nella vicenda l'alta figura di Lodovico Antonio Muratori, per volere di Rinaldo richiamato a Modena da Milano, dove era bibliotecario all'Ambrosiana, per riordinare l'archivio estense e per condurre le imponenti ricerche che lo resero famoso. Nel corso di questa lunga fatica egli si trovò in rapporti stretti, anche se non del tutto sereni, con Goffredo Guglielmo Leibnitz, non solo eminente filosofo, ma anche profondo erudito.

Autore di uno scritto intorno alla comune origine delle due case di Brunswick e d'Este, al Leibnitz, fra l'altro, non furono estranei utopistici, anche se ben definiti, disegni politici, considerando ampiamente agevolata la possibilità di un'affermazione dell'impero in Italia non solo dal recupero estense del ducato ferrarese, ma anche dal suo estendersi verso il mare Tirreno con la conseguente formazione di uno stato compreso fra i due mari e fedele alla politica imperiale.

Il Muratori e lo stesso Leibnitz sostennero le ragioni estensi, mentre da Roma attaccava o contrattaccava monsignor Giusto Fontanini, docente di eloquenza e, in seguito, vescovo di Ancira. In sintesi, alle obiezioni di parte curiale si rispondeva pressappoco così.

Andavano sostenute le tesi per cui Comacchio era indipendente da Ravenna; non era chiaro su quali specifici territori si fosse estesa la donazione di Pipino alla Chiesa, nel 755, e neppure la relativa garanzia giuridica (si trattava di "dominium plenum" o soltanto di "dominium utile", cioè riservato al solo godimento?); Carlo Magno aveva continuato a governare quelle terre anche dopo la donazione; non era vero che Comacchio appartenesse al distretto di Ferrara, perché il vicariato di Ferrara era stato acquisito dagli estensi molto prima di Comacchio, che aveva rappresentato un'entità giuridica a parte; in ogni caso, doveva prevalere la prescrizione ultracentenaria (il possesso estense indisturbato di Comacchio dal 1325 al 1598); gli estensi, due volte conquistatori di Ferrara, erano stati eletti dal popolo; Ferrara venne concessa agli estensi da papa Alessandro IV come bene allodiale, e quindi trasmissibile per via testamentaria; si doveva confermare la validità del terzo matrimonio di Alfonso I e ribadire, quindi, l'illegittimità dell'occupazione papale di Ferrara nel 1598.


Il frontespizio di un'opera muratoriana dedicata alla controversia su Ferrara e Comacchio.Di fatto, la situazione sembrava volgere sempre più celermente contro le rivendicazioni estensi. E, se è vero che l'occupazione di Comacchio da parte imperiale sarebbe cessata solo nel 1725, è altrettanto vero che, proprio dietro richiesta di Roma, fu rimosso dal comando del presidio comacchiese il generale Bonneval, curiosa figura di uomo d'arme piemontese che più tardi concluderà la propria vicenda con una conversione all'islamismo. Ormai ogni ragionevole speranza risultava vana: la partita era perduta. Il Muratori ne soffriva, e nelle lettere sfoga con una certa libertà la sua delusione: «Già Comacchio si fa ito [perduto], E viva la gola e l'onnipotenza del denaro!».

E, nelle Antichità Estensi, così si esprime: «Non cessavano i Romani [la Curia di Roma] di lavorare con segrete batterie e gagliardissime mine per guadagnare il loro punto alla Corte cesarea...

 

Il fine di questo strepitoso litigio fu quale poteva aspettarsi in materia di Stati nell'ordinario corso delle umane faccende, nelle quali per lo più il debole cede al forte».
E significativo che un uomo del suo livello, censurando la presunzione di quanti avevano attribuito alla mano miracolosa di Dio il recupero di Ferrara da parte della Chiesa, nel 1598 abbia poi affermato che, comunque, se si fosse voluti scendere su quel terreno, avrebbero avuto più ragione quanti avessero ritenuto opera dello sdegno divino l'incendio della torre Marchesana presente il Papa a Ferrara, l'inondazione di Roma avvenuta poco dopo e, infine, l'estinzione della famiglia Aldobrandini, verificatasi in breve volgere di tempo. Tanta era in lui la convinzione che «nella sostanza la Casa d'Este ha ragioni da vendere», che portò avanti la sua battaglia fin che ebbe vita.