L'altro giorno a Polesella

Scritto da  Guido Fink

Clara Calamai e Massimo Girotti in una scena drammatica di Ossessione, di Luchino Visconti.Ferrara, giugno 1942, il giovane Luchino Visconti gira "Ossessione", film capostipite del neorealismo.

 

Ormai ci siamo abituati, i film girati a Ferrara sono già parecchi, e l'Italia tutta è stata battuta palmo a palmo dal cinema non solo italiano, a cominciare dai tempi lontani in cui gli americani di Paisà ce l'hanno fatta scoprire, risalendola dalla Sicilia al Delta del Po.
Ma in tempi ancora più lontani, quando la guerra mondiale poteva ancora sembrare una delle tante sciagurate avventure oltremare del nostro Duce, e la città si illudeva di rimanere sempre avvolta nelle sue nebbie protettive e nei suoi quieti ritmi provinciali, un giovane regista sceglieva di girare a Ferrara (e a Codigoro, e a Comacchio) il suo primo film, ispirato, senza poterlo affermare nei titoli o nei manifesti, a un romanzo americano a quell'epoca non ancora tradotto (gli era stato prestato in traduzione francese dal grande Jean Renoir, di cui era stato assistente).


Era l'estate del 1942 (le riprese, iniziate il 13 giugno, si sarebbero concluse il 10 novembre), e il film era Ossessione (il primo titolo prescelto, Palude, era stato immediatamente cambiato per ordini censori): un film dove le campagne assolate della nostra pianura si ponevano come equivalente nostrano dell'originaria ambientazione californiana, e avrebbero comunque segnato, scabra cornice di un'esasperata vicenda di adulterio e morte, una rottura non più sanabile con la pratica allora consolidata e la consolante artificiosità dei melodrammi e delle commedie realizzate negli studi di Cinecittà o nell'adiacente Centro Sperimentale.


Luchino Visconti e l'aiutoregista Giuseppe De Santis sul set di Ossessione.Nascita della gloriosa stagione del neorealismo? Può darsi, anche se, nonostante l'importanza teorica e ideologica del lavoro svolto dalla redazione della rivista "Cinema" - un lavoro al quale Luchino Visconti aveva partecipato in modo tangenziale, ma del quale molti fra i suoi futuri collaboratori e assistenti erano stati protagonisti - personalmente ritengo che quel che animava il clima e gli scenari di Ossessione fosse un grande e non inconfessato desiderio di rivaleggiare con certe atmosfere del cinema francese e certi paesaggi del cinema americano (per lo più ripresi in studio con il sistema allora dominante del "trasparente"): del resto, quel che stava avvenendo contemporaneamente nella nostra letteratura non era molto diverso, con quei Paesi tuoi di Pavese, per sua stessa confessione modellato, vedi caso, sullo stesso autore americano, James Cain, a cui Visconti stava involontariamente rubando il plot di Ossessione.

 

Ormai, dicevo, ci siamo abituati. Ma allora? Anche nel dopoguerra, ricordo, entusiastici mormorii serpeggiavano nella platea e ancor più nella prima e seconda loggia del Nuovo, quando Silvana Mangano, splendente mondina di Riso amaro, alla domanda: «Di dove sei?», rispondeva con uno squillante: «Di Ferrara!», e risatine più educate all'Apollino salutavano  Lucia Bosè, durante la prima di Cronaca di un amore (nella quale mi ero infilato illegalmente, non avendo ancora i sedici anni previsti dalla legge), quando chiedeva a un titubante Massimo Girotti: «E se tu andassi a Ferrara da Matilde? È l'unico mezzo per sapere tutto al più presto.»


Si gira sulle rive del Po.Questo secondo caso era, comunque, in certo senso, più scontato: si sapeva che il regista del film, il giovane (in realtà quasi quarantenne) Michelangelo Antonioni, era un concittadino.

Posso, invece, solo immaginare le reazioni della platea dell'Apollo quando le prime proiezioni di Ossessione, nel 1943 - a cui non potevo certo assistere: non solo non avevo gli indispensabili sedici anni, non ne avevo neanche la metà - avrebbero rivelato fin dai titoli di testa la strada nazionale per Padova, pochi chilometri oltre il Po, nei pressi dell'ex Dogana; e una delle prime battute del Bragana (Juan De Landa, doppiato con accento bolognese da Gino Cervi) avrebbe evocato una realtà strettamente locale: «Se ne sentono tante, di questi tempi... Anche l'altro giorno, a Polesella, uno ha rubato in una casa... Poi non l'hanno più trovato: eh, c'è anche sul giornale.»

 

No, non riesco a immaginarlo: prima di tutto, a quell'epoca, si entrava al cinema a tutte le ore, anche a metà film; poi, nel 1943, c'erano ben altri pensieri, e Ossessione, malvisto dalla censura cattolica più ancora che dai fascisti, avrebbe avuto vita brevissima sugli schermi (a Salsomaggiore, è ben noto, l'esercente aveva subito tolto il film dal cartellone, chiamando anche il vescovo a benedire la sala).

Ero ancora più piccolo, ma ricordo bene, in una tarda mattinata del giugno 1942, davanti alla Sinagoga: «Signora, signora,» dicevano concitati a mia madre, «ci faccia guardare dalla finestra, c'è la Calamai nel negozio di fronte, lì da Franceschini!»

Anch'io, naturalmente, riuscivo a infilarmi in quell'imprevisto assembramento e a sbirciare, sporgendomi sulle punte dei piedi dal davanzale: tutto inutile. L'attrice, vista la folla che si era rapidamente riunita in via Mazzini, aveva chiesto e ottenuto di uscire dal retro del negozio, in via Contrari. Sapevo bene chi fosse Clara Calamai, la sua immagine in pose diverse era presente nella mia collezione di foto e réclames.


Luoghi di Ferrara in Ossessione: Clara Calamai e Massimo Girotti davanti al Castello.Ma, certo, il suo nome, pur mitico, non lo era quanto quello della Garbo, della Dietrich o anche di Michèle Morgan, le attrici preferite di mia madre, che aveva una speciale devozione per il cinema francese e non andava che di rado a vedere film nostrani, dove, oltretutto, diceva, il sonoro in genere era cattivo (il doppiaggio era evidentemente più confortevole della presa diretta dell'epoca).
Solo dopo molti anni, dai libri, dai giornali e dalle interviste televisive, avrei appreso i particolari di quelle giornate, e del travagliato inizio della lavorazione: memorabili, in questo senso, le dichiarazioni della stessa Calamai, nel ciclo di proiezioni diffuso dalla Rai a dieci anni dalla morte del regista, sulla notte agitata trascorsa, sic, «in quello squallido albergo di Ferrara» durante la quale ben tre attrici si trovavano, pur ignorandosi tra loro, sotto lo stesso tetto, in attesa di interpretare lo stesso molo: una, la Magnani, disperatamente voluta dal regista anche se troppo visibilmente incinta; un'altra, la Denis, molto amica di Visconti che, peraltro, la ringraziava e la rispediva a Roma a occuparsi, visto che era libera, dei suoi cani e delle sue piante; la terza, appunto, la Calamai, che Libero Solarali era andato a prelevare a Firenze dal set de I masnadieri, e che si sentiva accettata, ma a malincuore, dal regista: «a me mi sgridava sempre, a Girotti invece perdonava tutto, e io cretina che mi ero disperatamente innamorata di lui, fin da quando mi ha vista e mi ha detto: 'niente quei modelli, corra subito in qualche botteguccia del ghetto a comprarsi un vestitino nero da pochi soldi.'»

 

Non senza mia sorpresa: per me, quel negozio non era una "botteguccia del ghetto", ma una boutique, e l'albergo di cui sopra dall'esterno non mi pareva niente squallido. Ma tant'è.


Clara Calamai in via Saraceno.Può essere curioso confrontare il modo in cui il setting ferrarese del film realizzato viene percepito, e in certi casi, descritto, da chi si occupa professionalmente del film e ferrarese non è.

La minuziosa trascrizione della sceneggiatura del film, effettuata da Enzo Ungali nel primo volumetto della Nuova Universale Cappelli (1977), identifica correttamente con «Esterno giorno. Esterno giardino di Ferrara» la prima delle sequenze ambientate in città, quella in cui Girotti, in attesa della Calamai che è andata all'agenzia di assicurazioni, incontra la ballerina del Verdi, Anita (Dhia Cristiani).

Ungari accenna a un «campo composto da varie panchine di legno su cui alcune persone prendono il sole»: non cita nemmeno il Castello Estense, ben visibile sullo sfondo come "marca" di identificazione (più o meno come potrebbero esserlo la Torre Eiffel per Parigi o Times Square per New York) e si sofferma, invece, sul passaggio dei due carretti di gelati - il primo sormontato da un drago bianco; il secondo, da un drago nero - un dettaglio che vari critici e studiosi hanno caricato di significati simbolici, mentre i ferraresi della mia età ricordano bene il gelataio Gigetto e sanno come quei draghi di diverso colore non fossero certo un'invenzione viscontiana.

Lino Micciché, nell'ampia e interessantissima analisi di Ossessione contenuta nel suo Visconti e il neorealismo (1990), ricostruisce così la fuga di Girotti da Ferrara, dopo la scena davanti alla casa di Anita: «Gino scappa attraverso i tetti, correndo poi verso la stazione e da qui - vistala presidiata dalla polizia - lungo una strada adiacente, dove riesce a balzare su un camion in corsa.» Ma noi sappiamo bene che quella strada - in realtà piazza San Giorgio - è "adiacente" alla stazione solo nella geografia immaginaria del film, e che il camion sta andando in direzione opposta a quella che Gino deve prendere per tornare alla trattoria.

 

I protagonisti di Ossessione: Clara Calamai.L'unica strada che viene sempre citata in modo corretto è quella dove abita Anita, al numero 15, via Saraceno: anche perché viene espressamente nominata nel film. E quella scena - Girotti e Dhia Cristiani che escono dal numero 15, il drammatico incontro con la Calamai davanti all'allora Caffè Tripoli - devo proprio averla vista girare. Ho un confuso ricordo di un assembramento in via Saraceno, più o meno all'angolo con Borgo di Sotto, e di mia madre che mi indica un'anziana conoscente, la signora Coen, che sta sorseggiando un caffè, seduta a un tavolino del bar: niente di eccezionale, solo che la tazzina del caffè è vuota, la signora Coen fa solo finta di bere, lo ha già ripetuto quindici volte: questo è il cinema. E viene compensata per questo: si parla, è incredibile, di venti lire al giorno.

 

Verrà il giorno, molti anni dopo, in cui condurrò amici e visitatori capitati a Ferrara, specie se cinefili, in un pellegrinaggio viscontiano: l'ex Dogana, la piazzetta vicina al Castello, l'ex Caffè Tripoli, che ora si chiama Napoli. Ma quel momento avrò già visto Ossessione decine di volte, avendo imparato sulle mie bibbie di allora - "Cinema" e poi "Cinema nuovo" - che si tratta del film capostipite del neorealismo, del preannuncio della caduta del fascismo, del "25 luglio del cinema italiano": forse non ho ancora letto il libro di Geoffrey Nowell-Smith che, specie nell'edizione rivista del 1973, nega qualsiasi rapporto fra il neorealismo e il primo film di Visconti, riletto come un melodramma naturalistico di passione e tradimento.

Anche allora, comunque, nel film vedo già altri aspetti che mi intrigano di più: il rapporto con Cain e la narrativa americana; certe forme linguistiche - le ricorrenti false soggettive, esempio, con il personaggio guardante che entra in campo all'ultimo momento - che mi sembrano preannunciare il cinema moderno; i veli neri in cui si avvolge la Calamai (altro che vestitini da botteguccia del ghetto) che fanno di Giovanna la prima eroina sacrificale del grande teatro viscontiano, prima di Maddalena e di Livia e di Nadia (o della Pupe di Il lavoro, che ne costituisce una sorta di poscritto dolorosamente parodico).


I protagonisti di Ossessione: Massimo Girotti.E, a quel punto, il pellegrinaggio per le vie di Ferrara e dintorni sarà già integrato da ulteriori percorsi: il liceo, il circolo del tennis e il palazzo di via Ercole d'Este dove il detective privato di Cronaca di un amore cerca di svolgere la sua inchiesta sull'adolescenza ferrarese di Paola Molon - Lucia Bosè, la farmacia, il bar FIS, il muretto del Castello della Lunga notte del '43, dove dramma e melodramma si mescolano nella tragedia della storia, e ai brutti ricordi personali.
Scrivo queste righe - irrilevanti, me ne rendo conto - in un paese lontano, dove Ossessione non ha mai circolato, per ragioni legate ai diritti venduti da Cain alla MGM e poi rivenduti ai realizzatori dell'ennesimo remake, quello diretto da Rafelson e sceneggiato da David Mamet: lo stesso Cain, poco prima di morire, mostrando di non conoscere le ragioni per cui Visconti non lo aveva nemmeno potuto citare nei credits, si augurava che «that fellow in Italy» fosse stato messo in galera.

Ne esiste, comunque, una copia sottotitolata - malissimo - al Museum of Modern Art, dove la battuta «anche noi siamo ferraresi», rivolta al Bragana da alcuni avventori del caffè di Ancona dove si svolge il concorso lirico, viene mirabilmente tradotta «we too are iron workers», qualcosa come «anche noi siamo lavoratori del ferro». E tanto - per il nostro eventuale orgoglio campanilistico - dovrà, purtroppo, bastare.

Da Guido Fink