La parva domus di Ludovico Ariosto

Scritto da  Luciano Chiappini

La casa dell'Ariosto.Alcune ipotesi in merito all'iscrizione sulla facciata della casetta di via Mirasole.

La conoscono tutti, la casetta di via Mirasole, i più per averne letto sui libri di scuola; molti per averla visitata di persona in quella zona dell'Addizione erculea oggi popolosa, un tempo quasi appartata, con tanti orti e stradine silenziose. L'Ariosto, come si sa, era sempre in cerca della quiete, lui, il poeta sublime della fantasia, costretto dalle vicende della vita a praticare le realtà più opache e fastidiose: processi, rapporti estenuanti con ì legulei, complicate ripartizioni di beni fra familiari e, poi, i legami con la corte. Tutte occupazioni a cui era obbligato per sbarcare il lunario e farlo sbarcare ai fratelli che erano numerosi.


Gliene capitarono di tutti i colori, al servizio degli estensi e, da ultimo, quel governo della Garfagnana fra sudditi disubbidienti e briganti matricolati durato tre anni, che aveva messo a dura prova la sua pazienza, il suo equilibrio, il suo senso della giustizia, qualificandolo, peraltro, come uno dei funzionari più seri, specchiati, galantuomini dell'intero ducato. Di ritorno a Ferrara, si era dato da fare per coronare finalmente il sogno di abitare in una casa modesta, ma tutta sua e, soprattutto, tranquilla.

Fu così che, a Pasqua o a San Michele del 1529, abbandonata la contrada di Santa Maria di Bocche (la chiesa, oggi, non esiste più) e la casa in cui abitava dal 1484 (attualmente in via Gioco del Pallone al numero civico 31, un tempo anche al 33, poi distrutto dai bombardamenti), si trasferì insieme al figlio Virginio in contrada Mirasole, dove aveva acquistato un piccolo stabile.
E qui conviene sostare un poco. La casetta era appartenuta a un tal Bartolomeo Cavalieri, cortigiano di Ercole I, ambasciatore estense in Francia, autore di un diario, poi andato perduto, e uomo non privo di interessi letterari. Alla sua morte, la famiglia, lasciata in difficoltà finanziarie, vendette a Ludovico quella casetta, nella quale, una volta terminati i restauri e le sistemazioni, il poeta andò ad abitare, occupando, a quanto sembra, la camera da letto a sinistra al piano superiore, ornata di intrecci floreali. Nel retro l'edificio era allietato dal verde di un bel prato a cui si accedeva anche dalla via San Benedetto, perché Ludovico si era premurato di acquistare un orto che consentisse all'abitazione un certo isolamento, propiziandogli quiete e silenzio. Virginio, poi, in fondo al viale, fece erigere una cappella per seppellirvi il padre, ma il sacello venne stoltamente abbattuto nel Settecento da un rozzo proprietario.

Già la facciata della casa presenta una suggestione tutta particolare per armonia, semplicità e serenità. L'osservatore, però, è subito incuriosito da due iscrizioni. La prima, entro un quadrato di terracotta posto sotto il cornicione, suona così: "Sic domus haec Areosta propitios Deos habeat olim ut Pindarica" ("Così, questa casa degli Ariosti abbia propizi gli dei come, un tempo, quella di Pindaro") e non richiede tanti commenti, introducendoci immediatamente nella magica atmosfera umanistica e rinascimentale. La seconda, rappresentata da un'incisione inserita nei primi decenni dell'Ottocento nella cornice fra i due piani (in sostituzione di un'altra, non si sa quando, come e perché scomparsa), contiene il famoso distico riportato in tutte le antologie: Parva sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non sordida; parta meo sed tamen aere domus ("Piccola, ma adatta a me, a nessuno di danno e pulita; portata a compimento con il mio denaro").

È subito d'obbligo una domanda: chi ha apposto questa scritta? In genere si dice e si legge che sia stato lo stesso Ariosto. Ma non pare che le cose stiano così. Con tutta probabilità - le motivazioni a sostegno di questa tesi sono fondate e convincenti, anche se qui non vale la pena di riportarle - l'iscrizione apparteneva alla facciata della casetta già all'epoca della proprietà del Cavalieri, il quale non è escluso avesse ricevuto il testo da qualche letterato amico suo, come per esempio, quel Dionigi dall'Aquila conosciuto quale autore di un distico assai simile ("Aere meo, arte mea, Dis gratia, non alieno est/ Parta domus: parva est, AT satis ipsa mihi").

Ma c'è di più. Qualcuno, sostenendo la tesi della paternità ariostea, ha ravvisato in quelle parole l'intenzione da parte del poeta di rimproverare gli estensi per non aver riconosciuto con adeguate gratificazioni i suoi meriti o, addirittura, per aver esercitato nei suoi confronti evidenti soprusi nell'occasione della disputa circa il possesso dei fondi rustici denominati "Le Arioste".

Ora, non pare ammissibile una tale supposizione, quando si pensi ai vincoli di servizio e di lavoro che ancora legavano il poeta alla famiglia dominante in Ferrara, durati fino alla sua morte; vincoli che, se non escludevano in lui qualche moto di fierezza e di indipendenza a rivendicazione della propria dignità personale, mai avrebbero compatito una presa di posizione così decisa e, per di più, esternata in una iscrizione muraria.

Mi sia consentita una riflessione. Tutte queste notizie sono contenute nella Vita di Ludovico Ariosto di Michele Catalano, uno studioso che sapeva abbinare alla missione di insegnante (lo fu alle Scuole Normali, poi all'Istituto Magistrale di Ferrara) quella di autentico ricercatore e di validissimo critico.

A mio avviso, poche biografie, nell'ambito della letteratura italiana, possono venir paragonate a questa: un'opera straordinariamente documentata, di rara acutezza metodologica e di appassionata ammirazione per il poeta e l'uomo. Sì, anche per l'uomo: perché Ludovico Ariosto - letterato, poeta, regista teatrale, governatore - va ricordato per la calda umanità, se è vero che in una lettera dalla Garfagnana, quando era afflitto dai problemi più scottanti e doveva amministrare la giustizia, fra tante difficoltà scriveva: "Io 'l confesso ingenuamente ch'io non son uomo da governare gli altri, ché ho troppa pietà.".