Il prete che inventò il tricolore

Scritto da  Gian Pietro Testa

Giuseppe CompagnoniGiuseppe Compagnoni: una figura di patriota, oggi, purtroppo, dimenticata.

Il 7 gennaio 1797, dieci giorni dopo la proclamazione della Repubblica Cispadana "una e indivisibile", il Congresso dei cento rappresentanti di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, riuniti in quest'ultima città per discutere la nuova costituzione, simile ma non uguale a quella che Napoleone aveva portato dalla Francia, adottò come bandiera il bianco, rosso e verde. La storia di questo avvenimento, primo atto concreto di una ancora non convinta coscienza nazionale italiana, non sempre ricorda chi sottopose ai rivoluzionari l'idea del tricolore, ottenendo, peraltro, entusiastiche adesioni: si chiamava Giuseppe Compagnoni, era nato a Lugo il 3 marzo 1754, e a Ferrara, sotto il nuovo governo napoleonico, ricopriva il ruolo di segretario dell'Amministrazione Centrale.


Nulla di straordinario, se non fosse che Giuseppe Compagnoni, il più estremista nella battaglia contro il potere temporale della chiesa, era un prete. Certo, un prete che veniva dalla Romagna preanarchica, ma che viveva in una città, Ferrara, dove conservazione e conformismo erano, anche allora, parte di una cultura abbastanza diffusa. Basti pensare che il referendum per l'approvazione della nuova Costituzione (19 marzo 1797) nella città estense diede un risultato del tutto diverso rispetto alle altre città cispadane: 76.382 voti favorevoli e 14.259 contrari; solo a Ferrara i "NO" furono più numerosi dei "sì": 1658 contro 1167. Insomma, se fosse stato per Ferrara, la Repubblica Cispadana non si sarebbe mai fatta. Tuttavia era la patria ideale del tricolore: una contraddizione fra le tante di cui i ferraresi si sono resi protagonisti nel corso di una storia che li ha visti o pesantemente addormentati all'ombra del potere, oppure, per brevi momenti, fieramente bellicosi.

Nemmeno così, d'altra parte, la Costituzione piacque al clero. A Ferrara, il cardinale Mattei, che certo non brillava per l'apertura delle proprie idee, di fronte al principio costituzionale, evidentemente considerato luciferino, secondo cui "a nessuno può essere impedito di dire, scrivere, stampare i suoi pensieri", commentò duramente che "questa proposizione è contraria al diritto divino, che ha la chiesa di impedire che i suoi figli siano esposti a un prossimo pervertimento... quindi la detta proposizione è eretica... è anche lesiva dell'autorità della Chiesa, esercitata mai sempre nel proibire manoscritti e stampe contro la fede, i buoni costumi, e nel condannare anche le opere e gli autori."

E allora dobbiamo chiederci come potessero convivere in città due personaggi come Compagnoni e Mattei, anzi: come il primo potesse sopportare l'autorità del secondo, e il secondo come potesse reggere un tal insubordinato. Dobbiamo pensare che ognuno dei due fingesse che l'altro non esistesse e che l'accusa di eresia fosse lanciata genericamente dal cardinale, il quale, forse, non osò concretamente toccare quel pretaccio romagnolo, dotto eversore della fede. Pretaccio o ex pretaccio? Le cronache non sono precise. Certamente IN quel periodo Compagnoni si considerò totalmente fuori dalla chiesa e abbandonò l'abito talare; ma, dalle vicende della sua vita e dagli atti compiuti si evince che dentro di sé, lo straordinario personaggio di Lugo continuasse a considerarsi un religioso. Lo dimostra un fatto: poiché la Costituzione Cispadana proibiva - come aveva voluto Compagnoni - l'affidamento di cariche politiche ad appartenenti al clero, il sacerdote, o ex sacerdote che fosse, abbandonò i ruoli istituzionali già ricoperti e chiese che l'università ferrarese creasse per lui la cattedra di Diritto costituzionale, ciò che fu fatto, pur fra furiose polemiche. Fu la prima cattedra in Europa, e quindi nel mondo, di Diritto costituzionale; la seconda venne istituita a Parigi, ma più di trent'anni dopo.

 

Frontespizio di un'opera politica del Compagnoni.Si concludeva così, con un riconoscimento ufficiale, la lunga battaglia che Compagnoni aveva cominciato giovanissimo, errando di città IN città - Bologna, Torino, Venezia - alla ricerca di luoghi dove l'ambiente fosse illuministicamente più liberale e, come qualche volta accade nella vita, otteneva invece il successo dove più difficile erano le condizioni per la ristrettezza delle idee della classe dominante. Il breve periodo in cui tenne la cattedra fu ricco di iniziative e di esaltazione culturale. Lezioni, conferenze, prolusioni, il Giornale del basso Po, di cui uscirono venticinque numeri e che voleva ripetere la fama che si era conquistato il Mercurio d'Italia, a cui aveva collaborato il giacobino Ugo Foscolo.

Nella prima orazione tenuta all'università, pur attendendo ancora la firma del contratto, Compagnoni arringa gli studenti: "Grande argomento a bene sperare di voi, o giovani cittadini, è la prontezza con la quale, nonostante i bassi intrighi dei nemici della libertà e degli uomini, siete accorsi a udirmi".

Di quali intrighi spiega più avanti: "Sì bella e salutare istituzione era da' frati e da' preti e dalla numerosa ciurmaglia ignorante riguardata come un'opera d'iniquità, e costoro a dozzine corsero per tutte le CASE ove erano giovani IN istato di venire a quella scuola, dando ammonizioni caritatevoli dirette a salvarli da tanto flagello".

Lo scontro di Compagnoni, seguace di Rousseau, giusnaturalista convinto, con le istituzioni di un potere repressore e liberticida divenne insanabile: "Eravamo fatti soggetti a due legislazioni [diritto canonico e diritto civile, ndr] opposte talora nei mezzi e sempre nei fini, eravamo dati IN balìa di due autorità che, IN lotta ordinariamente fra loro, solo si accordavano di opprimerci". Sostenne il patto sociale, ma, deviando da Rousseau, affermò la bontà della democrazia rappresentativa. Le sue lezioni approfondirono il concetto di libertà, indipendenza, sovranità popolare. Fu contro la pena di morte. Dopo aver abbandonato la cattedra ed essere stato eletto deputato della Repubblica Cisalpina, arrivò a proporre la legalizzazione della poligamia, conforme, disse, al diritto naturale.

La sua stella si spense definitivamente con la fine di Napoleone, che, forse, per il prete giacobino significò la fine delle speranze e delle illusioni. A Ferrara tornò il potere prerivoluzionario; nel 1809 il tentativo di una nuova rivoluzione nel territorio ex estense si risolse con una strage immane da parte delle truppe austriache comandate dal generale Grabinski. Centinaia furono i ferraresi massacrati, anche dopo la carcerazione nella famigerata fortezza.

Compagnoni ebbe la forza di un'ultima beffa: un piccolo libro intitolato Le veglie del Tasso, su cui per anni i letterati consumarono inchiostro convinti fosse opera del grande poeta. Compagnoni, ormai disarmato, tornò fra le braccia della chiesa, rivestì l'abito talare, rinnegò le sue opere ancora oggi da leggere (Elementi di diritto costituzionale democratico, Memorie autobiografiche, Vita letteraria). Morì, dimenticato, a Milano, nel 1833.

Ferrara fu lestissima a imprigionare nel silenzio e nell'oblio questo suo straordinario cittadino. Una strada in periferia è l'unico segno della sua vicenda ferrarese.

Da Gian Pietro Testa