Ma il 9 gennaio scorso Zevi improvvisamente ci lascia. Non lo vedrò più, non riceverò più le sue telefonate, non più i suoi biglietti sintetici e pregnanti che hanno contrassegnato un insegnamento e un'amicizia di trent'anni.
Mi si chiede, ora, un ricordo di lui. Difficile di fronte a tanta personalità, ai tanti momenti che si affollano alla mente. Su tutto rimane l'immagine nitida, vivissima, dell'uomo dall'avvolgente umanità, dello straordinario studioso, del genio acuto e vulcanico. Di colui che ha scoperto e imposto al mondo una dimensione di Ferrara che rimarrà nel tempo: la città di Biagio Rossetti, l'architetto da lui indagato ed elevato a protagonista dell'urbanistica di tutti i tempi, nelle cui intuizioni vedeva risolta la tormentata dicotomia fra città antica e moderna, fra passato e futuro.
Questa città simbolo è, per Zevi, Ferrara, la sua amatissima Ferrara "la prima città d'Europa, un unicum ad esplosiva carica di attualità", e che troveremo sempre presente nella sua sterminata opera di studioso.
Ma di quest'opera ha già scritto Carlo Bassi. Qui, semplicemente, mi limito ad alcuni rapidi cenni sul rapporto personale avuto con lui nei limiti di spazio consentiti. Fu nel 1973 che incontrai Zevi, a Ferrara, quando con gli amici di Italia Nostra stavo preparando il convegno su università e centro storico. Visitai con lui alcuni palazzi che, dopo anni, sarebbero divenuti sedi di facoltà e ricordo le sue ferventi considerazioni sul loro futuro, con quella straordinaria padronanza della realtà ferrarese che aveva maturato nella grande stagione culturale da lui avviata negli anni Cinquanta.
Si preoccupava del restauro di "Mortara 70" allora in sfacelo, del dibattito fra campus e università diffusa, certamente "rossettiana" nella sua visione, e altro. Pensieri che avremmo ritrovato nella prefazione agli Atti che egli dettò, segnando una traccia di sicuro riferimento anche per questa realtà allora in divenire.
Da quel momento cominciò fra di noi un dialogo che si è fermato solo con la sua morte. Un dialogo che trovava nella weltanschaung del grande maestro oltre a una stretta consonanza etico politica, un sostegno alle idee e ai "sogni" che andavo maturando per Ferrara. Così, quando iniziò la grande avventura del restauro delle mura, Zevi fu subito uno dei referenti decisivi. Nel 1978 venne ancora a Ferrara a presiedere il Symposium Europeo di Architettura. Proprio in quell'occasione, una sera, gli sottoposi non senza apprensione, l'idea della "Addizione Verde" e cioè del recupero della cinta murata e della realizzazione del parco urbano in un forte sistema unitario. Egli mi ascoltò, mi spinse a scrivere un breve testo, a darne lettura senza esitazione. E da allora incoraggiò con convinzione tutte le iniziative che, via via, prendevano corpo, fino a presiedere quella commissione appunto "per le mura e il parco urbano", voluta dal sindaco Soffritti nel 1985, ove Zevi emerse come vigoroso protagonista in un dibattito di altissimo livello consegnato ai verbali - ancora inediti - di alcune sedute mirabili per la loro attualità.
Così devo ricordare quando mi impegnai per il recupero dello straordinario convegno del 1958 sull'Edilizia Artistica Ferrarese, ove Zevi fu protagonista ed estensore dell'ordine del giorno conclusivo. Dopo vent'anni se ne era persa ogni documentazione e si sentiva l'urgenza di fissarne la memoria, mentre la miglior cultura continuava a citarne la grande rilevanza per il dibattito, allora emergente, sui centri storici. Ma non trovavo la relazione di Zevi ed egli "per rigore etico" rifiutava di ricostruirla. Avevo ormai abbandonato l'intrapresa, quando una telefonata mattutina mi annunciò che era avvenuto il miracolo: dai suoi archivi era spuntata la lunga relazione.
Così potè uscire il libro Ferrara, spazi e orizzonti, da lui poi particolarmente lodato per l'utilità che rivestiva, non solo per Ferrara.
Tra un nostro incontro e l'altro potevano trascorrere anche lunghi periodi. Ma non vi era fatto rilevante per Ferrara che egli non conoscesse e di cui non si aggiornasse in colloqui telefonici, talvolta lapidari, o più distesi nelle ore trascorse nel suo luminoso studio nella mitica villa di via Nomentana 150. Non posso dimenticare il valore della sua presenza, silenziosa e autorevole, all'inaugurazione della mostra a Castel Sant'Angelo, nel 1985, dove l'impresa delle mura apparve traguardo possibile e raggiungibile; così come nell'incontro del 1987, alla Sala del Cenacolo di Montecitorio, ove, tra ministri, personalità della cultura e amministratori, venne annunciato che l'opera si sarebbe fatta.
Il dialogo diviene fittissimo negli anni Novanta, per l'avvenimento della scialbatura del cornicione di Palazzo dei Diamanti che lo vede polemico e battagliero come non mai in difesa del suo fascione in cotto, in nome del suo Biagio: per me Biagio Rossetti è come un padre, un fratello, un collega, un amico - mi scriveva - se viene sfregiato, qualcuno deve pagare: sarò io privandomi di una onorificenza che mi è più cara delle tante altre accumulate nella vita. Egli, infatti, rinuncerà, clamorosamente, all'ambita cittadinanza ferrarese che era stata deliberata dal comune. Solo quando ritenne conclusa la polemica, Zevi venne a Ferrara e, in una memorabile cerimonia di conferimento della cittadinanza, nel luglio del 1997, colse l'occasione per ripercorrere il proprio impegno di quasi mezzo secolo per la città e per esortare, anzi sferzare, gli amministratori e i ferraresi a compiere un'opera coraggiosa, un salto di qualità nella progettazione architettonico-paesaggistica, da lui ritenuta indifferibile per conservare a Ferrara il primato nella cultura urbanistica.
Questo fu il suo ultimo discorso a Ferrara, il suo testamento morale in cui poneva traguardi alti e perentori. In quel giorno, Zevi riceveva, dunque, quella cittadinanza che da sempre sentiva nel suo intimo al punto da ricercare, per anni, una sperata ascendenza ferrarese. Anche per questo volle dedicare il suo monumentale Rossetti a una Emma Zevi - sconosciuta, forse remota parente - ultimo nome inciso nella lapide delle novantasei vittime ferraresi della Shoà. Ma non pago dell'esito negativo della ricerca anagrafica, da me svolta, non demorde e dopo anni risolve il problema da par suo: la mia discendenza ferrarese, caro avvocato, è sicura - mi scrive nel 1997 - mia nonna era una Beer di Ancona. Ho cercato per anni suo padre, mio bisnonno, poi ho scoperto che si chiamava ERCOLE. Tutto chiaro. Tutto bellissimo. Finalmente Bruno Zevi ha trovato il filo che lo conduce, attraverso i secoli, al suo amato duca urbanista, in un legame ideale che volle ribadire nel suo straordinario e ultimo discorso tenuto in comune.