Il potere mediceo, tuttavia, la spuntò sulle pretese estensi e Cosimo de' Medici, diretto rivale di Alfonso II, ottenne da Filippo II la nomina granducale, passo necessario alla stabilizzazione della dinastia medicea che ora, anche formalmente, abbandona la forma "privata" con cui aveva governato fino alla cacciata di Piero e si conferma dinastia regnante. Queste, in fondo, furono le ragioni per cui le beau chevalier, Alfonso II, figlio di Renée e nipote del re di Francia, abbandona la tradizionale alleanza francese per scongiurare la perdita ineluttabile di Ferrara come capitale del regno.
Si capisce allora come, nella sequela dei matrimoni ducali, Lucrezia de' Medici; Barbara d'Austria, figlia e sorella dell'Imperatore; Margherita Gonzaga, si annidasse il germe di una catastrofe annunciata. Certo, lo sapevano i medici di corte, dell'impotentia generandi di Alfonso, ma ancora si pensava, al tramonto delle fortune estensi a Ferrara, che la diplomazia potesse cambiare il corso degli avvenimenti; che, ancora una volta, il modello di una corte così raffinata potesse essere d'esempio ai nuovi stati nazionali; che, alla fine, la forma "cortigiana" prevalesse come unicità politica e culturale insieme.
Gli Estensi, almeno dai tempi del grande Niccolò III, avevano impostato la loro presa del potere attraverso l'esercizio delle armi e, nello stesso tempo, creando un'immagine idealizzata del proprio governo che tentò, secondo un ben preciso programma, di armonizzare la forza idealizzante della cavalleria e del mondo aristocratico con le novità umanistiche, con l'esaltazione dell'ingegno umano applicato al modello cortese.
I risultati furono strepitosi: Boiardo e la dignità letteraria di un genere, quello cavalleresco, così consono a una corte di origine feudale; l'affermazione della nuova commedia di stampo umanistico; la rivisitazione dell'antico attraverso lo schema mentale aristocratico-cavalleresco; Schifanoia e le delizie estensi; Tura, Cossa, Roberti, e la nascita di un nuovo modo di vedere e di rappresentare; ma, soprattutto, Ariosto che riesce proprio nella materia cavalleresca e nel paragone con l'antico a fare del classicismo il segno supremo della nuova età dell'oro, a consegnare all'immaginario il senso della corte e della corte estense come modello di una vita organizzata e armonica degna dei felici tempi greci e romani.
In più, il paragone con l'antico viene uguagliato, se non superato, dalla consapevolezza di uno stile di vita e di organizzazione sociale che la corte di origine signorile affida a un libro diffusamente letto in Europa per tutta la lunga durata dell'antico regime, modello non soltanto per le corti signorili, ma anche per i nuovi stati nazionali: Il Cortegiano.
E', dunque, la corte che s'impone come il referente più sicuro della trasformazione in atto nel Cinquecento dallo stato signorile alla progressiva erosione di quella forma di civiltà entro la lotta per la conquista d'Italia tra Francia e Spagna. Nel corso del Novecento, il concetto di Rinascimento ha mostrato tutti i limiti di una periodizzazione storiografica in fondo affermatasi alla fine dell'Ottocento con Burckhardt o la storiografia angloamericana. Si è tentato, allora, di distinguere fra Rinascimento - concetto che per molti entra in crisi addirittura con il Sacco di Roma del 1527 - e una serie di termini quali Antirinascimento, Controrinascimento, Manierismo, che mettono in luce le contraddizioni insite nella solare immagine di un periodo, il Rinascimento appunto, che sancisce culturalmente e istituzionalmente la rinascita dell'antico, il ritorno di Saturno e dell'età dell'oro, il paragone con l'antichità e la costituzione di uno Stato "opera d'arte" come suona la celebre definizione.
E, accanto al modello fiorentino, romano e veneziano della costituita tradizione vasariana, Ferrara, con lo stato estense, si pone autorevolmente come una delle grandi capitali culturali italiane, con Urbino, Mantova e i piccoli stati di origine signorile. Ma, più di altre città, Ferrara può contare su un'organizzazione cortigiana che eleva la cultura a strumento privilegiato del potere e della giustificazione del potere. La linea ininterrotta perseguita da Leonello fino ad Alfonso I e, IN parte, anche da Ercole II, è quella di fare della cultura, della celebrazione delle glorie estensi e della loro magnificentia, il segno del potere, l'avallo e la giustificazione di un modo di governare: come ha ben scritto Gundersheimer, lo stile della signoria.
Si può, dunque, spiegare come la grande cultura estense prevedesse un intento celebrativo strutturato e insito anche e soprattutto nella grande poesia o nella grande arte del periodo aureo del governo estense. Sarebbe sbagliato paragonare la giustificazione del potere mettendo a confronto l'esempio fiorentino con quello ferrarese. Marsilio Ficino o Poliziano, Lorenzo o Botticelli non debbono né possono mediare la celebrazione dell'humanitas con le strutture mentali e culturali del mondo cavalleresco e dell'organizzazione feudale. A Ferrara questo non solo è necessario ma diventa la cifra stilistica di un'idea del Rinascimento straordinariamente nuova e complessa.
Chi osserva attentamente la fascia superiore del mese di Marzo nel Salone di Schifanoia, confusa ai volti degli altri intellettuali di corte che fanno corteo al trionfo di Minerva, trova l'inconfondibile fisionomia di Leon Battista Alberti, il precursore del nuovo classicismo, il prodotto più alto di quel genio-ingenium che trasforma la città in un luogo abitato da uomini e dèi, l'esempio assunto da Biagio Rossetti nella trasformazione di Ferrara in città ideale, la città del Principe. Ma per essere accettato, Alberti viene dipinto dal Cossa fra gli altri, confuso alla Corte e con la Corte.
La fioritura culturale della corte estense che raggiungerà il suo apice sotto il dominio di Alfonso I (basterebbe pensare all'organizzazione dei camerini ducali con l'apporto di Tiziano, Dosso, Bellini, ma ancor più alla presenza di Ariosto a corte e al suo ruolo determinate, per capire la complessa struttura della "famiglia del Principe", ovvero della corte stessa, come espressione del potere sociale e istituzionale del signore) è la logica conseguenza di uno sviluppo coerente perseguito dagli Estensi che si affidano alla formidabile tessitura e organizzazione del corpus cortigiano per rinsaldare e legittimare i vincoli di un potere accentratore e spesso crudele che ha, tuttavia, la necessità di una giustificazione proprio in quella cultura che è espressione della corte anche quando sembrerebbe organizzarsi fuori dall'entourage del Principe.
Lo Studio e la fama raggiunta dall'Università di Ferrara (e si pensi ai legami strettissimi, per esempio con la corte ungherese, quando il cardinal Ippolito si reca a Budapest e gli studenti ungheresi prendono la via di Ferrara in un interscambio culturale che raccoglie l'eredità del gran re Mattia Corvino) non sono avulsi dalla Corte, ma ne completano il programma.
La stessa città urbanisticamente si dispone secondo l'ideologia estense; i quartieri nuovi possono vantare non solo l'idea luminosa di Biagio Rossetti, ma fregiarsi del consiglio e dell'attenzione dello stesso sovrano, cioè di quell'Ercole a cui è dedicata la nuova addizione, sovrano che discute e suggerisce e impone le scelte urbanistiche secondo l'equazione di origine classica dell'architettura che esprime un rapporto diretto Dio-Mondo, Principe-Città.
Ma col secondo Ercole, quella cultura, espressione in fondo libera della corte e della figura del cortegiano modellata sui principi espressi dal libro del Castiglione, subisce le prime fratture, entra in crisi non solo per le ragioni storiche che tutti conosciamo - vale a dire lo sconvolgimento provocato dalla Riforma e, in seguito, dal Concilio di Trento - ma sperimentando in loco le contraddizioni imposte da un rinnovamento profondo del concetto stesso di "corte". Si pensi, anche senza enfatizzarne la portata, alla ribellione di Renata; alle controversie politiche e culturali con l'entourage del marito Ercole II; alla sua adesione al credo di Calvino; ai contatti con quella cultura della Riforma che, pur contrabbandata e osteggiata, mina le fondamenta della cultura cortigiana; alla perdita, in fondo, dell'unità non solo istituzionale e politica, ma ancor più culturale eretta dalla corte estense a fondamento del proprio potere.
La "famiglia del Principe" si trasforma, si burocratizza, perde il senso della propria appartenenza a un sistema: ubbidendo lo pone in crisi, lo discute, lo critica o si appiattisce nella nuova forma servile. Fra Ariosto, che rifiuta di seguire Ippolito in Ungheria reclamando una libertà interiore che il servizio dovuto al principe non può scalfire, e la tragedia di Tasso, che chiede di servire pur non rinunciando al proprio ruolo di "compagno" del signore e ne paga le conseguenze non tanto perché lo ha offeso, ma perché non ha capito la nuova struttura (e le nuove esigenze) della corte, si consuma l'esperienza culturale e politica degli Estensi e della città di Ferrara.
L'epilogo che si svolge nel 1598, quando il corteo ducale (quello del duca Cesare che non ha ottenuto l'investitura papale di Ferrara perché non appartiene al ramo diretto estense) si avvia attraverso la Porta degli Angeli verso Modena, la nuova capitale, era già stato scritto ancor prima che nelle risoluzioni politiche e storiche, nella cultura che anima la corte, nelle scelte operate - e non per nulla Tasso, e con lui Bastianino e gli attori della tragedia che si svolge nel Castello, sono gli iniziatori della coscienza moderna, del dramma della modernità.
Se la frattura e lo sconvolgimento del modello cortigiano sono avvertiti come i segni del pericolo imminente (gli stessi cataclismi naturali sono sentiti come un'imminente fine del mondo, di quel mondo, nella coscienza popolare, ma anche negli avvertimenti della nuova religiosità, frutto diretto della Riforma e del Concilio di Trento) è poi innegabile che gli Estensi tentino diverse strade per rinforzare il potere e la tradizione del potere, oltre la consolidata tradizione culturale. Per esempio, attraverso il culto delle sante vive (come ci avverte il lavoro finissimo di Gabriella Zarri) da collocare nei monasteri protetti dalla corte; oppure, con il rituale del corpo del principe esibito come simulacro del potere che non si arresta né finisce con la morte materiale del principe (come Giovanni Ricci ha dimostrato in modo affascinante).
Non si dimentichi che Lucrezia Borgia finisce i suoi giorni nel monastero del Corpus Domini tradizionalmente legato alla corte, anche perché luogo di sepoltura estense; che, già dal Duecento, il culto delle sante aveva proclamato beata Beatrice II d'Este e aveva fatto del monastero di Sant'Antonio in Polesine il rifugio tradizionale dell'aristocrazia ferrarese; che il rapimento di Lucia da Narni, collocata trionfalmente nei monasteri ferraresi, sono le prove di una necessità e di un'esigenza di continuità della signoria estense destinata a non dare i frutti sperati.
O il cerimoniale dell'imbalsamazione del signore defunto o la cerimonia funebre del signore defunto eseguita con il simulacro di legno - il doppio corpo - che la corte sperimenta sull'esempio francese, specie al tempo di Renata; cerimonia che rappresenta la volontà simbolica di una continuità di cui la signoria estense ha disperato bisogno.
Ma di tutte le vie tentate, quella che a mio parere risulterà la più percorribile è quella della giustificazione del potere attraverso la cultura prodotta, riflessa, esibita dalla corte. Tuttavia, al tempo di Alfonso II le condizioni per la continuità del potere si assottigliano sempre di più e, per contro, la trasformazione della cultura di corte non garantisce più una sicura corrispondenza fra committenza e servizio degli intellettuali.
Non sono solo le condizioni soggettive e intrinseche alla corte estense, ma le stesse trasformazioni epocali a produrre quello scollamento, o meglio, quella diversità di vedute tra esigenza politica e risposta culturale che ha prodotto a Ferrara la poesia di Tasso o la rivisitazione della maniera michelangiolesca nel catino absidale della Cattedrale. In apertura al suo fondamentale lavoro sul Bastianino, Arcangeli ha posto un'ipotesi che ancora, con la dovuta correzione critica, può funzionare. La diversità tra il Bastianino decoratore del Castello e l'affrescatore del Giudizio potrebbe essere simile a quella che "porta il Tasso innocentemente voluttuoso dell'Aminta (data in Ferrara appunto nel 1573) a mutarsi nel poeta complesso e meditativo della Gerusalemme Liberata, nell'uomo angosciato del carcere di Sant'Anna" (Arcangeli, p. 6).
Il giudizio va letto non tanto in un'ottica di paragone fra le arti, legittimo ma fondamentalmente incompleto dopo gli studi perfino troppo abbondanti su Tasso e sulla rivisitazione dell'arte di Bastianino nella mostra del 1985 e dei cataloghi che l'hanno accompagnata, quanto entro quella prospettiva di "una grande crisi storica" che, da par suo, Arcangeli individuava nella maturità stilistica e artistica del pittore.
La modernità di cui tanto si parla in quelle affascinanti pagine del critico d'arte, i nomi di Goya, degli impressionisti, dei pittori moderni di cui Bastianino è un precursore, ha la genesi in quella crisi epocale che Tasso ha saputo esprimere in modo assoluto; in quella coscienza lacerata che ne fa il primo, vero intellettuale e non solo poeta della modernità; in quell'ambiguità da cui nasce l'armonia dell'Aminta, secondo la nota tesi di Da Pozzo, in quell'adozione del "parlar disgiunto" per esprimere quegli "affetti" che vanno lasciati indeterminati perché il "vago" non ha più la chiarezza del colore squillante, ma si avvolge nel bitume della nebbia padana, come scrisse Longhi per Bastianino, così come i personaggi tassiani vengono evocati secondo un procedimento retorico-stilistico che privilegia la paratassi, che esclude, per quanto possibile, le subordinate; che accosta per accumulazione piuttosto che sviluppare il discorso entro l'onda lunga dell'articolazione subordinata.
La rappresentazione pittorica desunta dall'"idea" piuttosto che dalla mimesi della natura è assimilabile al verisimile tassiano, piuttosto che alla storia. La differenza fra storia e poesia, dunque, è la stessa che passa fra il vero e il verisimile: si racconta di ciò che potrebbe essere, piuttosto di ciò che è. Il poeta, il pittore hanno già in sé la consapevolezza dell'arte che "tutto fa", maestra, più che imitatrice della natura, ed è nell'arte che, come scrisse Tasso in un celebre passo dei Discorsi sull'arte poetica, l'autore è come Dio, è il demiurgo della propria opera come Dio è il creatore dell'Universo.
Poesia e pittura di crisi, di crisi storica i cui referenti più immediati stanno (e su questo i romantici hanno costruito la tragedia di Tasso poeta che diventa personaggio più che autore) nella tirannia della corte, nell'Inquisizione, nella coscienza inquieta, nell'infelicità come stigmate e privilegio del genio. Ancora oggi, quell'immagine conflittuale di Tasso ha un suo fascino e una sua legittimità che però non esaurisce il senso della sua poesia.
La nuova immagine tassiana che si è discussa nei convegni per le celebrazioni del V centenario della sua morte, ci restituisce, più che la figura di un poeta infelice, il senso formidabile di un progetto intellettuale dentro e contro la corte, un universo del sapere nuovo che sta cambiando non solo la rappresentazione del mondo, ma sta costruendo il senso del moderno, accompagnandosi alle contemporanee o quasi ricerche "infelici" di Giordano Bruno, di Galileo, anticipando quel ragionar "IN barroco" che cambia per sempre il processo della conoscenza in Occidente. E le premesse e gli scontri e le soluzioni nuove si possono osservare dalla piccola specola della corte estense perché lì lavora il genio immenso di Tasso, ma anche l'intelligente, sensibile, "nuovo" Bastianino che sarebbe un errore credere emulo in minore di Michelangelo e Tiziano, i colossi della trasformazione pittorica epocale.
Bastianino è un grande pittore perché, come Tasso, ha saputo capire e cogliere il senso del cambiamento e l'ha saputo coerentemente applicare con forza e originalità. La mostra dei pittori del "parlar disgiunto" lo ha messo in chiaro. Al paragone con capolavori assoluti, i Barocci, i Tiziano, i Tintoretto, i Bassano, Bastianino ha confermato la grande intuizione di Arcangeli, cioè quella che ha visto il piccolo pittore della bottega dei Filippi, l'edonista e felice esecutore di grottesche e decorazioni, trasformarsi nel complesso, "ambiguo", tormentato esecutore della volta absidale. E tutto ciò per merito e consapevolezza dell'onda lunga della cultura estense che non si è esaurita in due secoli di splendore artistico. Si chiami "maniera", si chiami forse più correttamente "classicismo", è qui, a Ferrara, che si matura e si compie un destino epocale.
Nel 1573, un fatto apparentemente normale come la prima recita di Aminta nel giardino della Delizia di Belvedere, si risolverà in uno dei più sintomatici avvertimenti della crisi dello stato estense proprio inserita nella novità del nuovo genere pastorale e nella riflessione di tipo aristotelico che accompagna la nascita del nuovo spettacolo, a Ferrara, ancora una volta capitale del teatro rinascimentale.
Molto si è scritto e detto su Aminta e sulla sua funzione di modello (basterà ricordare qui, perché in qualche modo legati all'assunto di questo intervento, i saggi di Claudio Varese, Giovanni da Pozzo, Riccardo Bruscagli, Grazia Accorsi, Laura Riccò e Arnaldo di Benedetto), ma quel che preme sottolineare è ancora una volta come un'opera che otterrà una fortuna immensa pari almeno all'altro modello del Pastor fido del Guarini, maturato sull'esempio tassiano e all'interno della cultura cortigiana estense, non rappresenti solo la corte in scena, ma in fondo l'estremo tentativo della corte di darsi una dignità o un ruolo coerente col tempo storico, quella dignità minacciata, se non brutalmente sconfessata dalla corte vera.
Ma Aminta non teatralizza utopisticamente la corte - o per meglio dire non esaurisce la critica dell'intellettuale Tasso, rappresentato nei panni di Tirsi pastore e confidente di Aminta -, non è una scena d'Arcadia o una pastorelleria di un mondo in cui (Riccò) ai pastori abitanti dei boschi viene riconosciuta la dignità cortigiana: Tirsi è un poeta; Aminta è di stirpe nobile come Silvia.
Elpino, Mopso, prima che icone del bosco (un bosco, come si sa, che si confronta con la "gran cittade" Ferrara e ne fa, in un certo senso, parte) sono gli abitanti della corte, qui agiti per esibire vizi e virtù del solo luogo che all'intellettuale Tasso poteva e doveva apparire come l'unico degno di poesia: la corte. Per la quale l'umile sampogna della poesia pastorale può vibrare e suonare con i toni gravi della tragedia, il genere per eccellenza dei personaggi di alto rilievo.
Per capire, in fondo, qual è il rapporto di Tasso con la corte (e per capire, dunque, l'importanza della cultura cortigiana a Ferrara) basterà leggere con attenzione il lungo racconto che Tirsi-Tasso fa del suo approccio con il duca estense. Riassumendo i precedenti dell'argomento della favola pastorale, sappiamo che Aminta, pastore, è innamorato di Silvia, convinta seguace della schiera di Diana cacciatrice e quindi proterva nemica d'Amore che nel prologo ci svela le ragioni per cui, sfuggendo la volontà della madre Venere, ha pensato di esercitare il suo potere non nei luoghi che la madre gli impone ("tra le corti e tra corone e scettri"), ma nei boschi a far vendetta della crudele ninfa.
In tal modo egli potrà ispirare nei rozzi petti il sentimento d'amore e uguagliare i pastori con gli eroi; insomma, rendere i pastori uomini di corte, seguaci dell'ideologia cortigiana e quindi nobilitare "le rustiche sampogne", uguagliandole alle nobili cetre.
Vale a dire, per il poeta Tasso, operare in modo che anche la nuova forma poetica - la poesia satirica, ovvero la favola pastorale - possa adeguarsi alle esigenze della poesia eroica, quella che rappresenta e nobilita "gli eroi" della corte. Ancora una volta, la poesia è indicata come lo strumento e il mezzo più consono alla struttura della corte che, tuttavia, può apparire anche il luogo del tradimento e della corruzione.
A questo punto, il racconto di Tirsi ad Aminta assume il senso di un'ideologia, il supremo modello a cui il giovane Tasso, non ancora toccato dall'arroganza cortigiana e dal provvedimento ducale che lo confina a Sant'Anna, affida la sua convinzione e la sua scelta all'unico luogo accettabile per chi voglia esercitare il mestiere e la dignità di poeta. Mopso, il maligno detrattore dei valori cortigiani (e il rispecchiamento nel personaggio dell'accademico padovano Sperone Speroni, maestro a Padova del giovane Tasso e in seguito feroce detrattore del progetto poetico della Gerusalemme Liberata, non sembra inesatto), mette in guardia l'ingenuo Tirsi dal recarsi a corte, "il magazzin delle ciance", abitato da maghe e "cortigian malvagi": "quivi le mura son fatte con arte,/ che parlano e rispondono a i parlanti...... I trespidi, le tavole e le panche/ le scranne, le lettiere, le cortine,/ e gli arnesi di camera e di sala/ han tutti lingua e voce: e gridan sempre".
Tirsi si reca con quel "fallace antiveder ne la cittade" ed ivi incontra il Signore "di cui per quanto intesi, IN dubbio stassi/ s'egli sia miglior duce o cavaliero", che lo invita ad entrare nel "felice albergo" dove reso maggiore dalla sua condizione, "pien di nova virtù, pieno di nova/ deitade", cantò "guerre ed eroi".
Al di là di un facile e suggestivo sociologismo, appare chiaro che la scelta a cui Tirsi affida il senso della dignità artistica risiede nelle corti. Anche nel bosco a cui ritorna egli mantiene lo spirito epico che ha esercitato a corte e che nobiliterà con "voce più altera e più sonora" l'umile poesia pastorale. Il senso idealizzato della cultura di corte diventa programma ideologico, neppure incrinato dal famoso primo coro in cui s'intona la felicità dell'età dell'oro, messa in fuga e allontanata da "quel che dal volgo insano/onor poscia fu detto, /che di nostra natura il fea tiranno".
Ma l'onore che impedisce di amare secondo il principio del s'ei piace, ei lice, è la giustificazione delle corti; è la motivazione primaria a cui si rifà il gran capitano, Goffredo di Buglione, nell'impresa assunta; è il principio che Tasso invoca nello sperare che Alfonso II si metta a capo di un'ennesima crociata ed è quel principio fondatore della corte che involverà nel dubbio il poeta ormai vecchio e che porterà alla stesura di un'altra opera completamente diversa, la Conquistata. La suggestione dell'età dell'oro diventa peccato: è la condizione di Rinaldo soggiogato da Armida; è la tentazione offerta dalle sirene agli eroi Carlo e Ubaldo, mandati alla ricerca di Rinaldo.
L'"aspra tragedia dello stato umano" con cui si contempla la grande battaglia finale che porterà alla sconfitta degli infedeli (i seguaci per antonomasia del principio del piacere) è la stessa che vibra nella disperata e gonfia umanità che si agita sotto le volte della Cattedrale. Certo, Tasso non ha potuto vedere quell'ennesimo tentativo del Bastianino che testimonia la coscienza lacerata del tempo. Il Bastianino che il Tasso ricorda è quello delle decorazioni di Marfisa, come giustamente riferisce Arcangeli allorché cita il sonetto in cui si accenna all'arte del pittore. È un sonetto del 1581 da Sant'Anna, Tu che le vere carte altrui colori in cui il pittore è lodato ancora come l'autore dei bei soggetti pagani, scrive il critico, non avendo il poeta potuto vedere l'affresco del Duomo.
E' il pittore, appunto che la saggia Dafne, confidente di Silvia, ricorda indirettamente come colui che ha eseguito quell'Aurora che dà il nome, quasi sicuramente, alla camera da letto ducale, a meno che si legga "Aurora" come l'appellativo dato alla duchessa Leonora. Batto e Tirsi, "gran maestri d'amore", raccontano il potere d'amore su Elpino-Pigna, amante di Lucrezia Bendidio, dama di corte di Leonora d'Este, sorella del duca, a suo tempo amata sia da Batto-Guarini che da Tirsi-Tasso. Il trionfo dell'amore, il suo potere sugli uomini, come già da molto era diffuso nel petrarchismo delle corti, è raccontato "ne l'antro de l'Aurora, ove su l'uscio/ è scritto: Lungi, ah lungi ite profani".
Bastianino pittore d'amore, come Tasso cantore dell'amore, non ancora gli interpreti più profondi della crisi che investe Ferrara e il sistema delle corti. Se si vuole poi ripercorrere la diffusa immagine romantica di Tasso prigioniero della corte o delle istituzioni che lo forzano a interrogarsi sul ruolo e sul senso della coscienza infelice (immagine che, al di là degli abusi idealistici, ha ancora una sua suggestione e una sua giustificazione), potremmo sottolineare che è lo stimolo rappresentato dai nuovi orientamenti della corte che mette IN crisi non solo il poeta, ma tutta la cultura al servizio del principe.
IN questo modo si potrebbe dire che sono proprio l'audacia del cambiamento, la scelta delle strategie culturali legate ai profondi mutamenti che intervengono fra la Riforma protestante e la conseguente reazione cattolica, che incidono su una cultura che sa rinnovarsi con esiti altissimi, rappresentando appunto la crisi. Una crisi che trova le proprie coordinate nell'elaborazione di quel classicismo che è il vero fil rouge di tutta la stagione dell'antico regime.
Ferrara è un laboratorio privilegiato, non solo e non tanto per la presenza di Tasso a corte e per la sua lucida capacità di analisi della crisi, ma per tutte le novità che intervengono a rimodellare il volto della corte, siano i complessi spettacoli allegorici e teatrali conosciuti con il nome con cui furono descritti nel 1565 Le cavallerie della città di Ferrara o la voga della favola pastorale che introduce non solo il tentativo di rinnovare il teatro sulla base della discussione legata all'imitazione del terzo genere drammatico teorizzato nella Poetica di Aristotele, ovvero la poesia satirica, ma anche gli stessi contenuti non più e non solo legati alle regole della tragedia e della commedia.
È soprattutto la musica che propone nuovi temi e nuove soluzioni. Luzzasco Luzzaschi; Gesualdo da Venosa; l'uso della "seconda pratica" che ci porterà alle soglie della teorizzazione del melodramma; il concerto delle Dame che rende famoso il complesso istituito da Margherita Gonzaga e delle sue abilissime suonatrici e cantatrici. Ancora una volta, Ferrara alle soglie della Devoluzione produce una cultura esemplare per le corti e non solo per quelle.
In questo contesto non è, dunque, un caso né un frutto spontaneo né tantomeno un fenomeno astorico la profonda e meditata scelta pittorica del Bastianino che, sulla base di quella cultura da lui conosciuta, accanto a straordinarie presenze come quelle di Pirro Ligorio, di Girolamo da Carpi, che meditano o in prima persona o attraverso le passioni antiquarie del cardinale Ippolito II sul nuovo senso del classicismo, elaborando l'influsso della grande maniera romana e veneta, saprà interpretare un cambiamento epocale che preannuncia e conclude l'abbandono della città, laboratorio per due secoli di una civiltà esemplare.
Leggendo le pagine affascinanti di Francesco Ceccarelli sul tentativo di Alfonso di costruirsi un'altra città sul Delta, quella Mesola sostitutiva di Ferrara, una città magica e comunque legata ai modelli culturali che Ferrara aveva espresso, si potrebbe concludere che la città di Alcina, sognata, progettata, distrutta da quei Veneziani che hanno ancora paura della potenza estense, viene sognata come un'altra Ferrara finalmente libera dalle questioni dinastiche o dai giochi del potere, l'ultima immagine di una corte e di una civiltà.