Un episodio del 1817 conferma l'alternarsi di fortuna e sfortuna nella valutazione del pittore: a questa data il Comune cede il dipinto con la Vecchia e la nuova legge, proveniente dalla chiesa di santa Caterina, al collezionista privato Filippo Zafferini in cambio dei due tondi, evidentemente giudicati più significativi, con il Giudizio e il Martirio di san Maurelio di Cosmè Tura. In tempi più recenti, invece, opere di Bastianino sono state faticosamente rintracciate sul mercato antiquario e acquistate o dallo Stato (le Storie di san Romano, nel 1973) o dalla Casa di Risparmio di Ferrara (la Visitazione, nel 1991).
Nonostante la casualità delle acquisizioni, le opere di Bastianino in Pinacoteca rappresentano un insieme omogeneo di quadri, tutti a soggetto religioso e tutti dimostrativi di quello stile del pittore tante volte definito nebbioso o annebbiato. Sono opere che parlano un linguaggio differente da quello adottato da Bastianino nelle imprese decorative profane condotte per la brillante corte estense; appartengono a un modo di comporre diverso da quello del delizioso autore dei "belli ignudi e pargoletti amori" ricordato da Torquato Tasso in rapidi versi celebrativi.
Appaiono lontane dalla felicità esecutiva delle aeree volte della palazzina di Marfisa, compiute insieme alla bottega del padre, così come dalle complesse iconografie paganeggianti, suggerite dall'antiquario di corte Pirro Ligorio e realizzate per le sale del castello volute da Alfonso II a risarcimento delle distruzioni del terremoto. I dipinti di Pinacoteca, invece, sono elaborati secondo un diverso registro stilistico, adottato dall'artista soprattutto nelle composizioni religiose, ancora oggi di difficile interpretazione, misterioso e un po' sconcertante.
Le pagine che Francesco Arcangeli dedicò al pittore nel 1962, segnandone la definitiva rivalutazione critica, restano ancora, a quarant'anni di distanza, un filo conduttore obbligato per capire le opere del Bastianino, al di là di ogni sempre possibile aggiornamento di indagine filologica.
Il complesso itinerario del pittore può, dunque, essere ricostruito scegliendo, in una visita mirata della Pinacoteca, solo alcuni casi esemplari. La traccia è il testo di Arcangeli, cui rimandano le citazioni sui singoli dipinti. Impossibile, del resto, parafrasare una prosa così densa e così evocativa.
Occorre dare inizio al percorso cominciando proprio dal dipinto arrivato per ultimo in Pinacoteca: il Giudizio universale proveniente dalla chiesa ferrarese di san Cristoforo della Certosa. Una serie di vicende storiche, legate alla soppressione napoleonica, ha portato il dipinto, insieme a quello con l'Ascensione di Cristo di Camillo Filippi, ad approdare nella piccola chiesa di Rovello Porro, vicino a Como, dopo una sosta nel museo milanese di Brera, prima di rientrare a Ferrara.
Il 5 agosto 1565, i monaci certosini affidarono a Camillo Filippi, insieme ai figli Cesare e Sebastiano, il compito di eseguire due ancone per gli altari della crociera della loro chiesa: l'Ascensione di Cristo e l'Assunzione della Vergine, soggetto successivamente - ma non sappiamo in quale data - cambiato con quello del Giudizio universale. Il tema del Giudizio doveva apparire a Bastianino, come a ogni altro artista dell'epoca, particolarmente stimolante, comportando inevitabilmente una sorta di sfida con quello, celeberrimo quanto controverso, affrescato da Michelangelo una ventina d'anni prima nella parete di fondo della cappella Sistina.
La sfida era ribadita nella stessa Certosa nelle tele inserite entro i battenti e la gronda dell'ancona, dove Bastianino era stato chiamato a ripetere i Profeti e le Sibille della volta michelangiolesca. Lo stesso tema del Giudizio ricompare in Bastianino, nei medesimi anni, ben più ampiamente trattato nel grande affresco del catino absidale della cattedrale. Quello dell'influenza michelangiolesca è, del resto, uno dei motivi ricorrenti nell'attività del pittore, anche se è stata ridimensionata dalla storiografia critica moderna la "leggenda", diffusa da Baruffaldi, dei sette anni di soggiorno romano dell'artista, dell'"innamoramento" per la Sistina e dell'incontro - quasi un passaggio di testimone, vero e proprio topos nella letteratura artistica - tra il vecchio Michelangelo, carico di gloria, e il giovane provinciale, ignoto, ma pieno di talento.
Comunque, come avverte Arcangeli, nella grande pala della Certosa il michelangiolismo, così spesso citato nelle fonti, sfuma "IN una ombrosità insinuante, IN quel lento ribollire dei corpi grevi, IN quell'estenuare la stessa potenza corporea d'un velo malsano. Il senso tremendo dell'immensa caterva michelangiolesca si è trasferito nello spazio stretto e alto [dell'ancona] IN un ambiguo intimismo; come se le vicende estreme dell'umanità accadessero in un'accaldata bruna vicenda quasi da 'camera a gas'".
Se l'idea del Giudizio è quella della rimeditazione sulla "terribilità" michelangiolesca, aggiornata e rivisitata anche attraverso altre riletture, prima fra tutte, quella operata da Pellegrino Tibaldi in palazzo Poggi a Bologna, gli altri dipinti di Pinacoteca segnano un percorso sempre più solitario verso una pittura più malagevole a intendersi, meno lusinghiera per l'occhio dello spettatore, dove i modelli della pittura emiliana, veneta o romana vengono sempre più rielaborati e assimilati in uno stile personale e le citazioni divengono, mano a mano, meno letterali e riconoscibili.
Un'altra tappa è segnata da un'opera ugualmente proveniente dalla Certosa: è il quadro dipinto "con una maniera terribile e forte ma non velata" del "San Cristoforo che passa il guado con l'antenna curva pel gran peso del Bambino Gesù che sta sulle spalle del santo" (Baruffaldi), eseguito probabilmente in un momento successivo ai restauri della chiesa, dopo il terremoto del 1571. Innegabile nel dipinto, dedicato al santo titolare della Certosa, la commistione fra modelli veneti (il San Cristoforo di Tiziano in Palazzo ducale a Venezia e quello di Jacopo da Ponte per la chiesa di San Cristoforo a Murano, oggi al museo dell'Avana) e l'antecedente michelangiolesco del profeta Ezechiele, già rielaborato per la tela dell'ancona della Certosa. Il santo è raffigurato "come un immenso fantasma autunnale ... Al Bastianino che non ha in proprio né la terribilità della confessione estrema di Michelangelo né l'infernale superbia di Tiziano non resta che il sogno. Calano, adesso sì, le nebbie della sua arte, così come cala sulla città la triste elegia di una grandezza in punto di morte" (Arcangeli).
Impossibile ormai ricostruire quali fossero le reazioni dei committenti e dei fedeli di fronte a un'interpretazione così poco accattivante del santo gigante trasportatore di Cristo, tanto caro, invece, alla devozione e all'immaginario popolare. Forse iniziarono proprio in questo periodo le perplessità sullo stile di Bastianino che accomunarono i critici e gli storiografi d'arte più antichi. A poco meno di un ventennio dalla morte, nel 1620 già Superbi aveva affermato: "è vero che avea una maniera differente da tutti, la quale è a chi piace e a chi non piace", confermando le difficoltà di una parte del pubblico a comprendere a pieno i modi di dipingere adottati dall'artista nelle composizioni sacre. Dalle citazioni di Cittadella, Laderchi, Avventi, fino alle anonime guide della città, fatte salve le consuete esaltazioni dell'impresa del Giudizio della cattedrale, compare espressa una medesima perplessità. Nei dipinti religiosi, Bastianino sembra mostrare costantemente "un non so quale oscuro contorno che sembra coprire il quadro di un leggero velo il quale lo adombra" (Baruffaldi). È questo velo che rende dubbiosi i critici e fa diventare arduo ogni giudizio. Ancora Baruffaldi chiarisce che tale "velame ... non è stato ben capito da alcuno se sia stata sua negligenza o sua arte... cosicchè fino al giorno d'oggi egli ha la gloria che suole avvenire agli oracoli d'esser più ammirati che intesi".
È vero che il destino critico della pittura di Bastianino, così come di tutto il secondo Cinquecento a Ferrara, è quello di restare a lungo confinata nell'oblio o, meglio, riemergere nei soli ricordi della letteratura artistica locale, senza mai essere sottoposta a un'accurata revisione critica. La rivalutazione della scuola ferrarese a partire da Lanzi e, poi, con Gruyer fino alla Officina di Longhi recupera piuttosto gli astri luminosi del pieno Rinascimento fino ad arrivare ai Dossi. Il resto pare sfumare entro una sorta di indistinta "coda di cometa" in cui la crisi del Ducato, la fine della dinastia e gli ultimi ombrosi anni di Alfonso II dominano un panorama dove gli eventi artistici sembrano trovare poco o punto spazio.
Ma i "titani cinerei e nebbiosi" di Bastianino, pure trascurati dalla Storia dell'Arte di Venturi, non avevano lasciato indifferente la ricettiva sensibilità di Roberto Longhi che ne aveva accostato la visionarietà - ancora col tramite di Michelangelo - ai potenti fantasmi di William Blake, ritrovando nei dipinti "alcuni lampi sublimi e d'una potenza di trasmutare immaginativamente dati d'arte e non di natura che è tutta ferrarese".
La Conversione e il Battesimo di san Romano (ora in Pinacoteca) furono eseguiti per l'altare maggiore della chiesa dedicata al santo martire su commissione dell'Arte dei Drappieri e Merciai. Suggestioni dalla scultura classica appaiono nel primo episodio con il san Lorenzo che, nudo come i santi del Giudizio, è raffigurato nell'atto di convertire San Romano che, in veste di soldato, assiste al martirio. Nell'altra scena, san Romano si china a ricevere il battesimo. In entrambe, sono aboliti i dettagli e gli elementi di contorno e le grandi figure si dilatano e quasi invadono uno spazio neutro e astratto.
Una medesima ambientazione, priva di ogni connotazione, compare nell'Annunciazione dipinta negli anni '80 per il coro della Confraternita del Buon Amore. Dopo la soppressione dell'oratorio la grande tela passò successivamente nella chiesa di sant'Apollonia, prima di arrivare in Pinacoteca. La pala, che originariamente dovette servire come frontale per un reliquiario, come dimostra la parte ritagliata nella zona inferiore, ripropone l'iconografia tradizionale dell'Annunciazione, con la Madonna distratta dalla meditazione della lettura dall'apparizione dell'angelo e della colomba dello Spirito santo entro una gloria di cherubini, "ma immersa IN un'aria più indistinta, sospesa, variata di lampi celesti, invasa da una ruggine preziosa".
Qui appare ormai scomparso ogni senso della composizione manierista, così come è abbandonato ogni disegno preparatorio. "Con quell'angelo, molle garzone appena avvolto di panni svolanti IN un vento lentissimo... con quella Vergine, femmina cauta e possente", la scena si svolge in un'atmosfera "ormai incerta tra la noia e il sogno e gli angeli paiono fanciulli troppo saputi che l'ultima favola udita al lume di notte sta per assopire" (Arcangeli).
Un'analoga smaterializzazione e trasposizione in un clima più intimo e più sognato viene operata in dipinti che pure ripetono iconografie tradizionalmente codificate. È il caso di uno dei soggetti più diffusi: la Madonna e santi. Il dipinto della Pinacoteca Madonna con il Bambino, santa Lucia, san Matteo e l'angelo fu eseguito per le suore agostiniane del monastero di santa Lucia in una data non molto discosta da quella della consacrazione del 1582. Anche qui, lo stesso processo di disgiunzione della forma simile a quello che accompagna, per esempio, i dipinti della vecchiaia di Tiziano o i disegni più tardi di Michelangelo.
Un tono di profonda visionarietà pervade una delle poche "estasi" con figure di santi in contemplazione dipinte da Bastianino: la Santa Cecilia realizzata per la chiesa di santa Maria in Vado. Il dipinto, sostituito in loco da una copia eseguita da Gregorio Boari, fu acquisito dal Comune di Ferrara nel 1834 per costituire, insieme ad altri sei, il primo nucleo dalla futura Pinacoteca civica. Bastianino sceglie di raffigurare la santa in piedi "come tutti i pittori allora facevano per emulare la S. Cecilia nella chiesa di S. Giovanni IN Monte IN Bologna dipinta da Raffaello" (Baruffaldi).
Ineluttabile, dunque, il confronto con il grande modello raffaellesco, ma altrettanto profondo il cambiamento di interpretazione e di stile. Alla classica razionalità, all'equilibrio, all'armonia offerta dall'urbinate si sostituisce la solitaria figura di questa gigantessa dimentica di se stessa nella contemplazione del divino, sfocata, quasi priva di corpo e di sostanza. È una sorta di "Iside sfatta e angosciata... con quegli angeli attorno, agitati, logori come velari che si vadano sfrangiando, con quegli strumenti grandi e la tromba che, col suo freddo fulgore, non potrà chiamare una resurrezione" (Arcangeli). È questo il modo di dipingere di Bastianino che comincia a parlare alla moderna sensibilità cui appaiono più congeniali proprio quei dati di stile che la letteratura artistica locale non aveva del tutto saputo apprezzare.
È ancora Francesco Arcangeli, appassionato lettore dei momenti più alti dell'arte emiliana e, insieme, sensibile interprete della pittura del Novecento, a svelarne definitivamente la qualità nell'ammaliante monografia di cui inevitabilmente ci serviamo come guida. L'equivalenza, allora evocata, con la crepuscolare poesia di Tasso costituisce la chiave interpretativa preferenziale per la tarda attività del pittore, ripresa anche nella ben documentata mostra ferrarese del 1985 su Bastianino e la pittura a Ferrara nel secondo Cinquecento e nei saggi raccolti nel 1987 sotto il titolo L'impresa di Alfonso II che ne hanno filologicamente e definitivamente ricostruito l'itinerario. È la "Ferrara affascinante e triste ma dimentica di Alfonso II" che sta alla base di una consonanza che è insieme sentimentale e stilistica.
Nessuna frequentazione è provata fra i due artisti: forse è intercorsa una semplice conoscenza nei primi felici tempi della corte come farebbero supporre i versi del già citato sonetto dedicato dal poeta al giovane pittore, inventore di favole pagane. Limitando l'influenza e la durata del viaggio romano narrato dal Baruffaldi con nuove indiscusse attribuzioni e una precisa e attenta filologia, Arcangeli ricrea l'itinerario che lentamente porta Bastianino ad affrancarsi dalla "tutela" paterna, dall'energia gioiosa e bizzarra della Sala dei Giochi, alla potenza immaginativa della Sala dell'Aurora, ai temi religiosi severamente controriformati della piena maturità.
La "nebbia" di Bastianino, il velo che copre e offusca il colore, che scioglie e priva i corpi di ogni consistenza, lontano dall'essere un espediente, se non addirittura un difetto pittorico, diventa allora l'espressione in pittura della malinconia stessa del tramonto della corte ferrarese, l'inconscia consapevolezza dell'infrangersi di quella che Burckardt aveva definito la "cresta sottile" del Rinascimento italiano. Il paragone Bastianino-Tasso è stato rievocato proprio in Pinacoteca nel 1997 dalla mostra Tasso, Tiziano e i pittori del parlar disgiunto, dove lo stile rotto e frammentario di Bastianino era accomunato a quello di pittori di analogo sentire dal tardo Tiziano, a Tintoretto, a Barocci a Jacopo Bassano.
Il paragone fra questi pittori e il poeta della Gerusalemme nasce dal riconoscimento di un'analoga disposizione sentimentale a farsi interpreti della crisi di un mondo: nel 1577, quando Bastianino inizia il Giudizio, Tasso comincia, con la sua prima prigionia in Castello, il suo tragico peregrinare e il lungo ricovero in sant'Anna. Ma il parallelismo non è dato soltanto da uno stato d'animo consonante, sono, anzi, il frantumarsi e lo spezzarsi del discorso stilistico, l'abolizione dei dati tradizionali della sintassi pittorica (il disegno, il chiaroscuro...) che avvicinano i modi di Bastianino a quel "parlar disgiunto" che Tasso aveva riconosciuto componente del suo stile nella lettera del 1573 a Scipione Gonzaga. Arcangeli riconosce un'affinità strettissima fra l'"elocuzione disciolta" che Tasso adotta, priva delle congiunzioni cioè dei "nodi e legami che la ritengano affinché non si dissolva ma connessa piuttosto per unione e dipendenza dei sensi", e il progressivo dissolversi dell'immagine in Bastianino.
È la medesima sintassi, basata su legami ed evocazioni sentimentali, "di sensi", anziché sulle tradizionali connessioni del discorso ("unione... per copula o altra congiunzione di parole"). Sia in Tasso che in Bastianino, come già individuato da Argan in un suo saggio dove il termine di paragone con il poeta era, però, Tintoretto, sarebbe valido un simile processo "che consiste nel progressivo dissolversi della plastica evidenza dell'immagine, nel suo sfumarsi in un ambiente che a sua volta si sensibilizza e si drammatizza, nel suo caricarsi di significati che vanno al di là dell'oggetto rappresentato e, perciò, ancora una volta nel suo esprimere piuttosto un'aspirazione che un sicuro possesso".
Si completa così un percorso di rarefazione e smaterializzazione della forma che, secondo Arcangeli, non vedrebbe come termine ultimo il barocco, troppo ottimisticamente vitale, ma, piuttosto, "pur elaborando formalmente certe condizioni che saranno del Barocco, punterebbe in ispirito direttamente verso il Romanticismo". Bastianino sarebbe, dunque, una sorta di capofila di quel "romanticismo di 'terraferma' parallelo ma non collimante col cromatismo veneziano": da Sante Peranda, a Sebastiano Mazzoni, a Bazzani, fino ad arrivare a Medardo Rosso. È l'alterna volubilità del sentimento che, come IN Tasso, sarebbe alla base dello smaterializzarsi, del disgiungersi della sintassi figurativa di una "romantica distruzione della forma plastica italiana... per approdare a un ...personalissimo 'rien est matériel dans l'espace'".