C'è un fenomeno, tuttavia, al quale stento ad abituarmi, anche se, da anni, ormai, me lo ritrovo davanti sempre più evidente e clamoroso. Parlo del numero di automobili, delle code ai semafori, delle difficoltà di trovare un parcheggio. Abitando a Milano, dovrei esserci abituato; e invece, entrando a Ferrara penso sempre che qui tutto debba essere diverso. Per esempio, arrivando in macchina da porta Po, superata piazza Ariostea e imboccata dal fondo via Palestro - dove c'è la nostra casa di famiglia - ho sempre l'assurda certezza che riusciremo a parcheggiare. "Vedrai che un buco lo troviamo" dico ogni volta a mia moglie. E invece il buco non c'è mai, dobbiamo raggiungere Giovecca e proseguire alla cieca. Come a Milano.
All'origine di questa mia ostinata illusione sta il fatto che, in questo caso, le nuove immagini stentano a sovrapporsi a quelle ancora nitide della mia infanzia. Per me via Palestro - quando a Milano mi capita di ripensare a Ferrara - è sempre quella che negli anni Venti, percorrevo ogni mattina per raggiungere le elementari di piazza Ariostea: una via lunga e dritta, senz'ombra di automobili, rari passanti avviati perlopiù verso la Certosa, al centro le tracce evidenti di qualche cavallo, il tempo della giornata scandito, al mattino, dal suono del corno del carro della nettezza urbana, e alle nove di sera, dalla tromba che nella grande caserma dava il segnale della ritirata.
"Le strade che Ercole primo lanciava a incontrar le Muse pellegrine arrivanti" declamava nostro padre, nella speranza di aprire le nostre menti infantili al fascino della poesia carducciana e all'urbanistica di Biagio Rossetti. Ma noi, ancora troppo acerbi, della nostra strada apprezzavamo solo il venditore di castagnacci fermo all'angolo di Mascheraio e la vecchietta - "Zuccaaa! Zucca barucca!" - che sulla sua carriola ostentava una enorme zucca, già cotta e tagliata a metà, gialla d'un giallo che neppure i girasoli di van Gogh.
Le macchine, a quei tempi, erano rare, rarissime. Ne appariva di tanto in tanto qualcuna in corso Roma, svoltava lenta per viale Cavour, scompariva là in fondo fra i due Porti di Guardia del Dazio. Difficilmente si fermavano, e proprio per questo, nelle rare soste, calamitavano l'attenzione di noi bambini, Avevano quasi tutte abitacoli ampi e spaziosi che ricordavano quelli delle carrozze, volanti massicci con al centro la levetta per l'"anticipo" e quella per l'"aria", trombe a peretta di gomma, ruote relativamente sottili a raggi radi e robusti come randelli.
Ricordo il cofano semicilindrico, tondeggiante della Fiat 501 che faceva pensare a quello di una locomotiva a vapore e, per contro, quello lunghissimo e spigoloso della Lancia Lambda; ma ricordo soprattutto l'odore che emanava da quelle poche che si fermavano con il motore acceso: un odore particolarissimo, fatto di ferro caldo, pellame, benzina, olio bruciato. "Odore di automobile", lo chiamavamo; un'espressione che, a usarla oggi, ricorda soltanto i gas di scarico.
Se le macchine in circolazione erano poche, numerose erano invece le case produttrici di automobili. Accanto alla triplice tradizionale - Fiat, Lancia, Alfa Romeo - c'erano la Cairano, la Diatto, la OM, la Bianchi, presenti soltanto con qualche raro esemplare di passaggio. Quanto alla Isotta Fraschini - la più lussuosa e costosa macchina di quei tempi - non ricordo di averne mai vista una con i miei occhi. Ho però ancora memoria vivissima della descrizione che ce ne fece il giovane procuratore di nostro padre, cui capitò di vederne una targata Bologna, ferma davanti al Caffè Foschini, là dove oggi c'è il Bar Europa.
Si trattava, a sentir lui, di un esemplare straordinario: "guida esterna" - il vano anteriore, riservato all'autista in livrea, nettamente separato da quello dei passeggeri - ampio abitacolo completamente foderato in pelle, cornetta acustica per le comunicazioni fra padrone e chauffeur, specchio incorniciato e, accanto ai finestrini, due sottili vasetti di cristallo istoriato per i fiori, indispensabili quando viaggiava una signora. Nel caso specifico, stando a quel minuzioso resoconto, pare che la signora, accompagnata da un gentiluomo molto più anziano, fosse giovane, avvenente e attenta alla moda: cappellino a cloche, lunga veste fluttuante, uscita da un manifesto di Dudovich. Per giorni e giorni al Caffè Foschini non si parlò d'altro.
Tanta attenzione era dovuta la fatto che l'"era dell'automobile" era appena agli albori, la motorizzazione di massa ancora inimmaginabile. A quell'epoca, a cavallo fra i Venti e i Trenta, anche i notabili e i professionisti, più affermati si servivano esclusivamente della bicicletta: nera - va da sé - freni a bacchetta, campanello, carter per non sporcarsi i pantaloni, fanalino a pila, bollo di latta debitamente applicato al mozzo a riprova del pagamento sulla tassa sui cicli - cinque, lire, se non sbaglio. Unico eventuale segno di distinzione: il sellino speciale, marca Terry. Anche il dottor Ferrari, nostro medico di famiglia, uno fra i più apprezzati della città, nel suo giro di visite macinava ogni giorno chilometri e chilometri IN bicicletta sulle nostre strade pavimentate a ciottoli, certo caratteristiche, ma non troppo comode per un signore come lui, dai candidi capelli tagliati a spazzola, IN contrasto con le sopracciglia nerissime.
Non so quali fra i notabili ferraresi siano stati i primi a "motorizzarsi", ma ricordo benissimo i due amici di nostro padre che per primi si convertirono ALL'automobile. Uno fu il notaio Luigi Risso, che aveva abitazione e studio a due passi da noi, in via Palestro. Personaggio di origine meridionale, sanguigno fisicamente quanto raffinato culturalmente, esperto giurista e scrittore di qualche talento, il notaio Risso ignorava non soltanto le macchine, ma anche la bicicletta. Lo si era visto sempre e soltanto a piedi, e per passeggiatine brevissime, non oltre piazza delle Erbe o piazza del Duomo.
Che avesse una macchina lo apprendemmo con ritardo perché la sua era una forma rarissima di automobilismo "clandestino". Si era comprato infatti una dignitosa berlina Bianchi S5 che però aveva subito riposto in un suo locale al pian terreno - di garage vero e proprio ancora non si parlava - dove la cameriera, stando ai pettegolezzi, scendeva ogni mattina a spolverarla. Da quel ripostiglio la Bianchi S5 veniva estratta soltanto in occasione di eventi straordinari, per esempio ai primi di luglio, quando il notaio e sua moglie dovevano affrontare il viaggio fino a Pieve di Cadore, dove passavano la villeggiatura.
L'altro amico "convertito", l'avvocato Raffaello Melli, si era comprato una piccola spyder Fiat 509 di cui andava orgoglioso anche perché, sollevando il cofano del presunto bagagliaio, rivelava a sorpresa due minuscoli sedili di emergenza. Alto, calvo, pesante, l'avvocato Melli aveva una lentezza di movimenti in netto contrasto con il suo pizzetto alla moschettiera color sale e pepe. Ma quando, a fatica, riusciva a incastrarsi nella sua vetturetta, diventava un altr'uomo: occhi brillanti, battute ironiche, gomito sinistro sporgente all'infuori, si divertiva a guidare con giovanile disinvoltura. "Oggi pomeriggio sul rettilineo di Pontelagoscuro ho toccato gli ottanta facile facile" annunciò compiaciuto una sera, invitato a casa nostra. Infelice vanteria che indusse nostra madre a impedirci nel modo più assoluto di prendere posto sui seggiolini di emergenza della 509.
Nostro padre in materia di automobili considerava il notaio Risso e l'avvocato Melli con la benevola superiore condiscendenza riservata di solito ai bambini alle prese con un nuovo giocattolo. A lui, severo professore universitario di stampo ottocentesco, l'idea di comprare una macchina non passò mai per la testa, né allora né poi. Fedele al motto di famiglia da lui stesso inventato - il poco è ciò che appaga - considerava l'automobile un'apprezzabile invenzione del genio umano, ma assolutamente superflua per la nostra famiglia. Lui quando diceva "macchina", intendeva la bicicletta.
Parrà strano, ma anche noi ragazzini, cresciuti ed educati in quell'atmosfera di austerità, accettavamo pienamente le sue regole e la sua filosofia. Né io né mio fratello Francesco, che pur passavamo lunghissimi minuti davanti alle vetrina dell'Esposizione Fiat, accanto a San Carlo, in estatica ammirazione della nuova 514 o della nuovissima "Balilla", pensammo mai che una di quelle auto luccicanti fosse acquistabile come una radio, un grammofono, una bicicletta.
Era, la nostra, un'ammirazione astratta, come si può provare per un'opera d'arte, un'adorazione senza parole, quasi religiosa, per la modernità e la bellezza. Represso durante l'inverno, questo sentimento esplodeva puntualmente a primavera, quando anche a Ferrara arrivava la Mille Miglia.
La Mille Miglia! Decine e decine di macchine da corsa, di tutti i colori, grandi e piccole, lanciate sulle strade statali tenute sgombre per l'occasione, Brescia-Roma e viceversa, su e giù per i tornanti dell'Appennino, dal buio antelucano della partenza a quello della notte successiva; mille miglia, appunto, fra due ali interminabili di folla entusiasta.
A Ferrara le macchine entravano rombando da Porta Reno, arrivavano con troppa spinta all'angolo sotto il Castello. Frenate, sbandate, colpi secchi per ingranare la seconda, e via strepitando in ripresa, terza, quarta, quinta, lungo viale Cavour.
L'arrivo di ogni concorrente era preannunziato con gli altoparlanti da uno speaker piazzato a Malalbergo, pochi chilometri prima di Ferrara. "Transita da Malalbergo il concorrente numero 53!" diceva la voce stentorea. Proprio così: "transita". Un verbo insolito che a me, anche oggi, evoca immediatamente la Mille Miglia.
Quando il concorrente era particolarmente famoso - Campari, Borzacchini, Varzi, Taruffi - l'attesa si faceva spasmodica, l'applauso diventava ovazione. Se poi si trattava di Nuvolari, il più popolare dei campioni, o di Tuffanelli, ben noto corridore ferrarese, agli applausi si univano urla, invocazioni, sventolio di bandiere e fazzoletti.
Bene, la Mille Miglia è stata abolita da un pezzo, in seguito alla strage provocata dalla macchina di De Portago, piombata fra la folla nei pressi di Mantova; e del resto sarebbe presto finita in ogni caso, soffocata dalla fiumana di macchine che hanno invaso le nostre strade. Fenomeno d'altri tempi come i tornei dei cavalieri medioevali, i giovani non ne sanno niente e i vecchi non possono certo rimpiangerla.
Chi mai, oggi, potrebbe tollerare il blocco delle strade fra Brescia e Roma? Perfino un tipo come me, cui il nome di Nuvolari e il verbo "transitare" muovono qualcosa dentro, è ormai immerso fino al collo nella grande marea della motorizzazione di massa. Disposto, dispostissimo ad affrontare code chilometriche, imprevisti, pericoli - e naturalmente anche a rinunciare alla Mille Miglia - pur di poter raggiungere in macchina la casa di campagna per il weekend o di poter arrivare in due ore da Milano a Ferrara. Anche se in via Palestro non troverà da parcheggiare.