So che la stessa domanda è stata rivolta ad altri ferraresi, dai visitatori in aumento dopo la scomparsa di Bassani; e la cosa riempie anche me di orgoglio. Fa piacere vivere in un lembo d'Italia divenuto nell'immaginario del mondo simbolo di una certa condizione esistenziale e storica, grazie alla poesia di un suo figlio, quasi che un luogo consacrato dalla rivisitazione letteraria assuma una vitalità nuova, che ne rinforza l'identità.
E l'esempio di Bassani è unico perché, forse con l'eccezione di Marcel Proust, intento sempre a scrivere di Parigi nella sua Recherche, non si conosce nel Novecento un altro esempio di autore che abbia scritto soltanto della sua città e per tutta la vita. La letteratura vive della sua storia, arricchita dall'opera di Bassani, ma tuttavia di necessità proiettata verso il futuro, attraverso la dimensione del presente.
E anche Ferrara, che uno scrittore ci viva o meno, continua a offrirsi alla fantasia creativa, come a suo tempo si offrì a quella di Bassani. Che non aveva, per sua fortuna, prima di sé alcun maestro contemporaneo con cui poter stabilire confronti... Perché, e cercherò di dimostrarlo, è una seduzione pericolosa quella di scrivere di Ferrara dopo Bassani, quasi quanto per Ulisse il canto delle sirene. Io stesso, dopo aver resistito anni, ho ceduto a questa tentazione, e ben due volte, con Le città del dottor Malaguti nel 1993 e La città volante nel 1999. E non so ancora se mi verrà perdonata questa debolezza.
Ma altri l'hanno fatto, prima di me, e animati dalle migliori intenzioni letterarie, come Gaetano Tumiati ne Il busto di gesso, nel 1976, e la sorella Roseda ne La pace del mondo gelatina, nel 1984, il primo vivendo fuori, la seconda dentro le mura estensi. L'elenco non potrebbe poi non comprendere i tanti pregevoli racconti e romanzi, di sicuro e originale valore letterario tutti scritti in stato di autentica necessità, di Gianfranco Rossi, spirato a Ferrara poche ore prima di Bassani a Roma, di cui era cugino, il 12 aprile del 2000.
Sono narrazioni nelle quali si sente ripetitiva e sospesa l'atmosfera ferrarese degli anni della giovinezza di Rossi, soprattutto quelli successivi alla seconda guerra mondiale, spesso influenzati dall'arte a lui più cara dopo la narrativa, il cinema. Eccone alcuni: La contentezza (1981), Il trionfo dello sciamano (1984), I sogni ricorrenti di Biagio Balestrieri (1986), Gli ultimi avventurieri (1987), L'intreccio (1989), Gli spettatori dimenticati (1991), Puttaneggiar coi regi (1993), Conversazioni col silenzio (1995), Memorie senza teatro (1996), Gli amici del buio (1997).
Poi, ricordando che non sempre Ferrara appare come schermo di tante loro invenzioni - nelle uniche prove narrative di Carlo Bassi e di Eleonora Cavallini, assente del tutto - non si potranno dimenticare le scritture d'ispirazione morale e cristiana di Antonio Caggiano in versi e quelle in prosa come Storie; quelle narrative cariche di un vitalismo pulp del giovane Sergio Fortini, come Ferite da piccolo taglio; quelle di Aldo Luppi, narratore attento alle osservazioni di costume e sempre ispirato da una sorvegliata e severa intenzione morale ben dissimulata dagli acri umori della satira, come Odio Ferrara, Lettere a Giorgio, L'uomo di carta, Il libraio ubriaco, Assunzione di colpa; quelle di Rita Montanari in versi, Rami di vetro, e il singolare epistolario Caro fratello, cara sorella, un documento umanissimo che ritrae la formazione interiore di due giovani ferraresi; quelle narrative di Stefano Tassinari, dapprima ancora involte nell'ideologia poi sempre più ispirate da un'acuminata sperimentazione del linguaggio, Riflessi di ruggine, All'idea che sopraggiunge, Ai soli distanti, Assalti al cielo; i romanzi e i racconti di Giuseppe Moscardini, di sottile indagine psicologica e storica, Il volo delle folaghe e Gli anni gentili; le precoci prove narrative e in versi dell'acuto critico Andrea Pagani; i racconti, sospesi fra realtà ed evocazione, di Gianna Vancini, I fili del tempo e La mela e il giglio.
E poi, scegliendo nella ricca fioritura poetica, le più memorabili a mia conoscenza, le raccolte pubblicate da Corrado Antonietti, Franco Bracardi, Luca Chizzoni, Lamberto Donegà, Lidia Fiorentini, Patrizia Garofalo, Gianni Goberti, Roberto Guerra, Maria Teresa Mari, Rita Mazzini, Ada Negri, Rita Pavani, M. Luisa Poltronieri, Fabrizio Resca, Riccardo Roversi, dell'intelligente e coraggioso editore Massimo Scrignoli, di Filippo Secchieri apprezzato anche per l'attività di fine critico, di Guido Tagliati, di quel grande giornalista che è Gianpietro Testa, di Italo Verri, Paolo Zanardi Prosperi, nonché quelle che il tempo ha salvato di Giuseppe Pedroni (1924-1988), Andrea Carli (1919 - 1990), Giuseppe Sateriale (1920-1998), Lorenza Meletti (1940- 1995) e Franco Giovanelli (1916- 1994), raffinati letterati scomparsi qualche anno fa, indimenticabili educatori di generazioni di ferraresi.
Non si può poi tacere del bel romanzo di Elettra Testi, La sorella, perché se lo scenario recanatese della protagonista, sorella del Leopardi, lo sottrae alla ferraresità, il tema della provincia come carcere dell'ingegno rinchiuso nel carcere del corpo femminile, evoca Ferrara, da molti ferraresi vissuta come un'altra Recanati - basterebbe l'esempio di De Pisis ne La città delle cento meraviglie, come ci ricorda Gianni Venturi.
Sia detto qui di passaggio, per molti scrittori ferraresi si pone il parallelo Recanati-Ferrara, trasfigurando in luogo letterario l'affanno per un artista di vivere in una provincia avvertita come lontana dalla vita economica e culturale del paese. E in genere il filo rosso che unisce tanta produzione letteraria su quella Ferrara che Bassani non conobbe e non poté cantare, è un'idea di città che, a dispetto della sua fascinosa bellezza, è luogo dove le aspirazioni e le utopie della giovinezza sono state incapaci di partorire una vita all'altezza delle aspettative, germinando nel tempo il ricorrente sogno tentatore di andarsene.
Ora, come dicevo, al contrario di quel che ci si poteva attendere, aver avuto Bassani avanti a sé, come battistrada, scrivendo di Ferrara, non sembrerebbe essere stato proprio un vantaggio per tutti questi autori.
Bassani infatti potrà spingere all'emulazione, nutrendo il sogno di continuare la tradizione letteraria ferrarese - che va da Boiardo, Ariosto, Tasso, Daniello Batoli, Alfonso Varano, a Corrado Govoni, senza tacere dei critici letterari Lanfranco Caretti, Claudio Varese e Walter Moretti, considerando Giuseppe Pederiali, di Finale Emilia, modenese - ma falcia sotto i piedi l'erba a chi cammina nel "suo" giardino...
Perché se si va a esaminare la produzione letteraria considerata, che ormai copre l'arco del secondo novecento, il tempo storico di cui Bassani non parlò, si potrà avvertire che per nessun autore la città assume quel valore di simbolo che aveva saputo donare solo lo sguardo, "fra realistico e metafisico" di Bassani, come suggerisce Paolo Vanelli.
Le case, i giardini, le mura, la Certosa col suo antistante prato abbracciato dai portici, la sinagoga, il cimitero israelitico, la via delle Volte con la sua suburra limitrofa, la Marfisa e il suo circolo tennistico, il ghetto, via Mazzini, via Montebello, gli orti all'interno delle mura, in Bassani non sono più elementi geografici soltanto, pur così veri da suscitare nel lettore domande come quella rivoltami qualche tempo fa, in corso Ercole d'Este. Diventano un simbolo universale della vita, con i suoi valori perenni e le sue stagioni storiche: la giovinezza arsa di aspettative, la scoperta dell'amore, il mistero dell'eros con le sue versioni della diversità, l'amicizia, la scoperta della solidarietà nascosta nella politica, la fame d'amore celata nell'ambizione letteraria, il riconoscimento del destino individuale in quello generale della stirpe, l'incomprensione fra generazioni diverse, la vita individuale travolta dalla storia pubblica, la guerra, l'Olocausto.
Questo è un sigillo irripetibile imposto dalla penna di Bassani alla "sua" Ferrara, che nessuno può replicare. La poesia, quando è alta, è inimitabile, diventa la "cosa" che si poteva scrivere solo in quel modo e impossibile - con buona pace dei professori - da parafrasare.
Il confronto con Bassani pare così temibile da scoraggiare chi si ponga sulla via di trasfigurare la stessa esperienza storica. Nessuno degli scrittori nominati si è posto Ferrara come oggetto di reinvenzione, piuttosto parrebbero aver posto se stessi come oggetto di reinvenzione, in un lirismo prevalente che stinge sullo sfondo una città provinciale e addormentata, appena tratteggiata nelle sue linee riconoscibili soprattutto per una sua tendenza autocelebrativa che pare più aduggiare che esaltare chi si sente stretto dalle mura estensi.
Alla luce di queste considerazioni tanto più è apprezzabile il coraggio dei fratelli Tumiati per aver tentato la stessa via di Bassani, forse anche stimolati dalla condivisione della materia trattata, che è la loro esperienza di formazione giovanile, durante il fascismo, un'esperienza consumatasi insieme al loro amico Giorgio Bassani.
Eppure, l'impressione che se ne ha leggendo le loro opere è che il filtro sottile della memoria e l'enzima di un'agrodolce ironia elaborino senza uno sguardo metafisico quello che narrano. E Ferrara ne emerge allora come una città italiana non tanto diversa da altre in quel momento storico, narrata con molto garbo e sapienza stilistica, godibile fino a meritare a Gaetano Tumiati il premio Campiello, e a Roseda Tumiati il Bancarellino, ma non elevata a cifra, a simbolo di una condizione universale.
Diverso mi sembra il caso di Gianfranco Rossi (1931- 2000) che soltanto nella produzione più recente affronta la sua memoria di ebreo perseguitato, forse spinto a riviverla da riemergenti fantasmi antisemiti. Nell'altra prevalente, e per me più convincente sua produzione, Ferrara rimane un luogo deprimente e tagliato fuori dalla vita, vero specchio della sua anima, ma luogo più mentale di una geografia personale dell'autore che vero simbolo poetico.
Tanto più che di rado Rossi precisa luoghi, vie, piazze, preferendo restare quasi sempre in un'area indefinita di città del nord, avvolta dalla nebbia d'inverno, soffocata dal caldo d'estate. Quasi che Rossi trasfonda nella prosa l'atemporalità di una dimensione straniata, priva di riferimenti a stagioni politiche, disarmata di ideologie e illusioni trascendenti, per certi aspetti di eroismo capovolto e negativo affine a quella di alcuni personaggi di Piero Chiara e di Alberto Moravia.
Credo di sapere che ostacolo impedisse a Gianfranco Rossi di procedere per una via di trasfigurazione più diretta e radicale di Ferrara, sulla scia del più fortunato cugino. Rossi viveva a Ferrara e a Ferrara è morto. Bassani andò a vivere a Roma dalla fine della guerra, e a Roma morì. Rossi pativa nella carne la quotidianità ferrarese. Bassani da lontano, rovesciando il cannocchiale, poteva porre fra sé e Ferrara quella distanza che sola sapeva trasfigurare la città.
Pur tenendo sospesa la questione del diverso valore dei due autori ebrei, che non sta a me porre, si potrebbe dire che aiutava Bassani a trasfigurare il "pio passato" la distanza fra sé e quel che narrava, distanza non solo temporale - questa la godeva anche Rossi, invecchiando. Per Rossi Ferrara era una ferita aperta, da medicare ogni giorno, appena apriva gli occhi. Per Bassani la cicatrice di un'antica ferita, il segno di un immedicabile ammanco storico e individuale, che si illuminava non appena socchiudeva gli occhi.
Ho condiviso con Rossi la ventura di vivere a Ferrara, senza mai lasciarla. Dopo dieci romanzi, di cui due soltanto dedicati alla città, so che la forza di trasfigurare Ferrara me l'ha data sì il tempo, che scorrendo fra queste mura ha reso la mia vita, come quella di tutti, un archivio di memorie non solo individuali ma pubbliche, un pezzo di storia. Ma soprattutto quella forza me l'ha donata uno sguardo che Rossi non aveva e che a Bassani era altrettanto ignoto. Lo sguardo fantastico ariostesco.
È per l'esperienza che ho di vivere qui, l'unica difesa per salvarsi dall'ombra di Banquo di Bassani, il fantasma che incombe su tutti noi scrittori ferraresi. Il suo sguardo sulla città, sospeso e ambiguo com'è fra "realistico e metafisico", richiede pupille che vedano come Farinata degli Uberti nel canto X dell'Inferno dantesco: "Noi veggiam, come quei c'ha male luce, / le cose" disse "che ne son lontano;/ cotanto ancor ne splende il sommo duce. / Quando s'appressano o son, tutto è vano / nostro intelletto; e s'altri non ci apporta, / nulla sapem di vostro stato umano."
Un processo che somiglia a quello di certi naturalisti soliti svuotare un uovo della sua vivente materia per farne un oggetto di studio e collezione, leggero come una pomice, astratto e perfetto come l'airone impagliato che incantò Bassani da una vetrina di Codigoro. Confesso che è stato per questo vissuto, condiviso con Rossi, rimanendo a Ferrara, che mi sono commosso quando, commemorando Bassani, al suo funerale, nello stesso cimitero israelitico IN cui avevamo pochi giorni prima accompagnato anche il meno fortunato cugino, ho detto rivolgendomi al grande estinto: " Ma tu, caro nostro testimone, te ne eri andato da qui, vivevi a Roma. Tu non sei rimasto qui fra noi, a vivere la povera vita dimezzata dei tuoi fantasmi ".
Concludendo questo ragionamento sul non facile destino di scrivere di Ferrara, vivendo a Ferrara, dopo Bassani, vorrei precisare che parlando dell'ispirazione fantastica che possa trasfigurare la città fino a farla volare sulle nuvole, ho voluto soltanto accennare a vie di salvezza dal confronto.
Non ho certo inteso dire che sia questa poetica, opposta a quella praticata da quel grande, la garanzia di emularne l'altezza e il successo. Che è là, visibile a tutti, ormai avendo superato l'esame del tempo nella morte. Quel tempo che vale per tutti, per me, per Giorgio Bassani e per Gianfranco Rossi, per i Tumiati, per la Meletti e Giovanelli, per tanti cari amici vivi, come per tanti già scomparsi, nella sua capacità di costruire le antologie di quel che rimane. È una delle poche generosità della morte preservarci dall'apprendere se i nostri sogni letterari ci sopravviveranno.
Ferrara resta comunque là, accanto al suo Po come una santa alla ruota del suo martirio e della sua consacrazione, dai tempi del Boiardo luogo ideale per nutrire metafore che possano farci meglio intendere il senso della nostra vita, si appartenga alla schiera di chi scrive o soltanto a quella di chi legge.