Sabato, primavera, ore diciotto: nell'aria, l'odore di erba tagliata, tigli e polline che viene da fuori le mura è così intenso che diventa rumore, e come rumore si confonde con le macchine che a quest'ora, in questo giorno, sono chiatte fluttuanti di mercanzie fra le rotte dettate dagli ipermercati della città. Se qualcuno avesse voglia di piantare uno di quei piloni da circo sulla montagnola che insiste sull'angolo nord est della cinta muraria; se questo qualcuno avesse, poi, voglia di salirvi; se tutto ciò avvenisse proprio di sabato, primavera, ore diciotto, si sentirebbe, in quell'istante, una persona rara: capirebbe la linfa della città.
Avrebbe, infatti, ai suoi piedi, il sistema del verde, che parte proprio da quel quadrante, quasi un quarto di città, per disperdersi in centinaia, centinaia di pixel di diversa risoluzione, una grande potenziale rete di luoghi semipubblici all'aperto, se li si aprisse, questi infiniti cortili; il sistema dei tetti, superfici di gatti e telecomunicazioni, tegole e parabole. Il sistema articolato della mobilità ai suoi piedi potrebbe, poi, offrirgli brillante prova del proprio funzionamento integrato, binari di pedoni sulle mura, binari di cicli sottomura, flussi di macchine come perimetro tra verde e verde. Poi, il parco urbano, bimbi che rincorrono gli ultimi aquiloni della giornata, qualche pozza gentile, palloni rassegnati che si lasciano calciare dalle velleità di qualche libero professionista in tenuta sportiva. Questo sistema, anzi questa ecologia, durerà ancora per un'ora, forse due, prima che lo scenario cambi e dalle quinte spuntino le scenografie del loisir.
Apparentemente il tessuto stradale sembra perdere di connettività, alcune arterie si atrofizzano - dirada il traffico, la luminosità - si adagiano alla notte. Altre riemergono dopo la pausa doccia, pulsano di porte sempre in movimento, si rimpallano le persone, i profumi griffati del dopo palestra sostituiscono tigli ed erba tagliata: la primavera artificiale è iniziata.
Ricetta geografica
Si provi dunque a immaginare la carta della città. Si cancellino due terzi delle strade del giorno: resterà un groviglio centrale aggrappato a castello e piazza, qui le luci non sono quelle delle macchine, ma i volumi dei locali. I rumori non sono frenate o motori, seguono le distorsioni sincopate di chi entra e esce lasciando effluvi di aria densa e bicchieri incrociati.
Resteranno poi sulla nuova mappa notturna due assi di accelerazione, portamare-portapo e giovecca-cavour, rettifili di attraversamento est-ovest (questa città si può attraversare in fretta solo da est a ovest e viceversa) per fughe meccaniche, più un asse a pulsazione più tenue, carlomayr-ripagrande, per fughe all'inglese. La nuova carta avrà dunque un nucleo denso centrale e tre linee di luce rapida trasversali; più, questa la vera novità, diversi neon accesi a circondare le mura, reti circolari di pompe di benzina e parcheggi, locali di sosta, interlocuzioni gaudenti nei percorsi di uscita dalla città.
La primavera artificiale, quando prorompe in tutta la sua carica di effluvi e sguardi e ormoni sospesi, in realtà è già da tempo iniziata davanti agli specchi di palestre frequentatissime, sotto il volume alto di ritornelli ascoltatissimi, stappando bibite rigeneranti coloratissime.
Là i primi afrori di corpi sudati si sono confusi con gli aromi speziati del dopo doccia, là sono avvenuti gli accordi più intimi per incontri notturni al ritmo degli stessi ritornelli, fra persone testate con il pedigree per la cura del corpo. Ma si era già insinuata anche fra le stanze di biblioteche, appendici salottiere dei monolocali degli studenti. Fra queste resting room a temperatura controllata, i tavoli sono bancarelle per esposizione di libri usabili, gli afrori sono quelli della palestra, solo meno pungenti, più ovattati dalle carte.
La semantica delle biblioteche è diversa da quella delle palestre, ma, mentre quest'ultima è omologata, per contratto, ovunque, ogni biblioteca si identifica in dialetti di segni relazionabili alla "categoria" della biblioteca e, soggettivamente, alla tipologia degli studi intrapresi. Così, per sfumature determinanti, "studiare ALL'Ariostea" è diverso che "studiare al Mammouth", "studiare a Legge" non è neppure equiparabile, per ritmi di pausa e vestiti utilizzati, allo "studiare a Lettere" (palazzo Gulinelli); l'Archivio di Stato, l'Archivio Storico, le biblioteche di Barco o Porotto rimangono fuori rotta, oasi semisconosciute per addetti ai lavori, piccoli veri serbatoi di conoscenza.
La biblioteca, in generale, non è prettamente un luogo di studio. Si potrebbe, piuttosto, definire luogo dei dubbi e dei programmi: ci si lamenta, in biblioteca ci si lamenta tantissimo e si fanno programmi - sul pomeriggio, sulla serata, sulle vacanze, sul futuro. Poi si racconta. Con un po' di applicazione si può diventare abili narratori, esperti delle pause giuste (almeno quanto quelle fra una lettura e l'altra), narcisi della sigaretta. Si fuma, infatti; cortili, cortiletti, vani scala, corridoi. E si beve. Solo ogni tanto, per festeggiare.
In verità, le biblioteche a Ferrara sono ebbrosari: luoghi dove si custodisce e si coltiva metodicamente l'ebbrezza di un programma, l'idea di una novità (o la novità di un'idea); ma ancora troppo istituzionali perché questa ebbrezza si manifesti nel suo disordine, e troppo ferraresi perché questo impulso sia vissuto come slancio e non come patologia.
Appendice naturale di una giornata IN biblioteca è l'aperitivo. Questa stagione di grazia per gli aperitivi in città piomba - è il caso di dirlo - dopo anni di oscurantismo e si spande fra gli ultimi traffici del centro, appropriandosi di quell'orario un tempo popolato solo da residui sacchetti di spesa e ritorni frettolosi da scuole d'inglese e ripetizioni.
Nuovi tracciati si sono aperti fra un bar e l'altro, in terre lontane dal vino come le nostre, compare frequente il titolo "enoteca", magri banconi di desolate arachidi si riempiono di tartine e avventori, signorine truccate, avvocati impuniti, studenti fuoricorso, olii e profumi, gomito a gomito: siamo, finalmente, una città. Una città che da quando prende più aperitivi va pure al cinema (Boldini e Manzoni, per le novità); ci deve essere un collegamento.
Anche in questo caso vi sono percorsi e binari da seguire, differenti per sfumature sensibili, per modi di intendere le occasioni. Queste trame si estendono oltre cortina, trovano emuli fuori mura in luoghi inventati, finalmente senza tradizione. Ci sono bar sconosciuti a chi lavora, cammina, ormeggia in o per il centro. Piccoli nuclei che assorbono interesse e clientela dall'espansione edilizia cui sono legati, da portici improbabili su piazzette clonate.
Si riempiono, anch'essi come i locali del centro, di aperitivi generosi, di quella forma di relax che consiste nel parlare senza dire, nel sentire senza ascoltare, più semplicemente in uno sciamare di voci e suoni quasi uguali, sera dopo sera, in un crescendo di aspettative inversamente proporzionale a ciò che accade d'interessante e che trova il culmine nel fine settimana. Weekend, signori. Sede legale dei divertenti intrallazzi.
Quando il faceto fa sul serio.
Sabato, primavera, ore venti. Sono in piedi su un pilone da circo sulla montagnola a nordest della cinta muraria con il mio amico Joued: stiamo guardiando, in silenzio, la città. Lui mi fa notare come da questa anomala altura sulla città piatta si può vedere quello che i ferraresi non pensano di Ferrara. Cioè che le mura sono solo un disegno, non più un limite. La città continua e va a disperdersi molto più oltre. E, nel frattempo, ha la possibilità di tramutarsi, di cambiare regole e modi d'uso.
Le proposte che gli ho presentato derivano tutte da ciò che mi è sembrato di capire dei movimenti di questa città, dei comportamenti di chi la scalda.
Sono tutte parte di una cartografia dell'aggregazione che si esplica, dichiaratamente, il fine settimana, dopo aver inventato, ogni volta in cinque giorni, la necessità per la sua stessa esistenza.
Avvertenza: non è regola attraversarli tutti, i locali di ogni percorso; spesso, a chi privilegia la stanzialità bastano un paio di soste; forse ci sono altre regole, più tacite, che ci si accorge di infrangere ogni qual volta gli occhi di una maggioranza di persone si posano, anche solo per un istante, su chi dà una sensazione di non appartenenza.
Percorso centrale, parte prima: enoteca da massimo - il frantoio - la corte - i contrari - lov
Eventuale destinazione finale: pelle d'oca
Geografia obbligata: galleria Matteotti - via baluardi - via saraceno - via contrari
Musica utilizzata: ricky martin - jennifer lopez - shaggy - sonique - remix anni '80
Percorso centrale, parte seconda: brindisi - due gobbi - tiffany - osteria
Eventuale destinazione finale: piola - renfe
Geografia obbligata: via adelardi - piazzetta municipale - via de' romei
Musica utilizzata: jazz - soul - avanguardie inglesi - anni '70
Locali super partes per percorso centrale: giori - tre pennelli - bar ariosto
Riferimenti fuori mura:
zona sud: sebastian pub - irish pub - rheine meuse
zona sud-est: bar arlecchino - bar san giorgio - bar chance
zona est: enfant prodige - bar acca - jazz club torrione - bar stella
zona nord-ovest: blues mama - hurly burly
zona ovest: mc donald - ipermercato bennet
zona sud-ovest (entro le mura): bar bistrot - bar rossi.
Non ci sono derive, in queste traiettorie alla fine precise. Le uniche deviazioni possibili appaiono a chi decide di percorrere gli assi che si diramano centrifughi dalla città. Il Mare, Bologna, il Mantovano, il Veneto. Joued non è d'accordo: le derive possibili ci sono. Secondo lui mi sono dimenticato, ad esempio, di un bar in via Saraceno. Un bar frequentato per la maggior parte da ragazzi extracomunitari, nel cuore della città.
Sabato, primavera, ore ventidue: Joued e io stiamo bevendo il secondo spritz in questo bar di via Saraceno. Io sono un po' a disagio, mi sembra di forzare la situazione, stando qui. Su di me non sento solo gli occhi di chi viene da un'altra terra, mi fissano anche gli altri, i signori anziani che hanno imparato a condividere con loro i tavoli delle carte e dei giornali sportivi. Avverto anche in Joued una contrazione d'imbarazzo.
La cosa sorprendente è che non ho invaso io, in quanto italiano bianco, uno spazio già occupato da altri: il gruppo formato da me e Joued si è infiltrato in un luogo ibrido, una specie di inconsapevole privé dove anziani signori ferraresi contendono briscola e schedina a Hassan, Aziz, Said. È sorprendente la rottura di complicità che la nostra entrata ha prodotto, è sorprendente che Joued sia a disagio quanto me.
Inebriato, anziché frenato da questi pensieri, mi scopro a voltarmi di scatto verso un tavolo di giovani - magrebini? palestinesi? - tendendo loro il bicchiere mezzo vuoto, dico, con volume di mezzo tono alzato rispetto a un dialogo normale: oggi per me è festa, offro a tutti. Un istante di silenzio un po' freddo, si consultano con un paio di sguardi obliqui, non diretti, uno di loro parla per gli altri: grazie. Ordino con enfasi una bottiglia e diversi bicchieri, Joued mi guarda un po' stranito e mi chiede sottovoce quale festa.
Io faccio finta di non sentirlo e organizzo bicchieri, dosi e movimenti.
Faccio un cenno e li chiamo al bancone con noi: ho ancora troppa inerzia per avvicinarmi con naturalezza al territorio del loro tavolo. Il bancone è neutro, buon campo d'interazione. L'operazione riesce. Nel giro di una mezz'ora stiamo già parlando di donne, dopo tre quarti d'ora ci troviamo a discutere in fazioni contrapposte sul valore o meno di questa Roma da scudetto; dopo poco più di un'ora si parla addirittura di politica.
Alla fine si decide con due di loro - un ragazzo tunisino di ventidue anni che fa il carpentiere e un ragazzo palestinese di vent'anni appena arrivato in città - di prendere la macchina e andare. Dove? Deriva, risponde Joued. E deriva sia. Guido io e decido di prendere la strada per il mare. Devio sulla statale che da Ostellato conduce a Portogaribaldi, seguo il tragitto dell'idrovia.
Mi fermo con la macchina e li porto sull'argine: davanti a noi il canale d'acqua dolce, due diramazioni con altrettante chiuse, suoni di gufi, odore già di mare e volteggi di ali senza dimensione, stelle chiare. Questa è la deriva. Gli altri sembrano molto colpiti dal paesaggio, lo condividono in un silenzio di sottile, misurata confidenza. Torniamo alla macchina. Avvertiamo suoni e rumori scomposti da luci quasi vicine, che vicine diventano nei nostri pensieri. Una festa, non ci faranno entrare.
Dopo venti minuti stiamo ballando forsennati con gente sconosciuta che ci ha appena offerto da bere. Mi viene da pensare che a volte, in campagna, è tutto più facile. Joued si avvicina al mio orecchio traballando di drum'n'base, mi urla: "Di quale festa parlavi prima?"
"Di questa".
Mentre torniamo, un silenzio compiaciuto ci avvolge, come di sabato ben speso. La radio tace, musica ascoltata: il rumore dei nostri pensieri lenti.