I fratelli, appunto: Alfonso II, il primogenito, destinato a succedere al padre nel ducato, nonostante una certa rozzezza di modi e di propensioni che, al principio, lo fecero giudicare inadatto (giudizio poi fortunatamente rivelatosi infondato); Ferrante, il "bellissimo garzone" , addirittura paragonato a un San Giorgio quando entrò a Firenze al seguito di Carlo VIII, ma ambizioso all'estremo e incline soprattutto al proprio "particulare"; Ippolito, avviato fin dall'adolescenza alla carriera ecclesiastica, lui, uomo d'impulsiva e prorompente vitalità, mondano, sensuale, altezzoso e scettico sino all'esasperazione.
Finché Ercole fu saldo sulla breccia, gli inevitabili contrasti fra fratelli per via dei caratteri e delle condotte non provocarono danni di rilievo, nonostante le inevitabili tensioni e le frequenti liti fra i servitori e gli armati al loro seguito; ma le persone più prudenti e accorte erano fortemente preoccupate per quello che sarebbe potuto accadere più avanti, tant'è vero che, quando lo stesso cardinale era entrato nottetempo nell'abitazione di un capitano di Alfonso, facendolo bastonare a sangue, l'onesto e saggio ambasciatore mantovano Bernardino Prosperi commentava amaramente: "Fu una cosa che attrista molto gli uomini da bene, e che fa fare tristo iudicio quando manchasse questo vecchio."
"Questo vecchio", il duca Ercole, morì il 25 gennaio 1505 e il "tristo iudicio" si rivelò ben presto tutt'altro che avventato. Va detto subito che Alfonso si dimostrò, per tanti inaspettatamente, all'altezza della situazione, affrontando con adeguati provvedimenti e coraggiose decisioni la precaria situazione amministrativa e finanziaria del ducato, compromessa negli ultimi tempi da "estorsioni e magnerie grandi" (come rapportava a Venezia Marin Sanudo) o da "cose enorme e degne di corruzione" (era il solito Bernardino Prosperi a registrarlo).
Si dimostrò accorto e fermo nei rapporti con le famiglie più facoltose e potenti della città, quali i Trotti e i Costabili, e soprattutto seppe tenere a bada i feudatari rissosi e infidi di Modena e di Reggio, che si chiamassero Pio o Pico o Boschetti. E cercò quello che era più importante: l'accordo con i fratelli. Garantì a Ippolito piena libertà di movimento anche in relazione al rango assunto in campo ecclesiastico; a Giulio e Ferrante provvide un cespite finanziario idoneo a consentir loro gli spassi di una vita facile e spensierata quale essi ambivano; c'era anche un altro fratello, Sigismondo, ma era un uomo mite e meditativo, tale, insomma, da non dar fastidio.
Di una cosa non si può dubitare: fra il duca Alfonso e il cardinale Ippolito si era stabilito un accordo piuttosto rigoroso, nel senso che i due avrebbero percorso due strade: il primo, quella del governo ducale; il secondo, quella della propria carriera e del successo mondano e politico quale si configurasse nel tempo, convenendo a entrambi di non venir meno al patto, per affrontare sull'uno e sull'altro fronte le inevitabili tempeste.
Gli altri due era tagliati fuori: se, per Giulio, la situazione si presentava in qualche misura sopportabile, purché gli avessero lasciato spazio per una vita spensierata e dissoluta, Ferrante scalpitava, giudicandosi - e gli avvenimenti successivi avrebbero dimostrato quanto avesse torto - persona ben più adatta del fratello primogenito, ritenuto rozzo e incapace a guidare uno stato come quello di Ferrara.
Comunque, i tre - Giulio, Ferrante e Ippolito - si lasciavano spesso trascinare dai loro caratteri impetuosi e turbolenti a una serie di scherzi, offese, vanterie cui corrispondevano automaticamente risentimenti, ritorsioni, vendette sul filo della banalità più superficiale, ma assai pericolosa perché passibile di sconfinamenti nell'irreparabile.
Già il proposito di Ferrante di disfarsi di Alfonso, ma anche di Ippolito, aveva trovato corpo, come pare, nelle trame di una congiura ordita in località Lame da lui, da Gherardo Roberti di Reggio, capitano dei balestrieri ducali, e dal vecchio e borioso uomo d'arme, nonché conte di San Cesario, Albertino Boschetti, uno dei cosiddetti "raccomandati" degli Estensi, cioè di quei feudatari dei ducati di Modena e di Reggio di investitura imperiale, i quali dovevano, in qualche misura, a costoro una sudditanza non chiaramente definita.
Di certo, comunque, i rapporti fra i fratelli si fanno sempre più tesi e preludono alla tragedia. Basta un episodio per creare gli equivoci più pericolosi e gli scontri più compromettenti. Al cardinale Ippolito salta in mente, dopo averlo fatto rapire, di relegare nella rocca di Boiardo il cappellano di don Giulio, tale Rinaldo da Sassuolo, ma la risposta non si fa attendere: con alcuni amici, don Giulio non solo va a liberare il cappellano, ma, con l'intento evidente dello scherno, gli sostituisce nella stessa prigione il castellano della rocca.
Il duca, esasperato per l'accaduto, spedisce subito don Giulio in confino a Brescello, e il problema se concedere o meno un indulto, con tutte le conseguenze immaginabili nell'animo degli offesi, l'avrebbe angustiato chissà quanto, se la nascita del primogenito suo e di Lucrezia Borgia non avesse reso plausibile un'amnistia, del resto sollecitata dalla stessa marchesa Isabella, prestandosi, per il momento, a chiudere l'inquietante faccenda.
In un'atmosfera tanto surriscaldata bastava una piccola scintilla per far divampare l'incendio. E, qui, l'astuto calcolatore e freddo tempista, quale Ippolito si era sempre dimostrato e si dimostrerà in seguito, si lasciò trasportare da un inconsulto rigurgito d'ira. Quel che potevano le donne nella sua vita non era ignoto ad alcuno; non per nulla, l'attenzione da lui sempre rivolta alla cura del corpo (aveva mani candide a curatissime), all'eleganza delle vesti, all'eloquio, suadente e amabile, era chiaramente finalizzata a colpire la sensibilità femminile e a suscitare un'adeguata e gratificante risposta.
Quella grande personalità che fu Alberto Pio di Carpi lo dipinge a puntino in una lettera in cui si descrive quanto avviene a Imola in occasione di una visita effettuata colà da papa Giulio II: "Ippolito è stato molto notato IN quella sua zazzarina e di far tanto la ninfa; e ho di buon luogo che il papa ha ordinato al maestro delle cerimonie che come lo ritrova IN compagnia di quattro o cinque cardinali lo debba rabbuffar della zazzara."
Ebbene, Ippolito si era invaghito di una damigella di corte (con tutta probabilità l'avvenente Angela Borgia, cugina di Lucrezia) e quando si accorse della ritrosia di colei (avesse o meno affermato essere più amabili gli occhi di don Giulio che tutto intero il cardinale), il furore scoppiò incontenibile.
La scena: i prati di Palmirano avanti la villa di Belriguardo, il 3 novembre 1505. L'aitante don Giulio cavalca nella direzione di quella favolosa "delizia". Arriva il cardinale, il quale, al colmo dell'eccitazione, ordina agli staffieri di uccidere il fratello e di cavargli gli occhi. Nel trambusto del momento il poveraccio, sbalestrato dal cavallo e percosso più volte in viso, si difende come può, mentre gli aggressori fuggono e riparano in luogo sicuro. Con gli occhi pesti e sanguinanti, Giulio è subito trasferito in castello, a Ferrara e dal duca Alfonso affidato alle cure di medici illustri. E il cardinale? Abbandona in un lampo la città per rifugiarsi a Mantova, presso la corte dei Gonzaga e la sorella Isabella.
Alfonso rimase stravolto dal dolore per quel dramma che sconvolgeva la sua famiglia e dall'angoscia per le inevitabili ripercussioni sul contesto politico e diplomatico italiano. Cercò immediatamente di correre ai ripari, ovviamente entro gli spazi - limitati - a lui consentiti in quella contingenza.
Com'è naturale, per evitare il peggio occorreva elaborare una versione ufficiale dei fatti, la meno compromettente possibile, ed egli lo fece sollecitamente, addossando la responsabilità dell'atto insano ai servi di Ippolito, i quali avrebbero agito o per vendetta personale o per la convinzione di compiacere, così, il cardinale, disturbato non già da una rivalità amorosa (intorno a cui, evidentemente, si doveva fare assoluto silenzio), ma dalla "differenza" del cappellano, vale a dire dalla nota vicenda della rocca di Boiardo.
Una missiva fu spedita a tutte le corti per comunicare questa tale distorta narrazione. Quella inviata a Mantova era accompagnata da un foglio con il racconto genuino delle cose accadute, steso da Alfonso che voleva aprire al cognato e alla sorella il proprio animo esacerbato, raccomandando al tempo stesso di distruggere subito quel documento così compromettente (il quale, com'è ovvio, si trova ancora oggi nell'archivio di quella città, strumento troppo comodo a prestarsi per una ritorsione o un ricatto da parte dei Gonzaga).
Del resto, nessuno prestò fede a quella versione, a Mantova e altrove, tant'è vero che Isabella, in una lettera al fratello si esprimeva nei modi più franchi ed espliciti: "Non c'è barbero, in piazza, che meglio non lo sappia raccontare che non ha fatto il post scripta" , cioè il foglio aggiunto.
La ragion di stato non consentiva al duca di comminare la giusta punizione a Ippolito. Alfonso, che in questa circostanza ci commuove per la volontà di mettere pace in una famiglia così invelenita dall'odio, pianse di gioia e di consolazione quando, nel Natale dello stesso anno, ottenne una formale riconciliazione fra i fratelli. Ma ci voleva ben altro che l'appello ai sacrosanti vincoli familiari per ricomporre un'unione già tanto compromessa. Sotto sotto si disegnarono e si svilupparono le trame di una congiura volta a sopprimere il duca e il cardinale, il cui primo abbozzo era stato formulato tanto tempo prima nella piana delle Lame. I protagonisti: Ferrante e Giulio, naturalmente; poi, Albertino Boschetti, conte di San Cesario; Gherardo Roberti di Reggio, capitano dei balestrieri ducali; Franceschino da Rubiera; e un musico cantore, intimo del duca, fornito, fra l'altro, degli ordini sacri, Giovanni d'Artiganova, detto Gian Cantore, una losca figura.
Il gruppo dei congiurati, tutt'altro che omogeneo, si mostrò incerto sui tempi, sui modi e sui luoghi delle mosse decisive e, indugiando e rinviando, non tenne conto come dall'altra parte, avendo avuto sentore di strani movimenti, il cardinale, accorto e tempista come sempre, vigilava. Bastò che i sospetti, via via, prendessero corpo: arrivarono i primi fermi e quella ragnatela di trame, di cospirazioni, di piani, si scompose per dissolversi come d'incanto.
Il crollo fu immediato. I miseri cantarono subito e lo stesso don Ferrante, rivelando cosa si celasse dietro la sua sicumera e le sue smodate ambizioni, si diede, piagnucolando, a supplicare il perdono al duca e, quel che è peggio, ad accusare vigliaccamente don Giulio, che, senza perdere tempo, era riparato alla corte di Mantova, presso la fidata sorella.
In quella stagione storica non si scherzava, quando si attentava alla vita dei governanti: il delitto di lesa maestà dava luogo a un processo, il cui esito non poteva essere che la condanna a morte.
Naturalmente, a Ferrara si voleva che Giulio fosse subito estradato da Mantova, ma Isabella lo difese sino all'ultimo, rifiutando in un primo tempo la consegna e concedendola solo quando Alfonso, di fatto, promise al cognato Francesco Gonzaga la grazia della vita ai fratelli congiurati. Così, Albertino Boschetti e Gherardo Roberti subirono la sorte più tremenda, quella di essere decapitati e squartati in piazza, alla presenza, si noti bene, di Giulio e Ferrante, ai quali era stata notificata la stessa sentenza, ma che, una volta saliti sul palco del supplizio, si sentirono annunciare che il duca, magnanimamente, aveva risparmiato loro la vita, da trascorrere, comunque, in prigionia perpetua in una torre del Castello. Gian Cantore, fuggito a Roma, dove era subito entrato nelle grazie di una donna di un certo rango, ma di malaffare, fu catturato e ricondotto a Ferrara.
Rinchiuso in una gabbia collocata su una torre del Castello, si tolse la vita impiccandosi con uno straccio. I due prigionieri furono ospitati in due camere sovrapposte, con porte murate, a cui si accedeva soltanto calandosi con una corda da una porticina aperta sulla parete alta. Due servitori avevano cura di loro per ciò che concerneva il cibo e il cambio della biancheria. Solo diciotto anni più tardi fu concesso loro di vivere insieme, in una stanza più ampia della medesima torre, illuminata e aerata da cui potevano osservare, al di là delle inferriate e dei vetri, il passaggio dei buoni ferraresi sulla via della Giovecca, dal vicino Ospedale di Sant'Anna sino a Terranova.
Ferrante vi morì dopo trentasette anni di detenzione. Giulio lasciò la prigione alla scadenza di cinquantatre anni, cioè nel 1559, per l'indulto a lui concesso dal nuovo duca Alfonso II: aveva la barba lunga, l'occhio maciullato coperto da una benda, vestiva all'antica ("poiché si conosce - annota argutamente Riccardo Bacchelli - che il sarto gli tagliava gli abiti sempre sul medesimo modello o che egli aveva un copioso corredo") e si meravigliava di vedere la gente così diversa nelle fogge e nei costumi da quella che aveva lasciato tanti anni prima.
Tornando con la mente alla tragedia che coinvolse illustri e meno illustri personaggi, dai primi contatti segreti nella piana delle Lame al tormentoso epilogo della prigionia di Giulio e Ferrante, non si può dimenticare quanto ad essa abbia partecipato con il cuore e con la penna Ludovico Ariosto. Il cantore di Orlando scrisse un'Egloga in merito alla congiura che, peraltro, restò nel cassetto non pubblicata. Va detto subito che, scagliandosi in essa con inesorabile durezza contro quei colpevoli, il suo fu giudicato da valenti studiosi un "atto indiscutibilmente vile" ; assunse, invece, la sua difesa, con la ben nota finezza di osservazioni e argomentazioni, Riccardo Bacchelli.
Il quadro dell'Egloga è noto: siamo d'estate; si sono già scoperti i fili della congiura e due pastori, il giovane Melibeo e il vecchio Tirsi, si raccontano quanto hanno appreso dei fatti straordinari capitati in quei frangenti a Ferrara, insistendo nell'accusa feroce e nella denigrazione degli imputati con l'intento evidente di sostenere le ragioni e il governo del duca.
Mentre si tesse l'elogio della duchessa Lucrezia, di cui si ricorda l'incontro con il novello sposo a Malalbergo e non si fa cenno alcuno al cardinale (il che era più che ovvio), si passa prima a rilevare il "vil cuore" di Ferrante, solo cupido a ogni costo di regnare, poi a screditare don Giulio con la velenosa insinuazione che non fosse neppure figlio di Ercole I, bensì di Alfonso Trotti, fattore ducale esoso e frodatore, che si sarebbe trovato con la madre di lui, Isabella degli Arduini, in qualche luogo recondito dell'entroterra padano. Non va dimenticato un importante particolare: l'Egloga fu stesa quando Giulio non era stato consegnato da Mantova a Ferrara.
Allora l'Ariosto fu davvero così asservito, anima e corpo, alla casa d'Este, da abbracciare in pieno la causa della famiglia regnante senza riguardi per la verità storica e nessuna pietà verso gli sventurati? È pensabile di no. Era al servizio degli Estensi, e non è escluso che proprio il cardinale gli avesse commissionato quella composizione, in quell'estate focosa; ma preminente deve essere stata in lui la convinzione delle infauste conseguenze che la congiura, se avesse sortito esito positivo, avrebbe procurato allo stato ferrarese, determinando una grave situazione di disordine e di ribellione.
Egli, nonostante gli sfoghi delle Satire, in fondo era affezionato ai "duchi miei" e soprattutto ravvisava nel loro governo una continuità di reggimento della cosa pubblica tale da garantire il bene della comunità ferrarese.
E poi, più tardi, volle appellarsi alla pietà di Alfonso verso i due fratelli, quando nel Canto III dell'Orlando Furioso, davanti alla tomba di Merlino sono indicate a Bradamante le genealogie estensi che da lei si genereranno; alla vista di quei disgraziati, la maga grida:
...Ah, sfortunati, a quanta pena
Lungo istigar d'uomini rei vi mena!
O buona prole, o degno d'Ercol buono,
Non vinca lor fallir vostra bontade,
Di vostro sangue i miseri pur sono;
Qui ceda la giustizia alla pietade.
A dire il vero, la grazia era stata imposta ad Alfonso da motivi estranei alla pietà e, quanto alla giustizia, avrebbe richiesto eguale trattamento, o pena o indulto, per tutti i congiurati. Per Albertino Boschetti e per gli altri, non più colpevoli dei due fratelli estensi, non ci fu grazia e neppure pietà.
Chi può dire cosa provasse l'Ariosto, tutte le volte che passava sulla via degli Angeli, a lato del palazzo che era stato di don Giulio, pensando alla triste sorte di quello sventurato e alla parte che egli, poeta e suddito, aveva dovuto giocare, divincolandosi fra le strette della ragion di stato e le pur incontenibili aspirazioni al vero, al buono e al giusto?