Ricordi di scuola

Scritto da  Vittorio Emiliani

Il professor Roffi.Ragazzi e professori del liceo Ariosto... di qualche anno fa.

Al tempo del mio ginnasio-liceo, all'Ariosto, nella vecchia sede di Via Borgoleoni, ormai mezzo secolo fa, Ferrara era ancora immersa nelle nebbie del rimpianto (di quel fatale 1598) e del sottosviluppo. La più debole, economicamente, delle province emiliano-romagnole, ancora popolata di un bracciantato che altrove, anche nella contigua Romagna, cominciava invece a diradarsi.

L'intatta Ferrara di allora sembrava una città assediata da masse di braccianti senza terra, poverissimi. C'era già una prima essenziale differenza fra quanti erano nati e vivevano dentro la poderosa cinta di mura estensi e quanti invece ne erano fuori, anche ai margini. Me ne parlava poco tempo fa il regista Florestano Vancini, nato e cresciuto a Boara. Quanto a me, venuto al mondo in Romagna e cresciuto a Urbino, arrivavo ogni giorno assieme a tanti altri ragazzi e ragazze col trenino della Veneta da Copparo dove nostro padre era dal '48 segretario del Comune.


Di questa massa di pendolari provenienti da Codigoro, da Portomaggiore, da Copparo o da Bondeno, pochi approdavano al Liceo Ludovico Ariosto che allora contava, credo, meno di 300 alunni, in una città di oltre 140 mila abitanti, con un popoloso contado da essa dipendente. Con una netta prevalenza, purtroppo, di maschi, essendoci una sezione soltanto maschile ed una mista. A me era toccata la prima. I pochi "paesani" della quarta ginnasio sarebbero diventati pochissimi in prima liceo. La selezione, infatti, era durissima e le ragioni sociali (anche come avere dei libri e dei sostegni in casa) vi contavano non poco. Chi era bocciato, veniva dirottato alle più facili magistrali o cercava altre strade.

Si poteva ben dire che quel liceo era assai simile, una ventina di anni dopo, con guerra e dopoguerra di mezzo, a quello di Giorgio Bassani (classe 1916), descritto nel Giardino dei Finzi Contini, coi ragazzi del contado che, nell'androne dell'ex convento dei Gesuiti, sembravano vitelli condotti al macello.

Il Liceo Ariosto, oggi sede del Palazzo di Giustizia.Anche se taluni professori erano socialmente aperti e non facevano sostanziali differenze, alla fine quel liceo classico era davvero la scrematura del ceto borghese, medio-alto per lo più, radicato entro le rosse mura di una ex capitale un po' emarginata. Molti destinati a belle carriere, spesso universitarie. Come i miei compagni Farneti, Minerbi, Ravenna (presto emigrato in Israele), Zucchi. O come il simpatico, amichevole Silvio Carletti di Vigarano, già allora di area socialista, che è stato vicesindaco di Ferrara e presidente della Cassa di Risparmio.

Due sono i docenti del ginnasio che ricordo con grande affetto e riconoscenza: Giordano Romagnoli e Mario Roffi. Il primo insegnava materie letterarie ed era, quindi, fondamentale. Di figura solida, una faccia da duro simpatico alla Clark Gable (credo gli piacesse molto), quasi sempre elegante, in giacca, "IN spadina", anche nel più nebbioso e gelido inverno, magari con un maglioncino girocollo, fumatore accanito, era uno che amava intensamente la vita e le donne. Lo si capiva dallo sguardo. Lo si sapeva dalle cronache.

Come professore, nonostante l'esistenza certamente dispendiosa, risultò generoso, preparatissimo in tutto, formidabile didatta di latino e forse ancor più di greco. Non tollerava però che i migliori sgarrassero, neanche un po'. Una volta che sbagliai in toto una versione dal greco e una interrogazione, non soltanto mi rifilò un bel tre, ma scrisse pure una nota a mio padre (che non era meno severo) perché mi tenesse d'occhio. Nel mio ginnasio-liceo (1949-54) era un personaggio. Certe volte arrivava morto di sonno (dicevano che giocasse molto), ma si tirava subito su con un potente caffè seguito da un cappuccino nel bicchiere e cominciava a spiegare col solito piglio incisivo o a interrogare, severo e spiritoso insieme. Le storie dell'Ariosto raccontavano come una mattina fosse spuntato nell'enorme corridoio del Liceo, reduce da un veglione di Carnevale, ancora con lo smoking indosso, le spalle costellate di coriandoli.

Mario Roffi era tutt'affatto diverso. Alto alto, magrissimo, baffuto, vestito sempre in maniera trasandata e un po' buffa, entrava sino nell'androne del classico con un biciclettone nero decorato di scritte su carta bianca adesiva come "Pane ai lavoratori" e "Lavoro ai disoccupati". Insomma, era "scandalosamente" di sinistra in un ambiente liceale piuttosto moderato. Più tardi sarebbe diventato, per varie legislature, parlamentare del Pci. Roffi, originario del modenese, molto vicino al gruppo che, con lo scrittore Augusto Frassineti (quello grottesco di Misteri dei Ministeri e altri misteri), del quale rimase amicissimo, con lo stesso Bassani, con Franco Giovannelli e Antonio Rinaldi, anch'essi ferraresi, si era formato alla grande scuola di Roberto Longhi all'Università di Bologna. Tutta gente di prim'ordine.

E di prim'ordine era Roffi come insegnante di francese, sia per la parte sintattico-grammaticale, sia per la parte letteraria. Del resto, credo che Einaudi abbia ancora in catalogo le sue traduzioni di Alfred De Musset (e pure quelle di Shelley). Con lui perfezionai una conoscenza del francese che non mi ha più abbandonato. Lessi al liceo Madame Bovary nell'edizione di Gallimard. Una curiosità: nella sezione mista del ginnasio insegnava francese la professoressa Chailly, parente di Luciano, compositore e direttore artistico (è stato pure alla Scala), e di Riccardo, ottimo direttore d'orchestra oggi poco più che quarantenne.

Insegnante di religione era un gesuita di grande avvenire, purtroppo scomparso alle soglie della maturità, padre Maddalena. In classe rimanevano a contestare Romano Ravenna, profondo conoscitore del Vecchio Testamento, e un certo Benvenuti, figlio di un fabbro, anabattista, che sapeva tutto del Nuovo. Sulla verginità della Madonna il dibattito fra loro si protrasse per mesi. Era la quinta ora e noialtri laici, già lettori del "Mondo" di Pannunzio, finivamo alla lunga per disturbare. Spesso scattava l'imperativo di padre Maddalena: "Emiliani, fuori!" A un certo punto ci dividemmo fra quelli che frequentavano il circolo dei Gesuiti a casa Cini e quelli che non lo frequentavano. Arrivammo a una votazione e vincemmo noialtri laici, sia pure di misura.

Silvio Carletti.In quel ginnasio avevamo come insegnante di matematica un autentico cerbero, il professor Bellino Rosina, tutt'altro che bellino. Tecnicamente preparato, era una sorta di "terrore" di noialtri studenti, con una spietatezza tipica dei tempi e però in certi casi assurda. Ne feci le spese al liceo, quando mi rimandò a ottobre e all'esame di riparazione, visto che non rispondevo a una domanda, me la ripeté tre volte, finché non mi congedò mettendo sul registro un tre al quale il consiglio dei professori e il preside Chinarelli non poterono col loro voto rimediare. La cosa fece un certo scalpore, dal momento che nelle altre materie avevo una media molto alta. Non sopportava - e me lo disse - che prendessi otto in greco o in italiano e fossi debole in algebra.

Decisi che avrei dato la maturità da privatista, anche se mio padre, pur amareggiato, poteva pagarmi le lezioni soltanto per alcune materie. Anzitutto per matematica che preparai con la professoressa Brunè, bravissima, con una figlia, Bianca, splendida. Le rare volte che entrava nella stanza dove la madre faceva lezione, confesso che i numeri mi si confondevano davanti agli occhi. In questa difficilissima circostanza emerse tutta la generosità di Giordano Romagnoli. Il quale così mi rassicurò: "Le tre letterature, italiana, greca e latina, te le fai da solo. Io ti darò lezioni per gli autori greci e latini, e per la Divina Commedia. Per pagarmi, non ti preoccupare: lo farai quando sarai diventato qualcuno". Con lui studiai tantissimo, con entusiasmo. Forse non ho più studiato così in vita mia. Arrivammo al punto che traducevo, grazie a lui, Platone senza vocabolario.

Alla prova scritta ci diedero Senofonte e fu una passeggiata. L'intero esame di maturità andò benissimo. Presi sette anche in matematica e fisica. Subito dopo però dovetti lasciare Copparo e Ferrara, gli amici cari come Paolo Farneti, politologo, pupillo di Bobbio, troppo presto scomparso, e tutti i copparesi del "treno". Fu un dolore sanguinante, difficile da rimarginare. Mio padre aveva vinto un concorso in Lombardia, vicino a Milano, e a Milano sarei diventato giornalista. Anche grazie alla solida preparazione ricevuta da alcuni professori dell'Ariosto, come Romagnoli, Roffi e Bortolotti.