Il miracolo Certosa

Scritto da  Gaetano Tumiati

Certosa di Ferrara: la curvilinea ala meridionale del chiostro.Il grande, affascinante cimitero è uno dei punti chiave per capire Ferrara

D'accordo, d'accordo: il Duomo con i suoi marmi lunari, la mole del Castello, il quadrivio di Palazzo dei Diamanti. Ma all'amico forestiero che mi chiedesse di suggerirgli un rapido itinerario per capire Ferrara, consiglierei di non trascurare la certosa, il grande cimitero cittadino così chiamato da tutti i ferraresi perché in quel punto sorgeva una volta un famoso convento di frati certosini.

Perché mai in una città tanto ricca di monumenti prestigiosi, eleggere proprio il cimitero fra i suoi simboli più significativi? Il fatto è che, a mio parere, i cimiteri - lontani o vicini all'abitato, ricchi di statue e di cappelle o soltanto di croci e di fiori - rispecchiano fedelmente lo spirito delle rispettive città. E, sotto questo aspetto, quello di Ferrara non è secondo a nessuno.


Innanzi tutto, fa parte della città. Sia i suoi fondatori, nel 1813, sia Ferdinando Canonici, autore nel 1830 del grandioso progetto di trasformazione, poterono infatti realizzarlo entro la cinta muraria grazie a un decreto del 1811 che, riconoscendo a Ferrara il merito di aver compreso ampi spazi verdi entro le sue famose mura, esentava la città dall'obbligo napoleonico di costruire i cimiteri extra moenia.

L'ingresso alla Certosa da via Borso.Per raggiungere la Certosa, dunque, basta imboccare via Borso d'Este, una strada né larga né lunga, fiancheggiata dai muri di cinta dei grandi giardini adiacenti. Spuntando dai due lati, alte sopra quei muri, le chiome degli alberi si intrecciano fino a formare una specie di galleria ombrosa. Da tanta frescura, alla fine della strada, si sbocca all'improvviso in una luce accecante: cielo, tanto cielo e un immenso prato verde e ben curato, gioioso, direi, nonostante la sacralità che gli deriva dai sei tempietti funebri, lontani l'uno dall'altro, ma perfettamente allineati.

Non so secondo quale criterio quei particolari sepolcri siano stati eretti lì, in mezzo al prato, area che Canonici, nel suo progetto, aveva destinato ai "non battezzati". Sta di fatto che almeno due di essi sono destinati a personaggi fuori del comune. Il primo contiene le spoglie di un ragazzo di diciassette anni, Roberto Fabbri, appassionato di aviazione, che morì precipitando con il suo aereo nel 1910; e a ricordarne la tragedia, spicca sul piccolo altare il motore a stella del suo apparecchio con i sette cilindri non del tutto arrugginiti.
Il secondo ospita i resti di un giovane turista americano di religione protestante, Alfred Lowell Putnam, che nel 1855, durante un suo viaggio in Italia, morì proprio a Ferrara, dove la sua famiglia volle fosse sepolto, forse perché - almeno così mi piace pensare - aveva saputo del suo amore per questa città.

Sulla destra del gran prato, austera e autoritaria nella sua facciata di cotto, si erge la chiesa di San Cristoforo progettata da Biagio Rossetti nel 1498, ma aperta al culto solo a metà del Cinquecento. Dal suo corpo centrale, quasi ali accennanti un abbraccio, si dipartono verso nord e verso sud due lunghi "chiostri", o portici curvilinei, dove a ogni arco corrisponde una tomba di famiglia.

Siamo appena alla facciata esterna della Certosa, ma già si avverte un'atmosfera particolare dove tutto - colore del cielo, ampiezza d'orizzonti, armonia di chiostri, odore d'erba e, sì, anche il ricordo del giovinetto precipitato come Icaro e del turista americano amante dell'Italia venuto a morire proprio qui - si fonde in un'unica, inconfondibile identità: Ferrara.
La Tomba Forti, opera di Giuseppe Nicoli e Giovanni Beretta.All'interno del cimitero lo scenario è più vasto e complesso. Se fuori, nel Gran Prato, si respira l'armonia agreste di Ferrara città di pianura, all'interno si avvertono subito due secoli di cultura e di storia, dal primo Ottocento ai giorni nostri. Con qualche salto anche più a ritroso nel tempo, dato che in certi punti resistono ancora strutture dell'antico convento certosino.

Prevalgono naturalmente romanticismo e neoclassicismo, busti di gentiluomini baffuti, giovinette in marmoree gramaglie, angeli levigati - oh, quanti angeli! - ad ali aperte nel volo verso il cielo o chiuse in segno di mestizia. Ma in altre zone si ergono pesanti cappelle gentilizie che, negli stili più diversi - dal dorico al gotico, dall'egizio al liberty - ricordano i fasti delle grandi casate cittadine: i Massari, i Gulinelli, gli Avogadri, i Cini.
In altri settori ancora, più verdi e moderni, si avverte quasi un'eco di civiltà nordeuropee. Quello che meraviglia è come oggi, a differenza di un tempo, profili tanto diversi si staglino sullo sfondo di un generale lindore, quasi di turistica modernità dovuta alle frequenti tavole esplicative e ai cartelli di segnaletica direzionale.

La Tomba Massari Zavaglia, di Giulio Monteverdi.In passato non mi ero mai preoccupato di esaminare con particolare attenzione questo grande patrimonio storico-artistico; negli anni dell'infanzia e della giovinezza, prima del mio trasferimento a Milano, venendo alla Certosa mi limitavo a percorrere sempre lo stesso tragitto dall'ingresso principale alla nostra tomba di famiglia, attento, se mai, a non perdermi nel continuo incrocio di portici.

Di quegli anni lontani mi sono rimasti impressi, come spesso succede, particolari secondari: per esempio, certi vasi da fiori cilindrici, tutti uguali, in metallo smaltato di bianco con una gran croce nera, che certe vecchiette, prima di infilarci due garofani, cercavano faticosamente di riempire d'acqua, affannandosi alle rudimentali pompe a mano dell'epoca.

A questa lacuna ho cercato di rimediare soltanto qualche tempo fa grazie a uno scrupoloso sopralluogo guidato dall'amico Leopoldo Santini - un'enciclopedia, in materia di Certosa - e dall'ingegner Giovanni Casadio, un dirigente dell'azienda cimiteriale che del grande camposanto conosce ogni monumento, ogni tomba, ogni struttura, grazie anche al perfetto sistema di computerizzazione adottato anni fa.

Ho potuto così rievocare tutta la vita dell'intero complesso e in particolare conoscerne i drammi passati - il tremendo terremoto del 1570, il bombardamento del 1944 - e i problemi presenti: l'indispensabile ampliamento e il restauro dell'interno di San Cristoforo che si conta possa essere affrontato grazie a un accordo fra Stato, Comune e Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara.

Ma, soprattutto, ho potuto ammirare per la prima volta opere di grandi scultori come Antonio Canova, Arrigo Minerbi, Leonardo Bistolfi, Annibale Zucchini; e compiere un rapido pellegrinaggio alle tombe dei grandi ferraresi, prima fra tutte quella di Borso d'Este (1413-1471), duca, politico e mecenate, patrono della Certosa, in quanto fu lui a volere il primo chiostro del convento certosino. Il suo sarcofago spicca oggi alto sulla parete dell'Arco Maggiore in singolare, ma tutto sommato armonico, accostamento alle tombe del Garofalo (1481-1559) e del poeta Vincenzo Monti (1754-1828).

La tomba di Borso d'Este.Fra i pittori, a parte l'eccezione del Garofalo, mancano quelli morti prima della fondazione della Certosa e, quindi, tutti i maestri del Quattrocento ferrarese: Cosmé Tura, Francesco del Cossa, Dosso Dossi, Ercole De Roberti. Spiccano invece le tombe e i cippi di alcuni maestri moderni quali Gaetano Previati (1852-1920), Giovanni Boldini (1862-1931), Giuseppe Mentessi (1857-1931), Filippo de Pisis (1896-1956).

La tomba Mentessi merita qualche umana attenzione, non tanto per i pregi artistici, quanto perché fu il pittore stesso a farla costruire per la sua amatissima madre, accanto alla quale volle essere sepolto. Quella di Previati colpisce per la straordinaria umiltà: una semplice lastra "a terra", di pietra ocra, con il nome del pittore inciso senza distinzione accanto a quello dei suoi familiari. La Tomba Mentessi, scolpita da Luca Beltrami.Quanto a Boldini, di tombe ne ha addirittura due: una degli anni Trenta, oggi vuota, voluta dalla giovane moglie subito dopo la morte dell'artista; l'altra eretta in vista del trasferimento della salma imposto da problemi tecnico-ambientali, ospita oggi tanto il maestro quanto la consorte.

Se i pittori ferraresi sepolti alla Certosa non sono pochi, sorprende la quasi assoluta assenza di scrittori e poeti. Non c'è Torquato Tasso che, nonostante i profondi e prolungati rapporti con Ferrara, è sepolto nella natia Sorrento; e neppure Ludovico Ariosto, le cui spoglie, però, sono pur sempre a Ferrara, a Palazzo Paradiso; così come assente, ma non lontano, è il maggior cantore della Ferrara moderna, Giorgio Bassani (1916-2000), la cui tomba spicca nel fascinoso Cimitero degli Ebrei, a poche centinaia di metri dalla Certosa. Nel campo dei poeti a cui rendere omaggio non resta che il sepolcro di Corrado Govoni (1884-1965), in un'area verde che ben si addice all'autore dell'Inaugurazione della primavera.

A un certo punto, dopo tanta ufficialità, ho sentito il bisogno di puntare su obiettivi più personali, di raggiungere tombe mai viste che però ospitano cari amici scomparsi da poco. Dov'era, per esempio, Franco Giovanelli, l'incandescente letterato che conoscevo dai tempi della comune giovinezza? Dove Lanfranco Caretti, maestro di letteratura, grande esperto del Tasso, che, dopo aver passato tutta la sua vita professionale a Firenze, ha voluto essere sepolto a Ferrara, lasciando alla Biblioteca Ariostea oltre quindicimila volumi? Giovanelli l'ho trovato con una certa sorpresa - lui così graffiante e anticonformista - nella penombra certosina del Grande Famedio degli Illustri. Per Caretti, invece, sorpresa opposta: ha scelto per sé e per sua moglie, scomparsa poco dopo di lui, un moderno colombario lustro e specchiante, nella parte più nuova della Certosa.

Il busto di Leopoldo Cicognara, opera di Antonio Canova, nella Cella degli Uomini Illustri.Sull'onda di questi incontri, l'ultimo traguardo del mio pellegrinaggio non poteva che essere la nostra tomba di famiglia, quell'arco marmoreo d'un rosa sbiadito che mio nonno acquistò, credo, alla fine dell'Ottocento. Non sono mai state lunghe le mie soste davanti a quell'arco. In quel punto chi, come me, non crede nell'Aldilà, prova a un tempo un'onda di tenerezza per tanti cari ricordi e una sconsolata amarezza per la caducità delle nostre vite umane. Con un brivido leggero, non sopportabile a lungo.
Anche quest'ultima, dunque, è stata una sosta breve. Quel tanto che basta per rileggere lentamente le epigrafi ben note dei nonni, di mio padre, di mia madre e, anche più lentamente, quella di mio fratello Francesco: "Medaglia d'oro, si immolò eroicamente per la libertà a ventidue anni il 17 maggio 1944".

Dopo qualche minuto, placata l'emozione, ALL'uscita della Certosa mi sono accorto che proprio lì, in quelle ore e in quei luoghi, dopo cinquant'anni vissuti a Milano, era tornata a emergere, calda e viva, la mia talora sopita ferraresità.

Precisazioni
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo:

Alessandro Roveri in merito all'articolo di Vittorio Emiliani, "Ricordi di scuola".
Sul numero di dicembre 2001 della rivista, è assai opportunamente comparso il profilo del ginnasio-liceo Ariosto degli anni 1949-1954, tracciato con efficacia da Vittorio Emiliani: una preziosa pagina di storia della scuola in Ferrara, nobilitata da uno dei suoi allievi più prestigiosi, che scrive con la commossa riconoscenza di chi sa di quanto a essa sia debitore.
Bene ha fatto l'autore a ricordare il talento dei suoi docenti di allora: il rigore didattico e la generosità di Giordano Romagnoli, la finezza letteraria di Mario Roffi, "molto vicino al gruppo che [...] si era formato alla grande scuola di Roberto Longhi ALL'Università di Bologna", gruppo del quale faceva parte, si legge poco innanzi, Antonio Rinaldi.
Giova, a questo punto, arricchire la pagina autobiografica di Vittorio Emiliani con qualche puntuale precisazione.

Rinaldi non era ferrarese, ma lucano di nascita e bolognese d'adozione. Compagno di università di Giorgio Bassani alla facoltà di lettere di Bologna, Rinaldi si trasferì nell'immediato dopoguerra a Ferrara per insegnare storia dell'arte nello stesso liceo Ariosto (chi scrive lo ebbe come professore nell'anno scolastico 1946-1947) e, successivamente, italiano e storia presso l'istituto tecnico Monti.

Negli anni 1937-1943, Rinaldi era stato il più stretto collaboratore di Giorgio Bassani nel lungo e assai rischioso lavoro di costruzione del Partito d'Azione, da entrambi compiuto in fraterno sodalizio con Carlo Ludovico Ragghianti (che portò con sé il giovane neolaureato bolognese a Napoli, a casa di Benedetto Croce).
In giro per l'Italia non sono pochi gli ingegneri di ottimo livello ai quali dispiacerebbe non poco non saper contestato, sia pure amabilmente, il ritratto del loro professore di matematica fornito da un ex scolaro la cui prepotente vocazione umanistica è nota a tutti.

Un particolare della Tomba Francesco Mayr, realizzata da Francesco Bertolini.Mi riferisco al ricordo di Bellino Rosina, che è stato un docente straordinario, non soltanto al liceo, ma anche alla facoltà di chimica dell'università.
Avendo accettato la presidenza del liceo durante la Repubblica di Salò (probabilmente in virtù delle sue idee politiche), nel 1945 un gruppo di studenti ne chiese la destituzione dall'insegnamento.
Contro questa richiesta fu un giovane studente, allora comunista, il futuro avvocato Antonio Passerini, a prendere l'iniziativa di una raccolta di firme. Fummo in molti a firmare, e Rosina restò al suo posto.

Grazie al suo insegnamento, chi si iscriveva al biennio propedeutico di ingegneria riusciva a ottenere agli esami di analisi matematica risultati assai superiori, mediamente, a quelli conseguiti da chi proveniva dal liceo scientifico.
Insomma, la seconda liceo sezione A dell'anno scolastico 1945-1946, con Lanfranco Caretti a italiano e storia dell'arte, Bellino Rosina a matematica e Pietro Bortolotti a latino e greco, disponeva di artiglierie didattiche difficilmente eguagliabili in tutta Italia. Tanto andava precisato, a maggior gloria del liceo Ariosto.

Anna Maria Fioravanti Baraldi, autrice del volume Lucrezia Borgia. La beltà, la virtù, la fama onesta (Ferrara, Corbo Editore, 2002) i segnala alcuni errori in cui siamo incorsi nell'attribuzione dell'immagine di copertina dello scorso numero della rivista. L'immagine, riprodotta a rovescio, non si riferisce al quadro originale di Bartolomeo Veneto, bensì ad una copia settecentesca conservata nel Monastero di Sant'Antonio in Polesina, a Ferrara. L'opera originale, di Bartolomeo Veneto, è custodita presso The Snite Museum of Art di South Bend, Indiana, Usa.
Ringraziamo la professoressa fioravanti Baraldi per la puntualità della precisazione e ci scusiamo con i lettori per l'errore.