Nelle opere di Antonioni, lo squillo di fanfara di Rimbaud "Il faut être absolument moderne" risuona in modo forse più contenuto, controllato; ma la modernità come obiettivo rimane la sua bussola in un mondo che ha ormai raggiunto irreversibilmente quello stato di alienazione, materializzazione e demistificazione già individuato da Karl Marx e da Max Weber. Una zona sociale fredda che dobbiamo percorrere e alla quale gli uomini "devono adeguarsi" come egli stesso aveva affermato in occasione di uno dei dibatti intorno a Il deserto rosso (1964), quando il suo film era stato frainteso come critica ecologica anzitempo. La via del ritorno ci è preclusa: nell'assoluta attualità del cinema antonioniano, quasi senza flashback, viene privilegiato il momento esistenziale del presente.
Di conseguenza, l'opera di Antonioni si colloca in modo altrettanto ambiguo allo zenit di un'epoca di profondi mutamenti sociali, politici e tecnologici come, a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, l'opera teatrale di Anton Cechov, IN cui si festeggia contemporaneamente la fine di un secolo e si guarda con curiosità a un futuro pieno di incognite.
Come il drammaturgo russo, anche il regista ferrarese analizza mutamenti, sconvolgimenti e conflitti epocali nei rapporti interpersonali, erotici e comunicativi. In Antonioni, il non detto relativizza e giudica il detto; il paesaggio, l'ambiente e lo spazio sono strumenti espressivi complementari al corpo umano, alla presenza degli attori, ai gesti e alla mimica.
Nel cinema moderno, il ricorso all'architettura prospettica dello spazio trasforma le opere di Antonioni in gioielli solitari paragonabili ai dipinti di Piero della Francesca nella pittura rinascimentale. Soltanto nella calligrafia ottica del giapponese Jazujiro Ozu - il grande analista del declino della famiglia giapponese - possiamo trovare un'estetica della discrezione paragonabile a quella di Antonioni e quel modo tenero di affrontare la solitudine nella quale si muovono i suoi personaggi.
La nostalgia, come del resto anche l'utopismo, sono completamente estranei ad Antonioni. Egli non piange "l'universo contadino" né cerca una via di uscita in mondi arcaici ed esotici, come Pier Paolo Pasolini; non sogna la declinante bellezza dell'aristocrazia e la fraterna solidarietà del proletariato come Luchino Visconti. Anche il "calore" della fede (cattolica) e l'umiltà didattica di Roberto Rossellini o lo spumeggiante erotismo e le fantasie carnevalesche e barocche fellininiane sono estranee all'opera di un laico come Antonioni.
Egli ha creato un'opera maschile, metropolitana e intellettuale che riconosce, però, alle donne una maggiore e più intensa sensibilità nel prendere coscienza della "logica della disgregazione" (Hermann Broch). Tra queste donne, Monica Vitti ricopre un ruolo particolare. Senza la sua presenza centrale nei film "italiani" da L'avventura (1959) fino a Il deserto rosso e successivamente ancora una volta IN Il mistero di Oberwald (1980) - l'esperimento video e a colori più avanguardistico del regista -, l'opera di Antonioni sarebbe inconcepibile al pari di quella di Josef von Sternberg senza Marlene Dietrich. La giovane Vitti era anche sentimentalmente legata ad Antonioni. Pertanto, nei film girati insieme si consumano gradualmente anche l'estraniamento personale e la distanza emancipatrice dell'attrice dal regista che l'aveva scoperta e trasformata nell'icona sofferente della propria opera, per non dire "identificata" con essa. Una relazione privata che ha comunque conferito una particolare intensità alla "trilogia italiana" da L'avventura a La notte (1961) fino a L'eclisse (1962): la storia paradigmatica dell'amore nei tempi della sua progressiva agonia, vista e vissuta attraverso l'anima di una donna di cui il regista fa il mediatore.
Abbandonando il bianco e nero per il colore e quindi con Il deserto rosso, Antonioni cambia anche la prospettiva. Ora sono gli uomini a essere il medium a cui far ricorso per esplorare un mondo non solo italiano, bensì tutto il mondo. La crisi dell'industria cinematografica italiana e la globalizzazione della produzione cinematografica internazionale, nonché il suo ampio interesse politico, inducono Antonioni a spaziare in ogni campo della modernità globale.
Dapprima focalizza la sua attenzione sulla swinging London degli anni Sessanta, successivamente sui flower people e i movimenti studenteschi di protesta contro la guerra del Vietnam (Zabriskie Point, 1970) nonché sulla "rivoluzione culturale" nella Cina di Mao (Chung Kuo, 1972). Infine, in Professione: reporter (1974), esplora il mondo oscuro dei traffici d'armi per i "movimenti di liberazione" africani e racconta il tentativo di liberarsi della propria identità esistenziale da parte di un impotente reporter mitteleuropeo: una illusione mortale.
Agli esordi, il cinema di Antonioni è fortemente caratterizzato dalla spiritualità della pittura, dalla presenza delle cose, dalla tranquillità meditativa dello sguardo, dal punto coronato del silenzio e dall'ambiguità dei rumori. In questo modo riesce a minare con grande perspicacia ed eleganza la logica narrativa del racconto psicologico tipico del cinema popolare hollywoodiano e del neorealismo quali eredi del romanzo ottocentesco. La continua "violazione" delle "sicurezze" comunicative simulate nel "realismo" del cinema narrativo, rendono i suoi film - caratterizzati dalla massima trasparenza - dapprima sconcertanti e poi misteriosi. Raccontano della fluttuazione della realtà e della sparizione della realtà nella fiction. Prima che la televisione - la nuova guida visiva della nostra esperienza del mondo - inflazionasse la produzione delle immagini e rendesse incerta l'identità tra esperienza e pratica, in Blow-up e Professione: reporter aveva già anticipato questo processo di "srealizazzione" del reale e di riflessione sulla realtà-irrealtà.
Analizzando a posteriori il percorso creativo di Antonioni, possiamo affermare che la sua opera evidenzia un'incredibile coerenza. E questa coerenza conduce in modo sempre più determinato e radicale a una autoriflessione sul proprio lavoro e medium. Identificazione di una donna (1982), l'ultimo film diretto dal regista, può essere considerato la versione di quello che Fellini aveva tentato con Otto e mezzo: una riflessione molto personale del regista sulla propria professione e le sue ossessioni, sul fallimento e il successo nella ricerca di un tema e, infine, sulla reciproca attrazione e ripugnanza dei sessi e la definitiva capitolazione dell'uomo di fronte al tentativo di identificare la donna ideale, ovvero, di definirla "scientificamente". E anche il film a episodi Al di là delle nuvole, tratto da alcuni schizzi e racconti brevi del regista, e realizzato nel 1995 da un Antonioni già gravemente ammalato in collaborazione con Wim Wenders, è composto da un caleidoscopio di riflessioni filosofiche sull'arte e l'identità autobiograficamente camuffate.
Uno dei suoi massimi estimatori, il filosofo e semologo francese Roland Barthes, aveva riconosciuto per primo il mistero del delicato empirismo di Antonioni, quando alla sua "amorosa attenzione" riconobbe "la saggezza di sapere che il senso di una cosa non è la sua verità". Nel suo Hommage à Antonioni del 1980, scrisse che "la sua arte consiste nel lasciare sempre aperta, per scrupolo, la strada del senso. IN tal modo, IN un'epoca come la nostra, adempie esattamente al compito affidato all'artista: quello di non essere né dogmatico né indeterminato."
(traduzione di Giovanna Runggaldier)