Tra l'Elba e il 'picciol Reno'

Scritto da  Andrea Emiliani

Ercole de' Roberti, La cattura di Cristo (particolare), Dresden, Gemäldegalerie Alte Meister...I rapporti tra Dresda e l'Emilia alla metà del Settecento.

Nel folto gruppo di intellettuali e di artisti che unisce la Dresda di Augusto III di Sassonia e l'Emilia, assume risalto la personalità di Giovanni Ludovico Bianconi, un patrizio che, dal "picciol Reno" bolognese-ferrarese, aveva raggiunto, nel 1750, le rive dell'Elba, per divenire qui medico del sovrano.

E' noto come, intorno al gusto collezionistico di Federico Augusto, si fosse posta in movimento l'opinione artistica dell'Europa dei Lumi. La vicenda di Dresda contiene parte degli eventi che contraddistinguono il secolo, i suoi andamenti tendenziali di cultura e di economia, le contraddizioni dell'universalismo e della proprietà nazionale, l'empirismo liberistico e la proprietà. Tutto ciò a fronte dell'ideologia d'una superiore proprietà pubblica, qual è quella che sorregge, dall'umanesimo in poi, l'idea della tutela artistica.


Plinio il giovane testimoniò a suo tempo circa l'esortazione di Agrippa rivolta ai cittadini perché concedessero a un luogo pubblico le belle pitture in loro possesso, piuttosto che vederle pian piano distrutte. "Godiamoci, caro marchese per un istante - scrive il Bianconi ALL'Hercolani - il nobil piacere di questa idea". Seguivano una prima considerazione ("Dov'è quel monarca che possa mostrare una galleria di tanti quadri e di tanto valore?"), un'allusione al mecenatismo di Federico Augusto, e un pensiero conseguente relativo all'Italia: "Non le direbbero mica visioni certe altre savie nazioni se possedessero questi tesori, come non le diranno visioni un giorno i nostri posteri, quando invano ne piangeranno la perdita, come corriamo gran pericolo di dover noi piangere quella scuola che gli avea prodotti".

Lorenzo Costa, San Sebastiano, Dresden, GemäldeGalerie. Qui il discorso deve affrontare il rumore sollevato, dopo il 1745, dalla famosa "vendita di Modena" e, appunto, dalla sensazionale trasfusione della pittura e della stessa cultura storica di impianto emiliano nella Galleria di Augusto III di Sassonia, a Dresda.

L'episodio ebbe una grande risonanza, nonostante che, a queste date, il commercio delle opere d'arte godesse in realtà di un'etica piuttosto dinamica. Credo che in Italia la vendita, seguita per giunta dalla cessione segreta della Madonna Sistina di Raffaello, da parte dei monaci di san Sisto di Piacenza, abbia avuto l'effetto di accelerare le possibili difese del patrimonio locale. Le scoperte di Ercolano e di Pompei, la decisione di Carlo di Borbone di trasferire a Napoli le collezioni Farnesiane di Piacenza e di Parma, e, appunto, la vendita di Modena sono eventi quasi contemporanei, destinati a dare accelerazione a molte decisioni legislative e di difesa dei patrimoni. 

E' vero anche che gli "investimenti" di Augusto III di Sassonia nel collezionismo italiano conferiranno notorietà improvvisa a tutta l'arte padana, fino a fare di quel precoce "déracinement" (che sarà ripetuto da Napoleone mezzo secolo più tardi) l'esempio autorevole di una nuova mobilità collezionistico-commerciale, destinata a invadere anche i territori tipici dell'arte di chiesa e, dunque, delle tavole e tele d'altare, protesa alla ricerca di dipinti (Correggio, Parmigianino, Annibale e Ludovico Carracci, Domenichino, Lanfranco, Albani eccetera) che non sono solo "da stanza", ma che, anzi, hanno spesso trovato nella dimensione della pala d'altare la loro giusta statura, tanto spaziale che di contenuto.

Ercole de' Roberti, Cattura di Cristo, Dresden, Gemäldegalerie Alte Meister.Ciò accade, d'altronde, proprio negli stessi anni 1749-50, allorché Benedetto XIV decide di agevolare il cardinal Valenti Gonzaga nella formazione della Pinacoteca Capitolina grazie all'acquisto delle collezioni Sacchetti e Pio. Il cammino intrapreso dal Pontefice, è volto alla dimensione pubblica del collezionismo, quella che in Italia è rappresentata in modo fondamentale dall'arte delle chiese e della stessa normativa post tridentina.

È proprio a questo punto che è possibile calare il ricordo di Giovanni Ludovico Bianconi, e connettere la sua visione di una Pinacoteca bolognese nel Salone del Podestà e nel Palazzo di re Enzo alle convinzioni di Benedetto XIV. La vendita modenese ha rivelato nella sua sostanza di museo "misto" e non soltanto araldico, ma anzi ricco anche di agganci verso il patrimonio pubblico - come puntualmente avverrà nella susseguente strategia delle acquisizioni - e la reazione politica vaticana si dimostra rapida nell'uscire dalla nozione univoca di museo come antiquarium (che aveva dominato anche la modernissima età di Clemente XI Albani e del nipote Annibale) e a entrare nella nuova forma-museo, quello, cioè, della grande pittura, capace di contenere anche le grandi imprese chiesastiche.

Tra i bolognesi in visita a Dresda, era anche Luigi Crespi, pittore e scrittore, figlio del grande Giuseppe Maria. Egli narrava come il pontefice avesse meditato "di erigere nel nostro celebre Istituto (delle Scienze) una galleria, che fosse superiore a quante altre gallerie principesche si ammirano nella nostra Europa, collocandovi tutte le più superbe tavole d'altare che sono nelle chiese, de' più celebrati autori, redimendole così e salvandole dalle ingiurie, per cui altre si compiangono rovinate e guaste: altre per sempre perdute, al pari della scuola che le aveva prodotte".

Ercole de' Roberti, Salita al Calvario, Dresden, Gemäldegalerie Alte Meister.Sappiamo dalle cronache di Dresda come, già dopo il 1741, Augusto III fosse costretto a cercare una sistemazione per i suoi importanti dipinti, fino ad allora magazzinati nell'edificio delle stalle del palazzo regio. Ed è proprio nel corso del 1742, che Francesco Algarotti, giunto allora dalla Prussia, volle anch'egli presentare al re il suo progetto di una Galleria dignitosa e capace, descritta nelle sue linee di contenuto nel "Progetto per ridurre a compimento il Regio Museo di Dresda, presentato IN Hubertsbourg alla R.M. di Augusto III Re di Polonia il dì 28 ottobre 1742".

Il cosmopolita intellettuale ricorderà positivamente nelle sue Epistole in versi, dedicate nel 1758 a Madame du Boccage, sia l'urbana venustà che i modi attici di Federico, mentre in Berlino il sovrano amico fa risorgere l'antica Atene. Ciò anche se il progetto del museo non otterrà attenzione alcuna presso la corte. Anche a Dresda le proposte museografiche dell'Algarotti, finirono nel nulla, come del resto era avvenuto a Potsdam presso Federico II. Di fatto, nell'aprile del 1745, lo stesso Knöffel viene investito del progetto reale di sistemare a galleria gli ambienti delle stalle nello Judenhof. E su questa decisione forse già gravano le notizie che Ventura Rossi mandava da Venezia e che rivelano attivi molti promettenti contatti con il povero Francesco d'Este, oppresso dai guai della guerra e dall'occupazione e dalle conseguenti drammatiche spese; e costretto a nascondere i suoi famosi quadri anche sotto terra.

Si trattava della raccolta dove, almeno da Francesco I in poi, si usava incorporare anche i dipinti d'altare, come in realtà appaiono essere la Notte del Correggio già in San Prospero di Reggio (1640), altri due Correggio da chiese modenesi, la Deposizione di Cima da Conegliano proveniente da Carpi e, infine, la Vergine tra due Santi del Parmigianino da Santo Stefano di Castelmaggiore (1646). Le questioni politiche si complicheranno, d'altronde, anche sull'Elba, nel bel mezzo del complicato gioco strategico di Augusto III tra la Prussia di Federico II e l'Austria. Certo, la pace del Natale 1754, è il primo segnale negativo per l'esuberante politica di spesa di Augusto. Con la seconda occupazione del 1756, ha termine del tutto questa età dominata da un monarca così singolare.

Scuola Ferrarese (c. 1500), L'Annunziata, Dresden, Gemäldegalerie Alte Meister. Francesco Algarotti, come abbiamo accennato, era giunto a Dresda reduce da un fresco incontro con Federico II di Prussia che, già nel 1740, l'aveva invitato alla sua corte nella qualità che più gli era propria di letterato e filosofo, di uomo di gusto e di conoscitore di esperienze europee. Dalla corte di Federico il Grande, tuttavia, e nonostante i declamati successi di amicizia e di privilegio, lo scrittore si era allontanato già nel 1742, diretto a Dresda, dove verrà introdotto proprio da Giovanni Ludovico Bianconi: ed è in questo momento che egli si prova anche in questa capitale a presentare per la seconda volta il suo progetto "per ridurre a compimento il regio museo di Dresda", nel quale, unitamente al culto dei grandi del passato, egli doveva cercare di introdurre il suo concetto molto attuale d'una committenza diretta agli artisti viventi e di conseguenza della formazione di musei 'programmati', anziché formati con dipinti provenienti dal mercato antiquariale.

Il suo gusto, in formazione dopo il Newtonianesimo per le Dame (1737), aveva assorbito molto delle esperienze compiute nell'Europa settentrionale; tanto che, nel 1741, in una sua lettera a G. Pietro Zanotti, segretario dell'Accademia Clementina di Bologna, egli poteva definire un dipinto d'una forza - diceva - che stava tra Rembrandt e un bellissimo Giorgione: che era un singolare modo di esprimersi.

Algarotti possedeva una tastiera di colloquio con gli artisti che andava oltre la specialità dei generi ed entrava intimamente nella predilezione critica. Coltivava naturalmente una sua cerchia d'artisti. Tra i suoi preferiti, oltre i bolognesi della sua giovinezza, dal Lelli al Creti e poi ai temperisti come il Pesci e il sua adottivo Mauro Tesi, furono De Mura e Solimena tra i napoletani, il Mancini tra i romani, e, sopra tutti, Tiepolo, Piazzetta, Pittoni e Amigoni tra i grandi veneziani. Riteneva che questi amici detenessero il prestigio necessario per usare "il cembalo de' colori, e la musica de gli occhi" toccando il quale "al mover de' tasti IN luogo di udir de suoni voi vedrete comparir colori e mezze tinte, che faranno tra esse la medesima armonia che fanno i suoni".

Le limitazioni, impostegli dalle disposizioni di cui il Bruhl l'aveva fornito in partenza per l'Italia, costituirono un confine difficoltoso che Algarotti non doveva oltrepassare e che si chiuse, tuttavia, con l'acquisto di 21 dipinti in Italia. Ma è probabile che la notizia della vendita di Modena e della sua colossale sostanza giungesse come una folgore all'orecchio dell'Algarotti, che si intratteneva in Venezia alla ricerca dei suoi quadri, delicati come congegni di orologeria o di automatismo.

Dopo il ritorno in Italia, nel 1759, all'Algarotti, ormai un poco invecchiato, venne alla memoria anche quel progetto di museo che non era stato approvato né da Augusto III e tanto meno, sembra, da Federico II, e che al rientro rivelerà di aver rivestito una veste piuttosto singolare. Scrivendo da Riolo, nel mese di settembre, al vedutista e prospettico bolognese Prospero Pesci, un portentoso scenografo e ruinista, lo scrittore gli inviava un disegno di sua stessa mano che figurava niente meno che la piazza di San Domenico a Bologna; e lo prega di volerlo correggere, sostituendo di fatto alla chiesa del Santo "un gran Museo destinato a contenere statue e pitture".

Battista Dossi, Justitia, Dresden, Gemäldegalerie Alte Meister. Era, quest'ultimo, chiarisce, proprio il Museo pensato ai suoi dì per Augusto. Ma l'occasione, finalmente libera, creava ancora più spazio per altri ricordi: dalla parte opposta di piazza san Domenico, il pittore deve infatti figurare  "una facciata comune a due casamenti, da me disegnata e fatta eseguire dal re di Prussia IN Posdammo, quando egli per ornare quella città si degnava di maneggiare il compasso e la riga, e tra le sue invenzioni si degnò di dare un luogo alle mie".

La descrizione si inoltra nei territori dello stile, raccomandando che nell'occasione il Pesci "si ricordi il bel tingere di Pannini o di Vernet, tanto... guardati IN Roma". Ma soprattutto che il pittore "si ricordi di se' medesimo", così che "con la nobiltà del disegno italiano avremo riuniti il sapore e il gusto fiammingo".

Ciò che assume importanza fondamentale per noi, in ragione anche del forte saliente davvero tecnico che pervade il progetto e la sua stessa storia, è la descrizione minuziosa del modello architettonico prescelto. Grande occasione sprecata dai due dominanti della mittel Europa dei Lumi, il concetto strutturale e anche la forma architettonica di questo museo ci inseguono appassionatamente almeno oggi. E cerchiamo ora di esaminarla adeguatamente e, perché no?, di ricostruirla con l'aiuto della matita.

Quell'idea museografica appare subito sostanzialmente attestata in forma quadrata su di un cortile centrale, con una loggia corinzia attestata al centro d'ogni lato, assecondata a destra e a sinistra da due gallerie che ricevono il lume da cinque archi tramezzati da pilastri corinzi. Le gallerie conducono a due salotti, i quali a loro volta ricevono "il lume d'alto per via di quattro cupolini che riescono negli angoli dell'edifizio". Al centro d'ogni lato è una cupola più grande che diffonde luce a un salone che resta così dietro la loggia corinzia. Queste sale devono ospitare " le più belle statue e pitture: le quali, ricevendo lume d'alto, sarebbono comparse vie più belle ancora". E aggiunge per l'esattezza: "Come si può vedere nella Tribuna di Firenze e come praticato avea Rubens nella Rotonda che si fabbricò IN Anversa con un solo occhio IN cima per riporvi il suo Museo".

Battista Dossi, Pax, Dresden, Gemäldegalerie Alte Meister.  Il Pesci tien fede alla parola data, e così, il 12 febbraio dell'anno seguente, il 1760, l'Algarotti ha in casa la sua "piazza di San Domenico rifabbricata di nuovo", destinata a esser presto animata "da belle macchiette dello spiritoso Tiepoletto", e ciò secondo un'abitudine già provata e messa in opera anche con i progetti di Mauro Tesi.

Purtroppo, almeno a tutt'oggi, non credo che il dipinto del Pesci, figurista Giovanni Battista Tiepolo, sia stato identificato. È, invece, possibile rileggere la lunga descrizione del progetto di Museo per Dresda, così come è stata minutamente spiegata al Pesci nella lettera del 1759; e tradurre quelle parole tecnicamente assai specifiche e sicure in una possibile maquette, che ci restituisca in forme omogenee alla grafica architettonico-scenografica di età, vicino insomma ai moduli dell'indiscutibile Maurino Tesi, l'idea di una vita intera di viaggiatore internazionale e di dilettante di genio. Se poi si ricorre alla descrizione del Progetto di Hubertsbourg del 1742, che era tutto indirizzato a chiarire i contenuti, si potrà ottenere un modello completo di quello che potrebbe appunto chiamarsi l'anello di congiunzione tra le due culture, quella bolognese della prevalente personalità pittorico-spaziale e l'altra, sassone, del collezionismo internazionale.

Dapprima, il pennello di Canaletto era stato impegnato su una ricostruzione del ponte di Rialto. E ora dovrebbe essere il pennello di Pesci stesso a impegnarsi creativamente su due disegni che Francesco Algarotti gli manda a Bologna. Il primo disegno raffigura parte della Certosa ovvero delle Terme Diocleziane di Roma; ed il secondo è una pianta della piazza di San Domenico in Bologna. E qui si descrivono le porzioni inalterabili e le altre, invece, destinate alla ricreazione.

"Un po' più obbligato è il secondo schizzo - ammette lo scrittore subito dopo - in quanto non si tratta di rovine e gli edifizi sono prescritte a date forme". E dà inizio alla proposta di lavoro: "Quello che io sostituisco alla chiesa di San Domenico è un gran Museo destinato a contenere statue e pitture, che io aveva altre volte immaginato per il re di Polonia. È una fabbrica quadrata con dentro un cortile. Nel mezzo di ciasun lato è un gran colonnato, o loggia corinzia, che sporge in fuori; di qua e di là da essa sono due gallerie che ricevono il lume da cinque archi tramezzati da pilastri corinti: e queste due gallerie mettono in due salotti i quali al di fuori sono ornati da mezze colonne nel muro, con nicchie bassirilievi tra i due. Ricevono essi il lume d'alto per via di quattro cupolini, che riescono negli angoli dell'edifizio; e nel mezzo di ciascun lato s'alza una cupola maggiore che dà lume ad un salone che resta dietro alla loggia, e tra l'una e l'altra galleria. Queste sale erano così fatte per collocarvi le più belle statue e pitture; le quali, ricevendo il lume d'alto, sarebbono comparse vie più belle ancora. Come si può vedere nella Tribuna di Firenze; e come praticato avea Rubens nella Rotonda, che si fabbricò in Anversa con un solo occhio incima per riporvi il suo Museo". È appena opportuno ricordare che il caso fiorentino, nella Galleria degli Uffizi, risale alla sistemazione bontalentiana della famosa Tribuna; mentre il Museo di Rubens in Anversa, raramente raffigurato nella sua forma antica, ci è restituito in forma invidiabile da un dipinto di C. de Baellieur, oggi in Palazzo Pitti a Firenze.

Benvenuto Tisi (il Garofalo), Maria col bambino e i santi Bernardino, Antonio da Padova, Cecilia e Giminiano, Dresden, Gemäldegalerie Alte Meister. La descrizione prosegue minuziosa, per agevolare il compito del Pesci (il quale ha comunque in mano lo schizzo dell'Algarotti, che tuttavia abbiamo visto dapprima chiamare "pianta della piazza di San Domenico") La descrizione prosegue, tesa come un progetto (la tralasciamo per brevità). E Algarotti, che sta IN campagna, ha molta fretta: "Fra pochi giorni io sarò in Bologna e spero vedere i bozzetti dei quadri. Li vorrei in picciolo; per esempio un piede circa di lunghezza, e otto once di altezza; e ciò per poterli portare, riporre tra' disegni nella cartella, e farmene insieme cogli altri che sto preparando, una galleria portatile ". Lo scrittore pensava a costituirsi una documentazione da utilizzare per qualche ulteriore tentativo? Oppure l'episodio progettuale era terminato e diveniva così storia?

Agli inizi di febbraio dell'anno dopo, il 1760, il corriere porta a Francesco Algarotti, a Venezia, i dipinti che Pesci aveva nel frattempo realizzato quanto a paesaggio, come d'accordo. Evidentemente, così l'abbozzo delle Terme Diocleziane che quello della piazza di San Domenico, quest'ultima nel suo travestimento museografico, avevano avuto buona accoglienza ed era stato possibile passare velocemente alla realizzazione. Infatti, essi "Saranno presto animati da belle macchiette dello spiritoso Tiepoletto".

Un edificio "antico" veniva ricostruito immaginosamente, ma anche con effettiva filologia di restituzione grafica, sullo scenario fantastico del paesaggio. Al figurista toccava di portare all'acme il livello del pittoresco, adottando per le sue macchiette lo stile e le forme di qualche grande, come ad esempio Tiziano. Il crescere della fortuna di Tiepolo e il progressivo stato di malattia dell'Algarotti, ridussero la frequenza dei rapporti. L'amicizia di Maurino e della moglie divenne il solo ricorso alla vita e alla società che gli restava: e il pittore bolognese verso il quale Algarotti aveva indirizzato tanta ammirazione, allo scopo di alleviare i suoi dolori, finì addirittura per decorare la camera pisana nella quale l'Algarotti venne a morte nel 1764.

La collezione di Dresda apre per prima verso il museo inteso anche come documentazione di un arte "pubblica", sia per espressione di stile che per formato. Ciò è utile anche per meglio conoscere le linee di una dinamica storica che vede, oggi, ancora il museo interpretare il ruolo di protagonista del servizio pubblico (insieme al teatro, ma diversamente da questo). E ciò prima della formazione del Louvre e della sua apertura formale del 1793.

Noi pensiamo che anche l'opera di Benedetto XIV per la difesa delle opere d'arte patronali delle chiese, nonché contro l'esportazione abusiva delle opere d'arte chiesastiche, sia un frammento impegnativo della costruzione di uno jus publicum, destinato a sorreggere la struttura stessa dello strumento che si chiama museo. È l'interpretazione che darà alla storia, con il suo pamphlet dal titolo Lettres à Miranda (1796) A. Quatremère de Quincy, letto con attenzione da Pio VII nel 1802; è l'interpretazione di Luigi Lanzi. Tutto ritorna nella legge italiana del 1939 (che in realtà è del 1909, e che somiglia a sua volta - nonostante il secolo trascorso - a quella Vaticana, tradotta nel suo buon Regolamento del 1820). Oggi ancora, dunque, i concetti centrali dello jus publicum risuonano nel nostro Testo Unico (2000), prima che un liberismo rozzo ne decida la distruzione.