Storie di barche e di Po

Scritto da  Mario Morsiani

Un ''batèl da Po'' in navigazione sul fiume.A Occhiobello, l'ultimo calafato del fiume.

Un tempo il Po era la più importante via di comunicazione tra l'Adriatico e il nord-ovest del Paese. Risalendolo, fin dall'antichità si giungeva nel cuore della Lombardia, portandovi persone e ogni genere di mercanzie. Col passare del tempo i traffici si intensificarono, interessando anche Ticino, Mincio, Adda, e la rete di canali artificiali costruita tra Medioevo ed età moderna. Il fiume fu percorso nei due sensi da imbarcazioni sempre più numerose e grandi, al comando di esperti "barcai".


La discesa era, in molti casi, problematica. Per mantenere la rotta, ci si aiutava col timone e coi remi, a volte trascinando sul fondo catene filate da poppa, per rallentare la corsa quando la corrente era troppo forte. Altre volte per correggere la rotta si gettava ripetutamente sul fondo, a destra o a sinistra dello scafo, un ancorotto, salpando il quale si modificava la direzione della prua nella corrente. I "barcai" riuscivano, così, a evitare le secche.

 

La risalita contro corrente presentava altri problemi. Si utilizzava il traino di cavalli, asini, buoi o anche uomini, che percorrevano un sentiero lungo la riva. Col timone si manteneva la direzione e coi remi ci si aiutava quando si incontravano difficoltà col traino. Si usava anche il "paradèl", un lungo remo con l'estremità in ferro, che veniva puntato sul fondale, appoggiandolo contro la spalla e spingendo con forza partendo da prua e arrivando fino a poppa, per tutta la lunghezza della barca.

Con vento dai quadranti orientali, abbastanza costante in certe ore, si issavano le vele, di solito al terzo, come nei "trabaccoli" dell'Adriatico. Le imbarcazioni a due alberi spesso spiegavano un fiocco a prua. Molti erano i tipi di imbarcazione. "Bucintori", "gabarre", "rascone", "magàne", "barbotte", "burchi" differivano per il profilo della poppa e della prua, per altezza del bordo libero, dimensioni, stazza e portata. Non è facile ricostruirne le caratteristiche per la scarsa documentazione. Tutte le imbarcazioni del fiume avevano caratteristiche simili: la prora rialzata, con forte slancio, si elevava aggraziata anche quando la barca era carica al bordo. Il fondo piatto serviva per navigare anche nei bassi fondali, spesso insidiosi. Di questa flotta, sopravvivono solo qualche "barbotta" pavese e qualche "batèl".

Le barche venivano costruite in cantieri lungo le rive del fiume. Il più celebrato è forse quello di Mastro Subbia, a Occhiobello, di cui parla Bacchelli. Altri cantieri importanti: quelli dei fratelli Dante e Otello Chezzi di Boretto (Reggio Emilia), che costruirono barche anche di grandi dimensioni a partire dai primi dell'800; di Arturo Gino Gazzoli, a Mirasole, di San Benedetto Po; di Nadalìn Bignardi, a Occhiobello; e di Orione Ranzani, detto "Bagarìn", a Santa Maria Maddalena. Mi dice un vecchio pescatore di Gaiba, che ognuno "al batèl" se lo faceva in casa. Soprattutto, l'imbarcazione per la caccia, "al batèl da càza" o "batél da pùnta", sulla cui prua veniva fissata una "spingarda" per la caccia ad anatre e oche selvatiche.

Oggi, tra le tante imbarcazioni da diporto che solcano il fiume, se ne vede ancora qualcuna in legno, con le linee tradizionali della "barbotta" pavese e del "batèl da Po". Quest'ultimo può essere "mas'c" (maschio) o "fémna" (femmina), a seconda della forma e dello slancio della prua e della poppa, alte, arricciate verso l'alto ("rìzze") nel "maschio", più slanciate e meno alte sull'acqua nella femmina. La linea è filante in entrambi i modelli, la lunghezza sui sette metri, e la larghezza sul metro e dieci, leggermente più stretta a poppa per facilitare l'andatura contro corrente. Sono le ultime costruite da marangoni e carpentieri negli anni passati. I cantieri sono quasi scomparsi. A Occhiobello ne sopravvive uno.

Lucio Pavasini di Occhiobello, l'ultimo calafato del Po, con una delle sue opere.Lucio Pavasini costruisce ancora oggi battelli IN legno con tecniche tradizionali. Anche la terminologia è la stessa, con definizioni IN dialetto ferrarese, solo IN certe espressioni contaminato dal dialetto del Polesine.
Con fuoco e acqua Pavasini piega le assi di rovere e di larice ben stagionate, le assembla sui cavalletti, le unisce a prua e a poppa coi "mustàz" (cunei di rovere o di robinia), realizzando le due fiancate, chiamate "sponde"o "band"; le fissa con viti e chiodi alle "corbe" (madieri) e ai "zancùn" (staminali) che insieme costituiscono le ordinate e danno forma allo scafo con i suoi slanci di prua, di poppa e laterali.

Due "curbét" (piccole corbe alle estremità dello scafo) completano lo scheletro dell'imbarcazione. Poi si rovescia la barca per applicare sui madieri le assi della chiglia modellate per le curvature di prua e di poppa. Le assi che debordano dalle fiancate vengono tagliate seguendo le linee dello scafo, lasciando un bordo di un centimetro nel punto di congiungimento (la "arzìna", tipica della nostra zona), che rende più sicura la commessura e protegge dagli urti contro i sassi della riva. Rimessa dritta l'imbarcazione, si applica sull'estremità superiore delle "sponde" lo "schèrm" ("falchetta" nella terminologia nautica).

A un metro e mezzo dalla prua, sulla falchetta, viene collocato il "mèzz pònt", una traversa larga trenta centimetri può servire da sedile e da baglio, oltre che da supporto per l'albero ("al pàl d'la vèla") che, attraverso il foro al centro, si incastra nella scassa della "corba" sottostante. Sempre nella falchetta, verso poppa, vengono praticati degli scassi rettangolari, due a sinistra e uno leggermente più arretrato a destra, per inserirvi le scalmiere, chiamate "fòrcle", simili a quelle delle imbarcazioni venete della laguna. All'interno dello scafo, subito sotto la falchetta e per i quattro quinti della lunghezza dello scafo, vengono fissati agli staminali i dormienti, chiamati "nerve", lunghe assi di un'altezza di venti centimetri che assicurano robustezza alla struttura. I paglioli, chiamati " custrà", in larice o abete, coprono all'interno il fondo dell'imbarcazione appoggiando sui madieri, tranne che in un tratto a poppavia, lasciato scoperto e chiamato "sentìna". Qui si raccoglie l'acqua piovana o quella imbarcata nell'alare le reti o filtrata dal fondo non più stagno.

Operazione importante, a questo punto, il calafataggio ("calcadùra") che consiste nell'introdurre nelle commessure tra asse e asse una treccia di stoppa catramata, utilizzando appositi strumenti: il calcatoio, specie di scalpello di ferro a lama larga, e una pesante mazza di legno duro ("calcadòr" e "mazza").

Alcuni dei tanti circoli nautici galleggianti sulle rive del Po, a Gaiba.A imbarcazione completata si passa ripetutamente sull'opera viva del catrame liquido, per assicurare impermeabilità allo scafo.
I remi sono ricavati da tronchi di giovane abete lunghi quattro metri o più ("ziròn"), all'estremità dei quali si inchioda la "pala", ricavata da una tavola sagomata a spatola. Il remo in pezzo unico era una opera d'arte, costruito da artigiani specializzati.
Anche l'albero è ricavato dal fusto di un giovane abete. La vela è "al terzo", dotata di picco e boma, rispettivamente "pìc ad sòra" e "pìc ad sòta".   
L'imbarcazione è pronta per solcare il fiume. Nella voga sul "batèl da Po" il rematore sta in piedi e tiene i lunghi remi incrociati al petto quando è solo; quando i rematori sono due, ognuno agisce con un solo remo per parte, uno dietro a destra, l'altro avanti a sinistra, utilizzando la terza scalmiera.

Per manovrare la vela si utilizza una scotta e per governare un remo, filato da poppa e tenuto sulla falchetta, appoggiato alla base di una delle "fòrcle", permette di tenere la barca in rotta, tanto più che, sbandando di lato sotto la spinta del vento, lo spigolo tra fondo e sponda viene a costituire una specie di chiglia che evita lo scarroccio. Il nostro calafato però non è un "patito" della vela... "quànd a' iéra zòvan - ci dice - e agh'iéra vént bòn, a tiràvan sù i custrà e quéla la iéra la vostra véla."

In un'epoca di motorizzazione, neanche il "batèl" poteva sfuggire a questa logica. Ormai quasi tutti i battelli sono dotati di motore fuoribordo. La lunghezza dell'imbarcazione e la linea filante permettono una navigazione a motore veloce anche con motori di bassa potenza. I "puri" della navigazione nel fiume lo contestano, preferendo remi e vela, ma ormai il motore fuoribordo è stato accettato quasi da tutti.
"Andate, andate a Occhiobello. A Occhiobello, si fanno barche e mulini di Po, per lo meno da Ficarolo a Papozze" diceva Bacchelli. Una raccomandazione ancora valida. Andate: c'è l'ultimo calafato del Po.