E' ormai leggenda che a Ferrara, da decenni, arrivano turisti colti che chiedono di vedere quel giardino; è stata perfino tracciata una mappa dei luoghi bassaniani che però non registra, giustamente, il mitico giardino se non situandolo nella via reale in cui la fantasia dell'autore l'ha posto, Corso Ercole I d'Este, a differenza della magnolia di casa Bassani che ancora attira decine di curiosi e di fedeli lettori, e che con le sue "molli ombre" riporta alla memoria il "caro, il dolce, il pio passato" di cui Micòl, la protagonista del romanzo", è custode e sacerdotessa.
Non è però possibile nel complesso laboratorio della scrittura di Bassani che un elemento, in questo caso il giardino, non sia agganciato almeno a uno spunto di geografia reale e non solo immaginaria. Solo dopo, nella nuova realtà del romanzo, quel giardino diventa il giardino, modello di un universo, personaggio, tema. Così a Ninfa, il bellissimo giardino vicino a Roma della principessa Marguerite Caetani, Bassani sembra aver tratto lo spunto del giardino del romanzo e lo trasforma IN quello che dà il titolo al romanzo.
Nel Giardino dei Finzi-Contini il tempo, che cancella o sbiadisce l'orrore della storia, viene imbrigliato dalla memoria che restituisce in tutta la sua dolente tragicità la presenza salvifica di Micòl, nuova Antigone che si oppone alla mostruosità del male con l'eroica consapevolezza e presa di coscienza che la religione della morte a cui si immola sancisce, una libertà interiore che il giardino come luogo del sacro le ha consentito, proteggendo la sua umanità da coloro che la volevano e potevano negare. Il romanzo di Bassani, in questi decenni, ha rivelato quella complessità di struttura e d'intenti che solamente le opere destinate a durare possiedono. Dalle accese e spesso gratuite discussioni che hanno tentato di porre una ipoteca "ferrarese" sulla vicenda e sui personaggi alle ormai datate polemiche innestate dai giovani intellettuali di quegli anni sulla melanconica elegia di una scrittura che si compiaceva della sua bellezza a fronte di una modernità che ostentava la rottura con la tradizione, solo ora è possibile cogliere la grandezza di questo romanzo proprio riallacciandolo alla grande tradizione dei classici e vedendone la modernità nella continuità.
Lo stesso percorso che Bassani aveva lucidamente tracciato pubblicando in quegli anni Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, confermando con quella scelta il riconoscimento letterario che non gli è venuto mai meno. Leggere il romanzo di Bassani, terzo libro del Romanzo di Ferrara che rappresenta il definitivo approdo della sua vicenda di scrittore in cui vengono riuniti e riproposti tutti i racconti ossessivamente rivisitati in una inesausta cura stilistica, potrebbe significare constatarvi l'affermazione definitiva di una città, Ferrara, che ha dato tutto, ispirazione, cultura, motivazione e appartenenza allo scrittore.
Ma così non è, a meno che non si voglia dare a quella "Ferrara" un significato che travalica di molto il luogo. Con quel nome, Bassani proietta in universo più reale di quello della storia e del divenire le vicende narrate, un luogo e uno spazio che appartengono esclusivamente alla "invenzione" dell'artista.
C'è una risposta assai convincente che Bassani dà a proposito dell'essere o no Ferrara la città reale che ha narrato in tutti i suoi racconti: parlando del Castello di Kafka, Bassani ammette che la città del romanzo non è Praga, ma soggiunge "che cosa potrebbe essere mai, se non Praga?", perché a Praga per Kafka come a Ferrara per Bassani si è posto il processo della conoscenza che ha messo in moto il faticoso meccanismo della ricostruzione letteraria di una città dentro le mura.
Ma Ferrara, come il giardino, saranno riconquistati solo quando si sono perduti, solo quando il processo di maturazione, l'educazione sentimentale dell'artista, si è compiuta, partendo per altri luoghi, per altre esperienze e anche quando la memoria ha trasformato la storia e la cronaca in invenzione che è testimonianza, ma anche rivelazione e scoperta (questo è il significato più autentico del termine latino invenire, "trovare") del tesoro narrativo. In tal modo la città è più reale e le persone, i luoghi che la animano sono divenuti personaggi. E tra i personaggi, il più celebre, il più amato, e forse il più eroico, è proprio Micòl.
L'autore stesso ammette che il Giardino avrebbe potuto chiamarsi "Il romanzo di Micòl". Quello che ci fa riflettere è, dunque: perché l'accento viene posto su di un luogo (per giunta inesistente nella Ferrara "reale") e non sulla protagonista assoluta del racconto? Le risposte, molteplici, non impediscono ad altre chiavi di lettura di aprire il giardino segreto di Micòl, ma quella che qui si vorrebbe proporre è un'interpretazione che si rifà a quelle teorie della scienza del mito che forse Bassani conosceva bene per la sua assidua frequentazione e amore per le opere di Thomas Mann, tra i pochi, con Svevo, Verga, Manzoni, Proust e il giovane Joyce, che lo scrittore ritiene abbiano influenzato la sua opera e il suo modo di narrare.
Mann, già in Morte a Venezia, ma soprattutto nella tetralogia di Giuseppe e i suoi fratelli, aveva per così dire sperimentato la pericolosità e nello stesso tempo la grandezza del mito, serbatoio della conoscenza e disposizione dello spirito a spiegare il mondo, la realtà; ma il mito, di per sé, sfugge a ogni tentativo di razionalizzazione, essendo fuori del tempo, si rivela solo attraverso i racconti mitologici che veicolano le verità sul mondo (e su noi stessi); quelle storie che sondano il pozzo del passato anche senza che i popoli e le razze che le raccontano abbiano avuto contatti diretti tra loro: le popolazioni russe o amerinde; l'antica Grecia o l'India. Per una serie di cause, l'uomo moderno non è più capace di trarre conoscenza dal mito, o dal racconto mitologico, in un certo senso è proibito l'accesso alle grandi realtà spirituali; anzi, un mito tecnicizzato, piegato ai desideri e alle ambizioni del potere, del successo, del consumo, parodia quindi del mito genuino, viene usato per i fini meno nobili dello spirito. E sia Mann che Bassani sono stati testimoni e vittime di quelle lugubri farse che sancivano attraverso la ripetizione grottesca di antichi miti la volontà di sopraffazione: le parate militari, i destini delle razze superiori, l'uso cinico della grande musica wagneriana e dei racconti mitici tra valchirie, eroi nibelungici, o più "classicamente" il Natale di Roma, i fori imperiali, l'uso e abuso della mitologia greca e romana.
Quale mito poteva sussistere come sostanza genuina in un simile "volo di un messo infernale ", come chiama il Montale di La primavera hitleriana la visita di Hitler a Firenze? È il racconto mitico che è la garanzia di ciò che non si può più attingere - la realtà spirituale - ma che ci assicura che ciò di cui ci è vietato l'accesso, esiste. Il racconto mitico, dice Kerény, il grande studioso del mito, amico di Thomas Mann e di Carl Gustav Jung, ha una grande qualità: è immaginifico, è una specie d'opera d'arte e spesso è veicolato dalla poesia e dalle forme letterarie. Una lettura del Giardino dei Finzi Contini credo possa essere tentata proprio in questa direzione.
Per spiegare certe modalità dell'inconscio, Jung ipotizza dei tipi - Madre, Padre, Fanciullo, Fanciulla eccetera - comuni a tutti gli uomini, che egli chiama Archetipi. Essi, oltre che popolare l'inconscio, rivelano nel sogno la loro realtà: sono voci, presenze in cui ci riconosciamo perché nel mito gli Archetipi fondano l'essere. Ai poeti, e lo dice anche Pascoli nella poetica del Fanciullino, è permesso più che agli altri uomini di "procedere con gli occhi aperti" in questo mondo di immagini archetipiche, e riconoscerle e narrarle. Tra queste, una ha la forza dell'innocenza e della predestinazione: è la Kore, ovvero la fanciulla innocente che nei riti greci è rappresentata come Proserpina, figlia di Demetra, rapita dal dio Plutone, signore degli Inferi, che la conduce nel regno dei morti.
Demetra, che è signora delle mèssi, rivuole la figlia e solo quando essa ritorna sulla terra, l'ordine naturale sarà ristabilito: i raccolti matureranno, i cicli stagionali saranno ripristinati, la primavera riporterà i suoi frutti. Però Proserpina-Persefone (che è il nome greco della Kore), per metà dell'anno ritornerà agli Inferi, in quella sede a lei destinata, l'Elysion, che la consacra signora della morte e dei morti.Micòl è, dunque, nello stesso tempo fanciulla divina- Kore che riporta il sorriso nel mondo e signora della morte-Persefone che abita l'Eliso, il giardino dei morti. Nel loro primo incontro, il narratore e Micòl svolgono entrambi la loro funzione di fanciulli divini. Micòl invita il ragazzino a entrare nel suo giardino proibito, ma l'entrata è ancora interdetta per chi, come l'io narrante, non si rende ancora conto che il mondo in cui vive sta precipitando nella dimensione unica non della vita, ma della morte. Micòl è già esperta della separazione dalla vita; l'aristocratica vita dei Finzi-Contini non tollera la mescolanza con gli "altri", salvo forse nel momento della partecipazione al rito in Sinagoga:
Chissà come nasce e perché una vocazione alla solitudine. Sta di fatto che lo stesso isolamento, la medesima separazione di cui i Finzi-Contini avevano circondato i loro defunti, circondava anche l'altra casa che essi possedevano, quella in fondo a corso Ercole I d'Este.
Micòl invita il ragazzo a seguirla in quel pertugio delle mura dove nascondere la bicicletta per scalare il muro del giardino, chiaro simbolo dell'entrata nel mondo dei morti, come lo è quella di Giannina nel Prologo, quando penetra nella tomba etrusca di Cerveteri e lì conosce i morti, senza distinzione tra i vecchi, gli etruschi, "che è come se non siano mai vissuti, come se siano sempre morti" e i nuovi perché "i morti da poco sono più vicini a noi e per questo gli vogliamo più bene". Giannina come Micòl non ha paura dei morti e la sua risposta, che la rende sorella di tutte le korai, è:
«Però, adesso che dici così», proferì dolcemente, «mi fai pensare che anche gli etruschi sono vissuti, invece, e voglio bene anche a loro come a tutti gli altri».
Entrare nel regno dei morti è entrare in un Eliso che preserva dalla storia e dalle atrocità del mondo: qui è possibile vivere anche con la prospettiva della morte; ma Micòl intuisce che il destino dell'io narrante non può né deve adeguarsi al suo. E l'amore, che avrebbe potuto sbocciare nell'Eliso-giardino, dove attutiti arrivano gli echi della tragedia del mondo, va rifiutato in nome di un destino diverso a cui il ragazzo e il giovane ebreo che capisce l'atrocità della storia va indirizzato, per rendere testimonianza non dell'attraversamento dell'inferno, come è stato per Geo Josz di Una lapide in via Mazzini la cui presenza a Ferrara è l'atto di accusa più atroce contro ciò che trasforma la vita nella morte del corpo e dello spirito, ma attraverso la memoria e la scrittura.
"Per me"- commenta l'io narrante - "più del presente contava il passato, più del possesso il ricordarsene". Ancora una volta è possibile interpretare in chiave mitica il ruolo di Micòl, la sua preveggenza, il rifiuto di essere vittima. Se la signora del giardino rifiuta l'amore, vuol dire che ritornare nel mondo dei vivi è impossibile per chi ha scelto il passato come unica dimensione salvifica. Ecco quindi che Micòl sceglie per sé "«le vierge, le vivace et le bel aujourd'hui», e il passato, ancora di più, «il caro, il dolce, il pio passato»", ma per il ragazzo che la ama deve essere offerta la conversione da personaggio ad autore. A custode e referente della memoria. Il rifiuto di Micòl a farsi amare coinvolge ancora una prospettiva al confine tra un al di là che ci chiama e ci attira, il mondo dei morti, la pace dell'Eliso e un al di qua sconvolto dalla bufera della storia. Orfeo, a cui si può ricondurre la funzione del personaggio dell'io narrante, colui che l'ha amata dentro il giardino, la vuole ricondurre nel mondo dei vivi, ma questa Arianna-Micòl si rifiuta di lasciare il mondo delle ombre e, tuttavia, sa che quel personaggio deve diventare un autore, deve uscire dal mondo dei fanciulli divini per testimoniare la realtà e raggiungere la maturità: Shakespeare nel King Lear scrive: Ripeness IS ALL, la maturità è tutto, un pensiero che molti scrittori da Matthiessen a Pavese hanno cercato di raggiungere, addirittura scegliendo la morte come traguardo della propria maturità.
Così è per l'innocente, amata Micòl, non per Bassani che uscendo dal personaggio trova la sua strada di autore. Il paragrafo 10 del IV capitolo si apre con un'epigrafe che constata questo processo di maturazione e della scelta compiuta: "Fu così che rinunciai a Micòl". Rinunciare a Micòl significa acquistare il proprio posto nel mondo. Al tempo dell'amore con Micòl, l'io narrante guarda il mondo come attraverso un vetro, metafora e simbolo della separazione dal reale; ora, con la presa di coscienza del protagonista, l'occhio del narratore restituisce la verità al di là del vetro.
Scrive Bassani: "E i poeti che cosa fanno se non morire e tornare di qua per parlare?" Anche chi dice io nel romanzo è morto ed è vissuto nell'Eliso protettore, ma la signora delle ombre e la custode del passato, Micòl, lo ha costretto a tornare per parlare. Si capisce in tutta la sua grandezza il personaggio della Kore-Micòl che non è solo l'archetipo della fanciulla divina, ma è la guida gentile che accompagna fuori dal regno dei morti (il non-essere di chi vive confinato nella ingannevole pace del giardino e si rifiuta alla consapevolezza) il protagonista.
Questi emerge dal giardino con il suo tesoro. La consapevolezza dell'agire, del fare nel mondo. Ritornare nel mondo dei vivi esige un sacrificio, la perdita della Kore-Euridice che gli affida il compito di parlare, di dire la verità. In una intervista, Bassani afferma: "Dall'infanzia a un certo punto bisogna guarire" e per arrivare alla maturità bisogna perdere la fanciulla divina.
Fu così che rinunciai a Micòl.