Questo importante snodo e testimonianza della fine di una immagine che la corte ferrarese ha voluto dare di sé (procrastinata ancora per più di due secoli a Modena fino alla vendita al sovrano di Prussia della collezione ducale trasferita a Dresda), è motivo per commentare non solo una ricostruzione storica, del resto svolta impeccabilmente nei saggi introduttivi dei due curatori e dai responsabili delle sezioni dei musei romani in cui si trovano ancora tracce più o meno importanti di quella dispersione, ma anche per tentare di ricostruire la personalità dei collezionisti, vale a dire e dei duchi e dei familiari che hanno scelto e amato quelle pitture, quegli oggetti, quei libri.
Una prima ipotesi che si avanza riguarda la personalità del collezionista, anche se in questo caso l'unicità di colui che raccoglie è complicata dall'essere membro di una dinastia e perciò, di proseguire, arricchire, e (perché no?) di distruggere ciò che era già stato oggetto di appassionate ricerche.
Le "sovrane passioni" accattivante titolo di una bellissima mostra sul collezionismo estense a Modena e di un intelligente catalogo, spiegano non solo il gusto individuale dei principi d'Este, ma anche la volontà di dare un segno assai forte di un'immagine di Corte costruita attraverso le raccolte e le committenze.
La raccolta di pitture, i gioielli, i libri miniati, i grandi poemi, la costruzione stessa dell'immagine di Ferrara - quasi che il vero architetto sia il duca e non Biagio Rossetti o Girolamo da Carpi - è la Corte, o meglio ciò che la Corte vuole esprimere e comunicare, ma nello stesso tempo rappresenta anche il singolo signore, i suoi gusti, le sue scelte. E tutto questo, al di là delle occasioni o del prestigio o della convenienza.
Per limitarci al Cinquecento, la personalità dei tre duchi, Alfonso I, Ercole II e Alfonso II (1505-1597 sono i termini del loro regno) operano in modo differente ma unitario nel progettare l'immagine di una Corte che ha bisogno più che mai di venire diffusa per definire il proprio grado di eccellenza e la possibilità di salvezza politica.
E' stato detto che la sopravvivenza di questi piccoli stati, nel processo di trasformazione e di nascita delle grandi entità nazionali e della conseguente perdita delle "libertà" italiane, è assicurata soprattutto dal grado inimitabile della cultura che hanno espresso e dei geni che l'hanno resa possibile. Perfino Firenze ha saputo difendere il suo Stato più per il prestigio culturale e artistico, che già da secoli deteneva, che per la sua effettiva potenza politica.
Ed è incredibile come tutti questi tesori d'arte raccolti per il Principe inesorabilmente diventino il patrimonio mondiale di questo inimitabile momento che è stato il Rinascimento italiano. È il caso di Urbino, di Ferrara, di Mantova e degli altri stati italiani, fino alla colossale dispersione delle raccolte romane sotto Napoleone per la gloria del primo Museo del mondo, quel Louvre che orgogliosamente si volle chiamare Musée Napoleon, straordinaria e impossibile raccolta di tutti i capolavori d'Occidente e d'Oriente ottenuta per rapina e per furto.
La fisionomia intellettuale e umana dei duchi d'Este può essere riletta proprio partendo dalle scelte culturali che hanno operato durante il loro regno, ed è forse possibile dedurre da queste operazioni un profilo che può colludere o armonizzarsi con la consueta immagine che di quel personaggio la tradizione ci ha lasciato.
Prendiamo ad esempio Alfonso I che in questi ultimi tempi è stato visto come "velato" dalla personalità complessa della seconda moglie, Lucrezia Borgia, oggetto di innumerevoli revisioni, studi, interpretazioni volute meritoriamente dalle istituzioni cittadine che hanno decretato il 2002 l'anno della signora del Rinascimento, della potente figlia di papa Alessandro VI, dell'ancor più dilemmatica figura (tra un'interpretazione "al nero" che la giudica esecutrice di ogni nefandezza e una seconda che la giudica, a Ferrara, capace statista, moglie leale, piena di umane e religiose virtù).
Il nome di Lucrezia è capace di suscitare in un pubblico non specializzato l'immagine di un Rinascimento potremmo dire di matrice romantica fatto di lussi e di perversità, di sublimi espressioni artistiche e di crudeli assassinii, di ragion di stato e di sentimenti repressi; il nome di Alfonso, a un pubblico più ristretto, può suscitare semmai l'immagine di un signore della guerra, grazie oggi anche al bellissimo film di Ermanno Olmi, Il mestiere delle armi, che mette al servizio del potente di turno la sua formidabile batteria di armi da fuoco, compresa la "Giulia", il cannone ottenuto con la fusione della statua bolognese di Giulio II, l'implacabile nemico di Alfonso, eseguita da Michelangelo e che il duca ordina di fondere per ottenere il più grande cannone del tempo, preservando solo la testa della statua per le sue collezioni.
Questa immagine guerriera è ribadita nei ritratti ufficiali: e si pensi a quello bellissimo attribuito al Bastianino di chiara derivazione da un modello tizianesco perduto, dove il duca vestito sontuosamente di velluto, seta e pelliccia, con il collare dell'ordine di San Michele concessogli dal re di Francia, posa negligentemente un braccio sulla bocca del cannone e con l'aristocratica mano afferra la spada che gli pende al fianco, che fa da pendant al ritratto del padre Ercole II di Dosso, tutto chiuso nella sua lucente armatura brunita, il volto ornato dalla berretta nera con la spilla d'oro, anzi, emblema, che riluce sul nero del copricapo.
Un rumore di guerra si leva da questi ritratti così lontani dall'elegante mise di Leonello dipinto dal Pisanello, un'interpretazione in chiave moderna del profilo degli imperatori romani, l'acconciatura dei capelli singolare e alla moda, il viso da intellettuale, l'aristocratica positura della testa.
Allora potremmo accontentarci di dedurre che la cultura umanistica di Leonello, come ha messo in rilievo la grande mostra milanese de Le Muse e il Principe, ne ha fatto il signore della cultura a Corte, e invece dei due guerrieri si può solo predicare che ebbero gusti assai rozzi e incuranti delle arti?
Certamente se leggiamo la vita di Alfonso scritta dal grande cardinale Paolo Giovio che fu a Ferrara segretario del duca, potremmo convincerci che il ritratto del duca, che la semplicità dei suoi gusti (si dilettava al tornio, a costruire flauti, a cacciar donne) e l'abilità guerresca lo rendessero immune dalle colte discussioni umanistiche, dalle raffinate scelte artistiche, dal commercio con le arti. In verità, non dobbiamo mai dimenticare che al servizio di Alfonso c'è Ludovico Ariosto di cui il duca si serve con abilità come ambasciatore a tentar di placare la furia papale, o come saggio governatore della selvaggia Garfagnana.
E Ariosto è il "divino" Ariosto, che a giudizio unanime ha raggiunto e superato la grandezza degli antichi, colui che ha saputo nel suo poema offrire quella "autorità" alla dinastia estense sopra le altre signorie e principati; una parola, autorità, che nel linguaggio classicistico del tempo rappresenta una supremazia prima morale-culturale che politica. È su questi sottili rapporti, su questa supremazia culturale prima che politica che si fonda il difficile gioco della strategia militare tesa alla salvezza dello stato operata da Alfonso I: altro che giocoso e rude fonditore e vasaio!
Certo, la gloria del duca è affidata allo strepitoso esito della battaglia di Ravenna del 1512, quando le sue granate (che diventano l'emblema e l'impresa più comunemente usata da Alfonso) decisero sicuramente le sorti della coalizione. E la granata dalla triplice fiamma orna le pagine bellissime di un altro capolavoro della cultura ferrarese, quell'Uffiziolo alfonsino, che è tra i più bei libri miniati del Rinascimento, di un'arte ormai al tramonto di cui però la Corte estense sente la necessità come oggetto del lusso e della rappresentatività del potere.
Ma è con gli artisti e con i pittori che il mecenatismo di Alfonso raggiunge il culmine, rivelando così, se ce ne fosse ancora bisogno, una sensibilità per l'arte che contraddice all'immagine del guerriero e del politico o meglio ci fa capire che quel politico sa bene muoversi e sfruttare le risorse dell'immaginario. Non a caso la Bentini e Guarino hanno dedicato ai camerini ducali un capitolo a sé perché "è difficile immaginare un insieme di dipinti più prodigioso di quello costituito da Alfonso I d'Este per i suoi camerini, vera incarnazione del mecenatismo delle arti del Rinascimento".
Quando il primo dicembre 1598, i cortigiani ancora fedeli a Cesare, ormai lontano da Ferrara, aprono la porta dei camerini d'alabastro sulla via Coperta trovano le stanze vuote di quei capolavori che Alfonso volle adornassero, secondo un programma iconografico complesso e difficile, teso a esaltare la gloria estense, le stanze più amate dal duca.
Mandante del furto, che di furto vero e proprio si tratta, il pontefice Clemente VIII; e complice probabilmente la malmaritata Lucrezia, sorella di Alfonso, sposata e separata dal duca di Urbino, che intende vendicarsi di una famiglia che l'ha osteggiata nelle scelte amorose e politiche. Non è un caso che il nipote del papa, Pietro Aldobrandini, sia beneficiario del testamento di Lucrezia e che a lui si associ nella spedizione e nel furto dei capolavori ducali Enzo Bentivoglio, il cortigiano che vende, trasmuta, s'impossessa anche dei beni allodiali di Cesare d'Este.
Una triste storia che vede disperdersi nelle collezioni papali e romane i capolavori di Bellini, di Tiziano, di Dosso che così amorosamente e intelligentemente Alfonso aveva raccolto secondo un programma letterario e mitologico fornito dal grande intellettuale di corte Mario Equicola.
Se, ancor oggi, lo splendore delle tele dei camerini e dei fregi dosseschi illumina i più prestigiosi musei di Europa e d'America (e non si dimentichi l'ultimo baccanale del Dosso scoperto in India pochi anni or sono), è poi indubitabile che quella imponente serie di opere così famose è stata oggetto di lunghe e pazienti ricerche che hanno portato alla loro disposizione virtuale, al senso da dare al programma iconologico come dimostrano i lavori critici e le ipotesi delle Bentini, di Ballarin e di Hope; un programma visivamente sperimentato nella mostra su Tiziano giovane, ora allestita alla National Gallery di Londra.
Il restauro della via Coperta, affidato proprio in questi mesi all'architetto Marco Borella, pur presentandosi pieno di interrogativi per la sistemazione da dare ai camerini e alla non sempre pacifica collocazione delle opere, sarà un ulteriore contributo allo studio di uno dei più affascinanti programmi pittorici del Rinascimento. È chiaro che la decorazione dei camerini non è opera della volontà di uno sprovveduto. Ancora una volta, la scelta della Corte di puntare sulla supremazia artistica si dimostrerà vincente.
E non si può dimenticare come la sistemazione dell'isola del Belvedere, l'isoletta sul Po di fronte alla città, rappresenti ancora una volta la volontà ducale di far accettare ai cittadini, ma anche a chi guarda a Ferrara con cupidigia da fuori le mura, un paradiso protetto sì dalle armi, come scrive Ariosto, ma un "vero" paradiso, vale a dire una città e uno stato che l'illuminata cultura del Principe hanno trasformato in "Ferrara felice", la mitica Feronia.
Che poi la realtà fosse diversa, che la città soffrisse fame e carestia, che il duca, come è costume della dinastia, scaricasse sugli intendenti la colpa di tasse odiose, è l'altro aspetto dell'immaginario estense: ma non per questo si può invocare la rozzezza di Alfonso nel proiettare Ferrara nell'Olimpo delle città ideali.
Quando si ammirano alla Galleria Borghese i meravigliosi quadri della spoliazione estense e ci si sofferma ad ammirare l'Apollo e Dafne o l'Alcina/Melissa/Circe del grandissimo Dosso, si può capire che l'acme della cività estense nel Rinascimento è uno dei punti obbligati della cultura dell'Occidente.
La Devoluzione ci obbliga a ulteriori riflessioni sulla figura dell'altro Alfonso, nipote del primo, in un momento culturale in cui Ferrara diventa, per l'ultima volta, una delle capitali della nuova pittura e del nuovo modo di rappresentare sorretto o costretto dall'ideologia controriformistica.
Alfonso II, come il nonno può contare nella sua Corte sulla presenza del più grande poeta di quei tempi (e non solo): con il primo Alfonso, Ariosto, con il secondo, Tasso; coloro, cioè, che hanno determinato l'evoluzione poetica (e pittorica) della modernità. E come Dosso, visivamente, accompagna la poesia del "divino" Ariosto, così Bastianino si confà al "parlar disgiunto" del poeta dalla coscienza lacerata: Tasso.
La grandezza del Bastianino, in declino nei secoli che vanno dalla Devoluzione al Novecento, ha avuto una formidabile rimonta dapprima con la grande pagina di Longhi dell'Officina ferrarese, poi con l'insostituibile libro di Gaetano Arcangeli, pubblicato nella stessa collana in cui ora appare Il museo senza confini, e infine con le ricerche di Andrea Emiliani e di Jadranka Bentini alla quale si deve una memorabile mostra nel 1985.
Ciò che appare singolare è che nelle dispersioni delle collezioni estensi le opere del Bastianino siano quasi inesistenti e da questo fatto si può dedurre che già al tempo di Alfonso II, il nome del grande pittore era per lo più associato alle decorazioni del Castello e della palazzina di Marfisa, oltre che per la monumentale opera del Giudizio universale nell'abside del Duomo.
La pittura del Bastianino corrisponde a pieno alla personalità dell'ultimo duca di Ferrara. Una concezione dell'arte che sulla scorta di Michelangelo trasforma la figura umana in una esagerata torsione di muscoli e di membra, una pittura che diventa prodotto mentale, quasi scaturita dall'"idea" insita nella mente del pittore, piuttosto che una realistica imitazione della realtà. Una rappresentazione del mondo quindi contorta e piena di ambiguità, come del resto è la cultura estense degli ultimi decenni del Cinquecento, quando alla consapevolezza della perdita inevitabile della capitale, per quanto contrastata e combattuta, si associa un modo di pensare pervasivo della politica e dell'arte.
Tasso ne è l'esempio più alto, tra una necessaria obbedienza alla Corte come rigido sistema, ormai, di uffici non più liberamente accettati e l'obbligo a quei princìpi religiosi che pur appassionatamente accettati lasciano lo spazio al dubbio, all'incertezza, all'angoscia esistenziale.
Bastianino piace a corte proprio perché declina i modi romani della nuova pittura con questa "ambigua armonia" bagnata nelle umide e brumose atmosfere di un cielo ferrarese. E come l'Equicola ha svolto il tema dei Baccanali per Alfonso I, è il classicista Pirro Ligorio che ispira le decorazioni del Castello fatte da Bastianino e dalla sua scuola per Alfonso II.
Una corte al tramonto affidata non più alle attente cure di un duca-vasaio e tornitore, ma alla cupa presenza di colui che nella giovinezza fu considerato il più bel cavaliere d'Europa, a cui si riportavano le grandi speranze di un consolidamento dello stato e che fallisce proprio perché quel concetto di "corte", sorretta da una cultura la cui supremazia rimane la carta vincente dello stato, è irrimediabilmente in crisi e non ci se ne accorge.
Il celebre episodio dell'incarcerazione di Tasso, la sua prigionia a sant'Anna sono la prova più evidente di un rifiuto di capire la nuova realtà del tramonto delle Corti, in quel momento storico.
L'immensa fama di Tasso avviene prima fuori da Ferrara che a Ferrara e i pittori assieme ai letterati sono i primi a cogliere la novità del pensiero tassiano: un discorso non più di belle forme, ma di aggiunte, di tentativi di forzare l'armonico equilibrio del verso e quindi della composizione della figura.
Il successo presso i pittori contemporanei e poi nel Seicento della poesia tassiana è l'indice di quella modernità che Bastianino ha cercato di emulare; ma saranno poi i Carracci, Guido Reni, la nuova grande pittura bolognese a ricevere il testimone dopo gli ultimi bagliori di una Ferrara non più felice.